Movimenti senza fine

"Aristotele dà questa definizione: il movimento è l’atto di una potenza in quanto potenza – quindi non il passaggio all’atto, ma l’atto di una potenza come potenza. Poi dice anche: il movimento è un atto imperfetto – a-telès – che non si possiede nella sua fine, non ha un fine".

di in: Inattualità

Re delle cose, autor del mondo, arcana
Malvagità, sommo potere e somma
Intelligenza, eterno
Dator de’ mali e reggitor del moto […]
Tu sei Arimane […]
E il mondo civile t’invoca”

Giacomo Leopardi, Ad Arimane

Nel suo discorso del 28 maggio 2006 ad Auschwitz, il Papa si è interrogato con accento disperato sul perché dell’assenza di Dio nei momenti dello sterminio degli ebrei; quindi immediatamente ha aggiunto una sua interpretazione storica del nazismo, secondo la quale “un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio”. Sebbene accuratamente inserito nello show dell’attualità, il discorso del Papa, mentre asserisce l’assenza di Dio, o perlomeno una sua distrazione dalla Storia, arriva al punto di azzardare, o perlomeno insinuare, che, più di Dio, nella Storia ha potuto una banda di criminali. E se la Storia – quella che fa da sfondo al discorso del Papa, quella con la maiuscola che ci insegnano a scuola – alla fine altro non fosse che tutta una striscia di avventure, opere e missioni di bande di criminali?

 

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Dico questo perché l’interpretazione storica del Papa mi ha riportato alla mente un intervento di qualche tempo fa di Giorgio Agamben a un convegno del Social Forum (cfr. qui). Secondo la teoria politica di Carl Schmitt, spiegava Agamben, l’organizzazione del Reich nazista risulta dall’articolazione di tre elementi: Stato, Movimento, Popolo. “Lo Stato è la parte politica statica, l’apparato degli uffici; il Popolo è invece l’elemento impolitico, non politico, che cresce all’ombra e sotto la protezione del movimento; il movimento è quindi il vero elemento politico, dinamico, che trova la sua forma specifica nel partito nazionalsocialista”. Secondo Schmitt – che è stato il primo a definire il concetto di movimento – il movimento nazista doveva essere una sorta di motore politico dell’impolitico popolo, e il partito nazionalsocialista lo strumento organizzativo per l’“attuazione” della sua (del popolo) “potenza”. Il nazismo è stato, prima che un partito, un “movimento”, ossia, nell’accezione schmittiana, uno strumento per insufflare nel popolo una certa energia più o meno criminale. La “banda di criminali” di cui ha parlato il Papa, ossia il “movimento nazista”, non è in contraddizione con il popolo, ma è comunque staccato da esso, perché il popolo, per sua natura, è impolitico – o meglio disinteressato alla politica, per dirla in moderna lingua giornalistica.

 

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Bande di criminali e movimenti, discorso del Papa e concezione schmittiana della politica, mi sono apparsi, da questo punto di vista, sorprendentemente convergenti. E ulteriore curiosità ho provato poi rileggendo le parole del Papa e riferendole ai moderni movimenti politici e all’attuale sistema dei partiti che è in auge in occidente: si pensi ai potenti strumenti mediatici utilizzati per propagandare “bugie” e per diffondere “prospettive di grandezza”, per il “recupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza”, con le “previsioni di benessere” e “con la forza del terrore e dell’intimidazione”, in modo da “usare e abusare” il popolo “come strumento della loro smania di distruzione e di dominio”. Non sembrano parole e immagini tratte da una rivista di contestazione no-global, ovvero da un articolo di critica sociale del mondo attuale? Forse che la Storia è condannata a ripetere il solito copione, se insistiamo a guardarla come qualcosa di necessario e di edificante?

 

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Il fatto è che la presenza di movimenti e di bande di criminali non riguarda solo la politica come sfera separata dell’agire umano, ma ormai tutta la società, in questo senso assolutamente “politicizzata”. Al punto da far venire il sospetto che sia impossibile immaginare una società civile, o civilizzata, sganciata da una pervasiva tendenza criminale, da una adorazione obbligata del cupo Arimane leopardiano. Il termine “movimento”, che pure tanto candore sembra emanare, a partire dal XIX secolo, fa notare Agamben, viene utilizzato indifferentemente a destra e a sinistra, e forse oggi ancor di più, perfino per inquadrare fenomeni in apparenza estranei a qualsiasi logica di potere: il movimento ecologista, quello della pace, quello delle associazioni religiose, quello dei precari, etc. – ma anche quello di un partito come Forza Italia, nato cresciuto e pasciuto, a detta del suo fondatore, come “movimento popolare”. Dove conduca, però, l’adozione di un concetto del genere, Carl Schmitt l’ha spiegato e il nazismo l’ha mostrato nella prassi politica: quando il movimento si organizza, ha bisogno di individuare delle “cesure” all’interno dell’elemento impolitico, in pratica ha bisogno di individuare ciò che si differenzia da sé, un nemico. Agamben osserva che in Schmitt la “cesura” può avere una forma etnica o razziale, “ma oggi può avere anche, ad esempio, la funzione di indicare un compito di gestione, di governo dell’elemento impolitico del popolo, ossia delle popolazioni, del corpo biologico dell’umanità. Dobbiamo allora continuare a usare il concetto di movimento o dobbiamo abbandonarlo? Può darsi una forma di movimento che abbia esiti diversi dalla guerra civile? In che direzione potremmo ripensare il concetto di movimento, la sua relazione all’elemento biopolitico?”.

