L’altra gamba

di in: Inattualità

Il linguaggio è per essenza dialogo”

Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 1926-1937

1. Alcune annotazioni [rudimentali] sul sistema binario, a chiudere sulla tirannide

Lo “zero” e i sistemi diversi dal decimale.

Prima di scrivere di questo libro importante di Valerio Magrelli (Disturbi del sistema binario, Einaudi, 2006) credo che bisogna riflettere un poco su come contiamo le cose. Nel sistema decimale [il sistema a base 10] ci stanno i nove familiari numeri e lo zero [che fa da stazione].

Lo zero ha caratteristiche specialissime; una delle principali [sicuramente] è che nessuna quantità può essere divisa per zero ; e non si tratta dell’affermazione di un nudo e crudo nonsense [che senso ha dividere per zero , per niente, un qualcosa?]. No, non si tratta di un nonsense, perché quella idea di divisione impossibile ha dato luogo ad almeno due fra i fondamentali diktat della scienza matematica: il limite e l’infinito. E quella divisione impossibile è anche una delle radici amare dell’esempio della torta: tanto più sono piccole le frazioni di una tal cosa, tanto più numerosi saranno quelli a cui spetta quella tal frazione della cosa [al contrario: tanto più grandi le frazioni, tanto meno numerosi i destinatari].

Ma ora mettiamo che ad un tale venga in testa l’idea di non raggruppare le cose in decine. Il tale le cose, per esempio, le vuole raggruppare a gruppi di 4. Il suo sistema di numerare le cose è a base 4. Egli allora dovrà contare con i soli numeri da 1 a 3, più lo zero che ci sta sempre. 10, nel sistema a base 4, vuole dire 4 per il fatto che indica 0 unità e un solo raggruppamento di quattro cose. Ma che accidente di numero a base 4 è per esempio 1333 [da leggere: uno tre tre tre]? Per saperlo si fa così: 1333 (base 4) = 3 + 3*(4) + 3*(4*4) + 1*(4*4*4) = 3 + 12 + 48 + 64 = 127 (base 10). È la stessa identica cosa che facciamo [mentalmente] nel sistema decimale, perché 127, nel sistema in uso, non è altro che questa cosa qui: 127 = 7 + 2*(10) + 1*(10*10) = 7 + 20 + 100 = 127. Dunque la stessa cosa, quella tal cosa precisa che è 127, nel sistema a base 10 è la cosa che è, nel sistema a base 4 è la cosa che è ma va tradotta – come una parola da una lingua che non conosciamo.

Il sistema a base due (il sistema binario) e l’elaborazione elettronica dei dati.

Ma il tale di cui sopra ora vuole semplificare ancora di più il tutto; egli vuole contare le cose semplicemente con il numero 1, più lo zero naturalmente. Ecco, siamo arrivati al sistema binario. Il sistema binario avrà per base il numero 2 [che è dire: le cose vengono raggruppate in coppie].

I numeri del sistema binario sono simpatici e assieme orrendi.

Scriviamo un numero di quattro cifre, per esempio: 1001 [da leggere: uno zero zero uno]. Che numero mai è questo qui? Per capirlo dobbiamo tradurlo al solito modo: 1001(base 2) = 1 + 0*(2) + 0*(2*2) + 1*(2*2*2) = 9 (base 10).

Per quanto faticosi, sono fatti così i numeri del sistema binario, e questa numerazione qui, quella binaria, è quella che si usa nella elaborazione elettronica dei dati, facendo uso di di macchine [gli elaboratori elettronici] in grado di funzionare ad altissima velocità senza il benché minimo intervento dell’uomo durante i passaggi intermedi.

Il computer. Scienza e tecnica. Carnefice e tiranno.

E proprio dell’elaboratore elettronico scrive Magrelli nella poesia “Si riparano personal [computer]”; eccola:

Tu non sai fare nulla
e anche il nulla fai male
riducendomi a ostaggio
della tua falsa scienza,
massimo incompetente
d’una minima tecnica.

Che penso della tecnica?
Non posso dirne nulla
in quanto incompetente,
benché esperto del male
che viene dalla scienza
passiva dell’ostaggio.

E se parlo da ostaggio
è perché questa tecnica,
fingendosi una scienza,
mi consegna al suo nulla,
nel reame di un male
il cui re è incompetente.

