Nella terra dei Gamuna che ci assomigliano tanto

A proposito dell'etnografia fantastica di Gianni Celati (da l’Unità del 5 marzo 2005, p. 23).

di in: Rassegna stampa

A quanto pare, oggi l’unico modo di intendere la fantasia è quello insulso e frivolo legato alle suggestioni dell’infanzia o agli stordimenti del cinema: alla saga del Signore degli anelli o a Harry Potter, per intenderci. Dire “fantastico” equivale quasi sempre a evocare barbari signori nordici, fantasmagorie da effetti speciali o sciapiti irrazionalismi, quindi mondi paralleli ed evasivi, estranei deliberatamente (e calcolatamente!) a quello della realtà quotidiana.

La riflessione che ci suggerisce a tale proposito un libro appena pubblicato è invece di segno completamente diverso. Fata morgana di Gianni Celati (Feltrinelli, 2005), pur mettendo in pratica una concezione radicale della fantasia, riesce a definire in maniera sorprendente le attuali zone d’ombra della nostra vita e della nostra civiltà, senza mai scadere nell’affettazione e nell’evasione. Protagonista del libro è il misterioso popolo dei Gamuna, che abita un imprecisato deserto e che vive con la convinzione che “tutto quanto sta in basso sia un unico e continuo fenomeno di fata morgana , e che ogni forma di vita sulla terra non sia che un miraggio del genere, ossia la grande allucinazione del mondo (teru-u ta, nella loro lingua)”. La vita è un correre dietro a visioni inenarrabili e instabili, ci suggeriscono i Gamuna nella scia dei grandi racconti sapienziali; anzi, è proprio un tale incanto greve – l’incanto delle apparizioni e delle iridescenze che durano un attimo – a spingere tutto e tutti verso il basso, verso il degrado, il disfacimento, la sparizione.

Pertanto i Gamuna “lasciano decadere tutto”, case oggetti corpi, senza mai alterare nulla negli andamenti naturali delle cose, e la loro esistenza – che si dà solo nell’eterno presente del “ta” (“questo qui ora”) – è tanto semplice quanto sconvolgente, essendo fondata su una sorta di pigrizia o stupidità che si oppone fin troppo chiaramente alla dinamica intelligenza dell’uomo moderno. In effetti, gli usi e costumi dei Gamuna, la loro lingua melodica centrata sui toni piuttosto che sui significati, ci fanno osservare come in uno specchio – quindi con intensa veridicità – i limiti dell’”allucinato” antropocentrismo occidentale, fissato sempre più su se stesso e incapace di scorgere il pur minimo sollievo nei meandri ordinari dell’esistenza.

Tuttavia, dire che i Gamuna siamo noi stessi o che i Gamuna rappresentano l’“altro”, ovvero stabilire se le loro storie sono vere o false, è veramente riduttivo. Forse i Gamuna siamo noi e gli altri insieme in quei particolari momenti di ebbrezza in cui abbiamo dimenticato tutti i nostri “affari”; o forse, come sostengono certi monaci apocalittici, i Gamuna sono semplicemente i protagonisti dell’ultima favola raccontabile sul genere umano – favola che non a caso ci ripete che le illusioni abitano il mondo da sempre e che la loro scomparsa può alludere soltanto alla fine della società, come sosteneva Leopardi. La sorella Tran , uno dei personaggi più incantevoli di Fata morgana , dopo aver vissuto a lungo tra i Gamuna e averne studiato le abitudini, giunge alla sorprendente conclusione che “si possono avere allucinazioni simili a quelle del deserto nella vita quotidiana più normale, sentendole come il normale corso della vita, con le cose familiari che ci circondano e che di solito non prendiamo per miraggi”. Sentire tutte le cose come familiari, avvertire la malìa della vita ordinaria: ecco il segreto custodito dalla popolazione Gamuna, ecco forse l’arcano che si nasconde dietro la loro pigrizia o stupidità, ma anche dietro tutte le visionarietà più strambe e le più inusitate filosofie.

Ma sono davvero tante le implicazioni dell’etnografia fantastica praticata da Celati: un’etnografia che dunque, lungi dal mirare a uno svago estemporaneo, è utile soprattutto per capire come va il mondo, questo mondo.

Eppure, fantasticare sui popoli non è una novità nella cultura moderna. Già ai primi del Settecento, Giambattista Vico attribuiva alla fantasia un ruolo prioritario nel processo dell’intelligenza umana, arrivando addirittura a farla coincidere con la memoria. Il principio del “verum factum”, secondo il quale, se si sa osservare con umiltà e senza boria, si può riconoscere come veritiero tutto ciò che è stato fatto o pensato dagli uomini più diversi in epoche anche lontanissime, metteva le basi per un nuovo modo di intendere le scienze umane. È proprio seguendo il “verum factum” nelle sue manifestazioni più peculiari, a cominciare dal linguaggio (ogni parola nasconde una piccola favola, dice Vico) fino ai miti e alle leggende più curiosi, che il filosofo napoletano scrive le pagine più ardite della sua Scienza nuova, “fantasticando” sulle meravigliose nazioni gentili e dando vita ad alcune immagini genialmente anticipatrici delle moderne ricerche linguistiche, antropologiche e psicanalitiche: si pensi ai giganti “empi e vagabondi” – che tra l’altro fanno venire in mente gli antenati dei Gamuna, oltre al Totem e tabù freudiano –, o alle felicissime intuizioni sulla nascita delle lingue.

In Fata morgana di Celati c’è un’analoga disposizione curiosa e immaginativa nei confronti del sapere, sebbene sia diverso l’oggetto del racconto: in Vico il linguaggio, i miti e le leggende della tradizione umanistica; in Celati i “frammenti” e le storie delle moderne etnologia, psicanalisi, filosofia. Trattasi inoltre di una disposizione molto poco intellettuale, tesa piuttosto al superamento dell’atteggiamento “critico” (e moderno) che si preoccupa di separare ovunque l’oggettività dalla soggettività, il vero dal fatto, il pensiero dalla realtà. In questo senso, in Fata morgana la scienza antropologica (e filosofica e psicanalitica) viene rivisitata e rinarrata da un punto di vista anche liberatorio, quasi incosciente.

Ma forse fantasticare sui popoli ai più apparirà come una timida follia anacronistica. D’altro canto, giornali, libri, tv parlano ormai tutti di un unico popolo mondiale, fatto di consumatori o di aspiranti tali, ed è strabiliante notare come non si registrino più popolazioni e casi particolari, comportamenti diversi o costumi ignoti, ma solo “anomalie”. Non c’è più niente da inventare o da scoprire, ci dicono, tutto deve semplicemente essere amministrato o corretto. A volte nasce il sospetto che il genere umano, con tutte le sue sconclusionatezze e stramberie, sia defunto; ma per fortuna libri come quello di Celati ci suggeriscono esattamente il contrario, alludendo a mondi in continuo movimento e stravolgimento, e a modi ben più avventurosi e seri di intendere la conoscenza.