L’Isola dei Padroni

di in: De libris

Fra le tante pagine acute di Bataille, ce n’è una, poco nota, in cui l’autore legge Hemingway e il suo mondo dominato dal valore della forza, alla luce di Hegel e della sua morale del Servo e del Signore.

Secondo questa morale, il predominio dei signori sugli schiavi, dei padroni sui servi, si fondava, e in qualche senso si legittimava, sul maggiore coraggio che essi avevano mostrato nell’affrontare la morte negli scontri diretti. Il signore, scrive Bataille, è dunque colui per cui “la vita umana trae il suo valore e il suo sapore dal fatto di affrontare la morte”.

Questa ipotesi etica (la chiamo così perché in effetti, così formulata, è solo uno spunto e una parziale estrapolazione da Hegel), oggigiorno non potrebbe essere condivisa, o almeno apertamente dichiarata, da nessuno. È tuttavia probabilmente la stessa che domina ancora il mondo, in forme camuffate o peggio degradate. È evidente infatti che nel nostro mondo le distanze gerarchiche non si sono affatto ridotte; è altrettanto certo, d’altra parte, che i Signori attuali si guardano bene dall’affrontare “in un temerario accecamento” la morte. Devono essere dunque cambiati i parametri con cui vengono definite queste distanze, e i criteri con cui viene attribuito il rango di Signore.

Semplificando al massimo, si potrebbe dire che fino al cristianesimo questo rango è stato assegnato in base alla Forza, nell’età estesamente definibile come borghese in base al Denaro, e che nel mondo attuale, nella società dello spettacolo, nell’era della comunicazione, nell’impero dei segni, esso sia attribuito in base al Successo. La misura del valore è stata dunque la Forza, finché la preoccupazione dell’uomo è stata quella di sopperire ai bisogni primari; è diventato il Denaro da quando, sconfitta la Natura, il genere umano si è posto il problema di distribuire fra i suoi membri il mondo di cui si era impadronito; ed è diventato il Successo da quando il nuovo problema dell’umanità (l’affermazione è ovviamente prospettica e teorica, ovvero riferita per ora al solo Occidente) non è stato più quello della scarsità, ma quello dell’abbondanza, dell’eccedenza di risorse. Quest’eccedenza, quest’energia in eccesso non poteva infatti essere smaltita che fuori dal corpo, che era ormai saturo. Si è dovuto dunque impiegarla in quello spazio in sé inesauribile che è il Simbolico.

Si è consolidato in sostanza nel mondo contemporaneo un modo più evoluto, più pulito di sopraffare l’altro: essere più famoso di lui. Il nuovo Signore, non traendo più nessuna soddisfazione dall’essersi procacciato la carne per il pasto – il che può fare chiunque dal macellaio; ritenendo rischiosa e poco remunerativa sul piano psichico la soppressione fisica del concorrente; disponendo di quantità di denaro che eccedono tutte le sue necessità – ha bisogno di una forma di appagamento più profonda e radicale: egli deve colonizzare la psiche altrui, occupare col suo nome e il suo volto lo spazio delle altrui esistenze, duplicarsi nelle infinite retine, trombe di eustachio e neuroni del mondo. Nell’era dominata dal Segno, dal Segno progressivamente esfoliato e svuotato del Significato, del Segno disperso e centrifugato fra miliardi di segni, e dunque ridotto a segno (a significante) insignificante, il Riconoscimento dell’Altro non avviene più, hegelianemente, attraverso l’imposizione e la rivendicazione della propria autonomia di fronte alla morte, ma con l’esibizione passiva e inerte della propria cosalità. Il riconoscimento è, alla lettera, quello della propria faccia, del corpo che manifesta le proprie meccaniche emotive, o riproduce poche frasi fatte, o magari impone e espone la propria pura presenza nell’Isola dei Famosi, o Isola, appunto, del Riconoscimento moderno.

Quel che ci si può chiedere a questo punto è tuttavia se questo nuovo criterio di elezione del Signore sia necessariamente migliore del precedente, e se non sia magari preferibile quello del Signore arcaico, che disponeva della vita dell’altro perché aveva avuto più coraggio di lui.

Se la morale del Signore arcaico era crudele, ma era nobile, quella del Signore moderno si è invertita: è gentile e ignobile. Tutti gli umani di successo di cui oggi siamo i servi, hanno invero come prima qualità quella di avere paura della morte più degli altri. Sono infatti quelli più abili a rimuovere la morte, a vivere per gioco, a tacere la verità – che non è necessariamente quella che moriremo, ma è comunque quella che non sappiamo chi siamo, che viviamo in uno spazio aperto, esposto all’ignoto, e che la nostra vita non è un gioco, o comunque è un gioco in cui siamo giocati, e le cui regole ignoriamo.

Queste considerazioni sono state “provocate” dalla lettura di un testo di Ciro Papparo, con cui hanno perso per strada ogni rapporto. Il libro si chiama, dantianamente, Per più farvi amici, è edito da Quodlibet, e punta dritto al cuore di quell’enigma che sono i testi di Bataille. Di Papparo segnalo anche, uscito di recente per Filema, Soggetti al mondo, e in particolare quella straordinaria batigrafia psichica, quella lenta emersione dai fondali dell’io che è il primo saggio, Hors-là.