Ma più che incompetente,
carnefice; il suo ostaggio
sta abbandonato al male
per placare una tecnica
efferata che nulla
sazia, sadica scienza.

Io non odio la scienza
bensì l’incompetente
che taglia e spaccia il nulla,
lui stesso ignaro ostaggio
assuefatto alla tecnica
come il tossico al male.

Perciò auguro il male
a chi, privo di scienza,
mi incatena alla tecnica
pensando, incompetente,
di trattarmi da ostaggio
senza che obietti nulla.

Il componimento non è per l’intero [letteralmente] condivisibile, perché il computer è esattamente la cosa che abbiamo detto: una macchina in grado di funzionare ad altissima velocità senza il benché minimo intervento dell’uomo durante i passaggi intermedi. Quando un computer non funziona più a dovere è pressoché inutile tentare di intervenire sulle apparecchiature che lo compongono anche da parte di un operatore di capacità tecniche medie. La disciplina – le regole – di quelle apparecchiature appartengono a una scienza, prima, e a una tecnica, dopo, troppo complesse.

Ben altra cosa è invece il corredo di linguaggi che permettono di svolgere l’elaborazione dei dati; qui l’operatore deve tornare [e pretendere a se stesso] di essere ciò che è: una persona.

Ciò che non è condivisibile [letteralmente] nel componimento di Magrelli è il dire di essere noi consegnati al “reame di un male / il cui re è incompetente”. Non è affatto incompetente il re di tale reame. Il suo reame [l’intero pianeta; pardon, l’intero globo] il tale – i moltissimi tali – lo conosce perfettamente, ma soprattutto perfettamente conosce come sfruttarlo. Tant’è che al primo verso della quarta strofa Magrelli corregge e scrive: “Ma più che incompetente, / carnefice”. Nemmeno questo è letteralmente condivisibile. Il tale [i moltissimi tali] che governa il reame di cui dice Magrelli è in senso stretto un tiranno poiché egli – loro – domina e condiziona i comportamenti di un’epoca, quella presente.

A lui, ad oggi, non è ascrivibile un qualche massacro, ma un disastro di sicuro sì: la mutazione [de facto] omologante e acritica dei comportamenti – delle azioni. E qui va rimarcato come tale parola, carnefice, ne richiami un’altra: artefice; e artefice è proprio la parola sottesa a questi versi di In regione dissimilitudinis:

È la cosa più bella di me,
questa deliberata fiducia nello sforzo
e nelle grazia che viene dalle opere.

2. Disturbi del sistema binario. Nella tribù

Valerio Magrelli cerca in questo libro di capire da poeta quali sono i disturbi di questa nostra epoca difficile come ogni altra, ma enormemente più macchinosa di ogni altra. E [per niente affatto casualmente] alla dualità pubblico-privato delle due sezioni oppone, in appendice a chiudere, la dualità dell’anatra-lepre, quell’animale doppio che Wittgenstein s’inventò nel 1947, nell’ultimo trimestre di lezioni che avrebbe tenuto.

L’esperienza che implica la figura dell’anatra-lepre è una esperienza di tipo posizionale, ed è solo alla fine di tale esperienza che avviene il riconoscimento. Che è dire, letteralmente: mi metto così e qui e vedo questo, mi metto così e là e vedo quell’altro. Solo alla fine identifico l’oggetto, e lo dico a me stesso noto. È naturalmente enormemente più complicato di così; ci sta di mezzo il gestaltismo [i fenomeni psichici non sono isolati gli uni dagli altri]; ci sta di mezzo il circa coevo fenomenismo [la nostra conoscenza non può che limitarsi alla rappresentazione che ci facciamo delle cose]; ci stanno di mezzo, sicuramente, molte altre sapienze ancora. Ma alla fine – a ben vedere, e a ben capire – la figura dell’anatra-lepre mostra [per stare al lessico di Wittgenstein] questo: se mi metto così e qui vedo la porzione di anatra, se mi metto così e qua vedo la porzione di lepre; se astraggo identifico l’anatra lepre, con astrarre da leggersi letteralmente [che è dire – anche – distogliersi].