 

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Un popolo non potrebbe mai mettere in atto (ma “concepire” sì: i popoli, come tutti gli organismi viventi, “concepiscono” di tutto) uno sterminio di massa, ma ha sempre bisogno di un “movimento” che lo insuffli e lo guidi – verso un fine o un obiettivo, etc. Un popolo, infatti – ma a questo punto sarebbe più giusto parlare di popolazione, sganciati da qualsiasi Storia –, non ha alcun fine, alcuna opera o missione da compiere, e il suo movimento è sempre e solo naturale e casuale, almeno fino a quando non interviene qualche “movimento organizzato” a pretendere di guidarlo, ovvero di farlo crescere a dismisura come un fungo sotto il proprio ombrello protettivo, senza più consapevolezza che “come la decomposizione delle foglie cadute l’anno scorso fornisce sostanze nutritive per la nuova crescita di questa primavera, così certe istituzioni devono essere lasciate al loro declino e decadimento di modo che il loro capitale e i loro talenti umani possano essere liberati e riciclati per creare nuove organizzazioni” (Fritjof Capra). Pensando invece, non solo nella sfera politica, in termini di “movimento organizzato”, non si può non finire, prima o poi, nelle grinfie di una banda di criminali, perché ogni volta che il movimento, oltre a esserci, vuole anche darsi nella Storia e “fare qualcosa”, è già diventato un partito, qualcosa cioè che imbriglia, che ostacola il divenire naturale e ciclico di una popolazione, spingendola ineluttabilmente verso la violenza e la guerra per il proprio maggior sviluppo. Se il Novecento è il secolo, tra le altre cose, degli stermini di massa e delle ideologie dello sviluppo, lo è anche perché è stato il secolo dei movimenti e dei partiti.

 

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Trascrivo dall’intervento di Agamben le ultime parole sulla necessità di pensare in un altro modo alla parola “movimento” e alla sua “relazione all’elemento biopolitico” (al popolo, alle popolazioni, etc):

Aristotele dà questa definizione: il movimento è l’atto di una potenza in quanto potenza – quindi non il passaggio all’atto, ma l’atto di una potenza come potenza. Poi dice anche: il movimento è un atto imperfetto – a-telès – che non si possiede nella sua fine, non ha un fine. Io suggerirei un piccolo ritocco a questa definizione di Aristotele: il movimento è la costituzione di una potenza in quanto potenza. Ma se questo è vero, non potremo mai pensare il movimento come qualcosa di esterno e di autonomo alla moltitudine, al popolo, e non potrà mai essere soggetto di alcuna decisione, di una direzione concernente il popolo – non potrà mai essere l’elemento di politicizzazione della moltitudine. L’atto incompiuto, imperfetto, infinito, nel senso che gli manca il telos: questo significa che il movimento si mantiene in un rapporto essenziale con una privazione, con una assenza di telos, con una imperfezione. Il movimento è sempre costitutivamente in rapporto con il proprio mancare, anche quindi con la propria assenza di un fine, di un ergon, anche di un’opera quindi. Io non sono mai d’accordo con Negri [Antonio, ndt] sulla questione di porre l’accento sulla “produttività”: qui bisogna rivendicare anche l’inoperosità, l’assenza di opera come momento centrale. Il movimento è qualcosa che non si possiede mai in un ergon, in un’opera, in un telos – anzi il movimento esprime in questo senso l’impossibilità di un telos o di un ergon per la politica. Movimento significa proprio l’indefinitezza e l’imperfezione di ogni politica: lascia sempre un resto. In questa prospettiva il motto citato all’inizio [quando il movimento c’è, fare come se non ci fosse, quando il movimento non c’è, fare come se ci fosse, ndt] potrebbe essere riformulato in senso ontologico in questo modo: il movimento è ciò che se è, è come se non fosse, manca a se stesso; e se non è, è come se fosse, eccede se stesso. Quindi esprimerebbe una soglia di indeterminazione tra un eccesso e un difetto che segna il limite e il resto di ogni politica e la sua costitutiva imperfezione”.