E il libro di Valerio Magrelli parte proprio con una parola doppia (binaria?): guace. Una parola che vuole indicare la terribile mescolanza di guerra e pace della nostra epoca. In questo testo di attacco si parla anche della porta di Duchamp: la porta incardinata a due varchi, che quando ne chiude uno, l’altro lo lascia aperto. Non chiude e non apre la porta di Duchamp: dunque non è una porta la porta di Duchamp; e non può de facto appartenere a una lingua condivisa.

La porta di Duchamp è, in una qualche maniera, un vezzo, e insieme l’attribuzione [intellettualistica] di un ruolo dominante alle opere dell’intelletto; essa è anche l’incapacità di non chiamare porta quella cosa lì. La porta di Duchamp è il gesto dada che non significa nulla per la tua vita. Un atto dada può divertirti, incuriosirti, porti domande; questo letteralmente può fare un atto dada. Non è poca cosa, ma è questo qui che può fare. La questione non è naturalmente: io amo Duchamp – io non amo Duchamp. La questione è la deriva [fintamente] anticontenutista della nostra epoca [che è dire: il magrelliano re del reame ci marcia].

Scrive Magrelli:

La porta del Tempio di Giano
è diventata quella di Duchamp,
aperta e chiusa insieme:
non serve più a tenere fuori i mostri,
ma nemmeno ad accoglierli.

Che cosa c’entri Giano con tutto ciò appare chiaro. Egli è un dio [tutto latino] invocato come dio degli dei; ed è lo spirito di tutte le porte [januae] e [simbolicamente] di tutti gli inizi. Protegge le partenze e i ritorni, e perciò è raffigurato con due teste una opposta all’altra [è bicipite]; e durante le guerre le porte del suo tempio restano aperte in attesa del ritorno dei combattenti.

Magrelli dice: la porta del tempio di Giano è quella di Duchamp: non apre e non chiude niente. Per il fatto di essere sempre chiusa e sempre aperta, essa non può restare chiusa in tempo di pace, non può restare aperta in tempo di guerra; che è dire lo stato di guerra non è immediatamente evidente.

Il secondo componimento della Prima Parte, L’ombra, è una breve scena familiare [come un isolato refrain].

Nei testi successivi Magrelli parla dell’Italia di oggi.

Delle”colonne di profughi” che “avanzano ciechi, / perduti nella notte / della loro identità” [e la ragione è l’assenza di un “Nido”].

Di legalità [“E’ il nodo che scioglie l’umano / legandone i legami.”].

Di Stato e Diritto.

Di “topologia politica”.

Di TV [“ La chiamano TV / … / il vero nome è TU”].

Della lingua inglese che avanza [e sottomette avanzando].

Del turismo di massa [le “formichine del bello”] e della cancellazione brutale delle differenze.

Dei “clandestini, / persi nel mare senza più ritorno”.

Del 11 settembre 2001.

Del 12 settembre 2001.

Dell’ “imperscrutabile”.

Della non poco esilarante polemica di verificare quanto le ostie consacrate siano conformi alle norme igieniche vigenti.

Della non poco esilarante vicenda della ricognizione anatomopatologica sui resti mortali di Petrarca.

Del computer [di cui si è già detto].

La prima parte si chiude con il poemetto in quattro componimenti La seduta. Esso è

dedicato al “diritto al dovere” come “sola forma di eguaglianza possibile / fra le vittime”.

Per quanto alla breve scena familiare raccontata ne ”L’ombra” essa è questa qui:è domenica mattina; la figlia dalla cucina chiede gridando al fratello se è vero che “la Bomba, / quando scoppia, / lascia l’ombra / dell’uomo sopra il muro.” Non di “un uomo” – gli dice – ma “dell’uomo”; il fratello annuisce; il poeta si gira nel letto.

È il passaggio più ermetico [in senso letterale] di questa Prima Parte. Ma è proprio da questo passaggio – da questa dislocazione e varco oscuro – che sorgerà poi il centro [fisico] del libro: La volontà buona.

3. Disturbi del sistema binario. La volontà buona

Come un poemetto in quattro componimenti chiudeva la prima parte un poemetto in quattro componimenti apre la seconda; si intitola Un padre. E appena dopo, ad aprire Uscita di sicurezza c’è una poesia estremamente significativa nella quale Magrelli ci dice ciò che egli giudica essere un lavoro reale.

Infanzia del lavoro

Guarda questa bambina
che sta imparando a leggere:
tende le labbra, si concentra,
tira su una parola dopo l’altra,
pesca, e la voce fa da canna,
fila, si flette, strappa
guizzanti queste lettere
ora alte nell’aria
luccicanti
al sole della pronuncia.

La poesia dice del lavoro come per davvero dovrebbe essere – ma il lavoro come dovrebbe essere per davvero forse non è [e/o altro non è] che il lavoro al suo stato infantile.

Magrelli in questa seconda parte enuclea [che è dire spiega e mette in evidenza] una possibile uscita di sicurezza; ma il fatto che essa si svolga tutta dentro casa fa sorgere nel poeta dei dubbi: qualcosa non va in questo, che non sia proprio questo fatto qui la radice della confusione e della bellicosità di fuori?, che non sia proprio questo fatto qui la radice della “incertezza” di fuori?.

Ma insomma, che accidente è successo a questa nostra epoca se perfino dentro casa, nel “reame” della “volontà buona” il nostro stesso volerci bene ci abbaglia “e certe volte scotta”?

È questa l’implicita interrogazione che appare nell’ultima poesia di Uscita di sicurezza.

S’intitola La famiglia del poeta, e fa così:

Ci amiamo tanto
ma ogni cozzo è un lampo,
qui dentro, stretti stretti,
vicini ogni momento
in un sacchetto annodato dalla sorte:
si sente forte come
per gli urti ticchettiamo!
Da noi non fa mai notte,
c’è sempre uno sprazzo che scocca
illuminandoci appena ci tocchiamo.
Noi ci vogliamo bene,
ma di un bene che abbaglia
e certe volte scotta.
Noi siamo la famiglia
delle pietre focaie.

“La famiglia del poeta” è una poesia in una qualche maniera dichiarativa: serve a spiegare; come tale è suscettibile necessariamente in se stessa di un possibile mancamento, di un possibile difetto di spiegazione. Tant’è che Uscita di sicurezza non si chiude esattamente su di essa, ma con una sorta di nota a piè di pagina. Si tratta di una breve mail affettuosa e coltissima dell’amico poeta Ermanno Krumm a Magrelli, e dice: “Caro, apro solo oggi internet. Ed ecco che ti sento dar di cozzo, come quei cerbiatti che nei riti di Venere, cioè in Lucrezio, si scontrano dall’altra parte del fiume. Come te, di là dal Po. Che sfreghi la tua (la vostra) pietra focaia. Un bacio anche a lei, tuo Ermanno”.

Insomma, che accidente è successo in questa nostra epoca, se perfino dentro casa, nel “reame” della “volontà buona”, il nostro stesso volerci bene “certe volte scotta”?

Magrelli non può allora che approfondire [vedremo che questo verbo ritornerà] e aggiunge al suo libro un’Appendice. L’appendice ha una struttura tutta sua. C’è un dialogo di apertura, una iscrizione da Wittgenstein con la figura dell’anatra-lepre, un corpo centrale costituito da coppie di testi dei quali a sinistra il primo è in corsivo, e a destra il secondo in tondo, e due testi finali in tondo, numerati I e II, che hanno il compito del Post scriptum.

Inserto

“Ho i nervi urtati stasera. Proprio urtati. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? A che pensando? A che?
Io non so mai a che cosa stai pensando. Pensa”.

Eliot, La terra desolata, 1926, tradotta da M. Praz Una partita a scacchi, 111-114

Il neurologo è un poco [a volte] l’estrema ratio al nostro malessere. Non vogliamo una ragione inconscia per esso [che ci darà fastidio, che aumenterà non poco quello stesso malessere]. Vogliamo una causa che sia tangibile, e un rimedio altrettanto tangibile. Ma intanto tu non capisci perché stai male. E inoltre: stai nervoso e basta, o stai male? Perché non si tratta solo di prostrazione; è una sensazione di pericolo senza ragione; è le mani che ti paiono tremare, è il cuore che ti pare scoppiare; e il tono dell’umore si abbassa sempre di più; e la tua anima [quella cosa non poco complicata] si dissecca; oppure è il contrario di così, ma – tant’è – stai male lo stesso; e la tua eccitazione diviene incontrollata, a volte ira, orrenda. Ma non vuoi una ragione inconscia per tutto ciò, ne vuoi una conscia come non mai.Vuoi una ragione conscia al tuo malessere. E allora ti dici: sono stati loro ad averti indebolito e spossato. Sono stati loro, i neuroni. Sono loro la ragione del tuo esaurimento. Ecco, ti sei esaurito. Il tuo sistema nervoso si è spaccato in due parti. Le devi ricomporre. No, non stai male. Hai solo i nervi urtati. Dimmi ciò che pensi, neurologo, dillo, liberami dal dolore. Dimmi a che stai pensando. Dillo.

4. Disturbi del sistema binario. L’anatra-lepre

Magrelli, nel dialogo che apre l’appendice, parla di una diga che sbarra il fiume al fine di alzarne il livello; parla della localizzazione del male [lo scenario bellico della famiglia]; il Nemico ha un avamposto in casa, dice, e non solo: la sua azione si colloca a livello neurologico; localizzazione, avamposto; ma localizzazione è proprio quel processo per cui si percepisce l’esatta posizione di qualcosa, e avamposto ha a che fare con l’estremità più vicina al nemico; Nemico, lo chiama Magrelli, che è dire avversario e assalitore, o simulata scolta.

Ma l’esperienza che implica la figura dell’anatra-lepre è una esperienza di tipo posizionale, ed è solo alla fine di tale esperienza che avviene il riconoscimento. Scrive Magrelli:

Al sole del nemico

Noi maturiamo al sole dell’ingiustizia.
Al sole dell’ostilità, noi maturiamo.
Lievitiamo al calore dell’offesa,
perché l’offesa è l’alito da cui siamo sospinti
nella fornace dove deve compiersi
la panificazione della vita.
La spiga, gonfia, pesa, piega il debole stelo,
le messi piegano il capo al sole del nemico.

Ingiustizia ed offesa sono dunque il nostro lievito; il sole del nemico, che ha piegato la spiga prima, poi lieviterà le messi, ogni singola spiga fra noi e di noi.

Da messe a massa: “la panificazione della vita” è avvenuta.

E allora: “Come vuoi che mi spurghi dall’ira, / … / che mi compone, che io sono, / impagliata creatura, / pelle cucita su una massa letale, / involucro appena, pellicola / su una sostanza infetta”.

E tutto sta nel fatto, continua Magrelli, che “la dissimulazione / si compie inavvertita”, sotto gli occhi di loro, “i Sonnambuli del Male”, gli avversari agli avamposti e insieme “l’altra faccia della luna psichica”.

Un pericolo [inavvertito] ci sovrastava, e tutto prendeva origine dal fatto [stava nel fatto] che non facemmo trasparire [li dissimulammo] i nostri sentimenti e i nostri pensieri.

E non fummo in grado di riconoscere una porzione cospicua di noi; perdemmo la capacità di riconoscere a noi stessi quella porzione cospicua di noi; divenimmo ignoranti a noi stessi.

Allacciati agli altri per una fragilissima [si rivelò poi] estremità giungemmo in una situazione senza vie e porte d’uscita, dove le stesse categorie di bene e di male [la moralità] diventarono oggetti di scambio.

E l’errore è immaginare che la soluzione a tutto questo desolante disagio [desolare è anche devastare] è un difetto di profondità [di verticalità], perché “non c’è nulla nel profondo,” “tutto si gioca sullo stesso piano, / anzi, nella medesima figura!”.

L’inconscio è complanare, scrive Magrelli.

E allora, se è così, il Male – inevitabilmente – avrà bisogno, vorrà, di nuovo spazio: “non si può fare tutto dentro casa”.

Siamo alla chiosa, all’Addio alla lingua: la cessazione del sogno di una lingua condivisa, che è dire una lingua spartita e appoggiata, e insieme la cessazione della cieca fiducia “nella sacra liturgia del colloquio”.

“Ogni scambio verbale” è stato reso vano, inutile. La porta che apre è la stessa che chiude, in una irrazionalità edonistica e feroce, primitiva. Alla diramazione [alla biforcazione] delle due strade [il Bene, il male] eravamo obbligati da quella stessa nostra lingua [da quel nostro discorrere] a scegliere il Bene; che è dire la verità che non può essere infranta.

5. Una specie di conclusione

Un anno prima di lasciare l’insegnamento, nel 1946, e dunque appena prima delle ricerche sull’anatra-lepre, Ludwig Wittgenstein, Socrate all’epoca presente, afferma che se “l’uomo non può uscire dalla sua pelle” è pur vero che “l’amore (…) è la perla di maggior pregio che si porta in cuore” e “per la quale non si accetta nulla in cambio” e “che si apprezza come il tesoro più prezioso”.

Quindi scrive: “Mostra, a chi lo possiede, che cos’è un grande valore”.

Che è dire, come dirà poi con altre parole: Discerni il metallo prezioso dagli altri.

E Roy Monk in nota alla locuzione il tesoro più prezioso cita Matteo 13, 45.46: “Il regno dei cieli è simile anche a un mercante in cerca di perle. Vedutane una di gran pregio, va, vende ciò che ha, e compra la perla”.

Scrive Magrelli, in coda al suo libro:

Creature biforcate e logo-immuni
mi sorsero davanti,
invulnerabili alla verità.
Ero entrato nell’era dell’anatra-lepre,
in un’età del ferro, del silenzio.

E un poco tale ferro, tale silenzio [identica natura, identica sostanza] è mitigato da quel plurale Creature di attacco, con creatura che significa ciò che significa: ogni essere creato e insieme il bambino e insieme il figlio. Ecco, il nodo è questo qui: quelle creature biforcate e logo-immuni sono i figli; e a noi s’impone il dovere del loro diritto all’amore e all’educazione; ma una buona educazione, è cosa risaputa, parte da insegnamenti semplicissimi [per dirne una che i tavoli dopo pranzo non si rigovernano da soli e che i figli devono dare una mano, senza se e senza ma]. Siamo stati noi ad avere sostituito quasi per l’intero tutto ciòcon il paradosso delle merci.

Come si fa ad uscire dal binario morto delle merci [e dallo “Scalo merci della moralità” di cui scrive Magrelli]? Come si fa ad uscire dal binario morto “di un pensiero tecnomorfo che scambia la semplice possibilità tecnica di realizzare un progetto con il dovere [acritico] di porlo in atto [al fine di trasformare quasi sempre quel progetto in nuove merci]”? Lo stesso Konrad Lorentz di queste parole trascritte da “Il declino dell’uomo” (1983) sostiene che solo il contatto più stretto possibile con la natura vivente può allontanarci da questa oltremodo pericolosa avanzata, per giunta e non poche volte fintamente anticontenutista. Ha ragione, e il diffondersi sempre più largo del sentimento ecologico, e della coscienza ecologica, è un importantissimo motivo di fiducia. Perché la natura vivente è equilibrio, contrappeso. È “l’altra gamba” che ci sorregge e ci bilancia; ed è anche di essa che ci dice Valerio Magrelli nel suo nuovo libro, come in questa bella poesia nella quale si oppone alla “tenia che divora da dentro la mia vita” la “grazia” di un’età giovane:

È immagine di poesia, la figura
paterna che si nutre di me,
la tenia che divora da dentro la mia vita?
Immagine di poesia è la figura
di mio figlio, che beve proteso
verso il rubinetto alzandosi
su un piede, mentre l’altra gamba,
prodigio della statica,
distesa oscilla in aria, contrappeso
magico per bilanciare la sete.
Avessi anch’io la sua grazia
nell’equilibrare la fame
di chi dentro di me
si sporge e mi dilania!

PS – Eccolo. Sono loro. Che fanno? Leggono tabulati. Che ci è scritto? Solo cifre. Cosa sono quelle cifre? Sono i ricavi di un solo giorno di lavoro al futuro. E che lavoro è “il lavoro al futuro”? È “il futuro del lavoro”. Di preciso? Scambiarsi informazioni. Trasformare questo scambio nella sola opera possibile. E quanto hanno guadagnato con questo scambio? Cifre incredibili. Come stanno scritte? Con il sistema decimale. Perché non in binario? Il binario manda avanti la MACCHINA. I soldi si contano come sempre. Ma noi abbiamo tutto in grande sufficienza. A che serve tutto ciò. Chi mi vieta di avere di più? Mi stai dicendo che vuoi togliere di mezzo il limite? Il re del reame dice che non c’è limite. Fermati. Non dire altro. Ragiona.

Fermo, agosto 2006