Un altro Novellino/ 3

di in: Un altro Novellino

XXI. Il mondo dovunque è cambiato, ma qui . . .

Alla corte dell’Imperatore Federico giungevano da ogni parte del mondo artisti, musici e favellatori, oltre che gente dotata in qualche misura di abilità varie: schermitori, giostratori. E questo perché Federico aveva fama di essere sommamente generoso verso uomini siffatti, dediti ossia alla cura delle arti.

Durante un ricevimento a corte, una volta Federico faceva addobbare lussuosamente la reggia, servire in tavola e portare l’acqua per le mani, quando ecco presentarsi tre maestri negromanti, pronti a offrire le loro abilità. “Chi è il più bravo di voi?”, domanda l’Imperatore. Si fa avanti uno e dice: “Sono io, pronto a esaudire”. “E allora avanti, giochiamo”, chiede Federico. Tutti e tre i negromanti mettono allora in mostra i loro incantesimi e subito si oscura il cielo e viene giù una pioggia improvvisa: tuoni fulmini baleni: ecco che sembrava una gragnuola di colpi scaturire dal firmamento: tutto quanto tremava: i cavalieri fuggivano tutti, a ripararsi, chi in camera chi altrove. Ma dopo un po’ di tutti questi prodigi il tempo si rischiara.

In seguito a questo gioco magico i maestri negromanti si accomiatavano chiedendo una ricompensa, e l’Imperatore non voleva negargliela. I negromanti chiedevano che il conte di Bonifazio, che faceva in quel momento compagnia all’Imperatore, li seguisse e li soccorresse contro i nemici che avevano nel loro paese. Federico comanda al conte, molto teneramente, di esaudire quella richiesta, e il conte si mette in cammino coi negromanti e giunge al loro paese dove gli vengono mostrati bei cavalieri, sontuosi palazzi, eleganti destrieri, e inoltre gli vengono mostrati i nemici contro cui dovrà combattere. Il conte di Bonifazio fa tre guerre e riesce a sconfiggere agevolmente i nemici dei negromanti, per la qual cosa gli si offrono grandi doni e moglie, dalla quale ha tre figli. Quindi il conte di Bonifazio diventa signore di questa terra, che gli viene lasciata dai negromanti in eredità, mentre i negromanti stessi andavano via, non si sa dove. Tornavano dopo quarant’anni e incontravano il figlio del conte che ormai aveva quarant’anni, e al conte dicevano: “Vieni con noi, andiamo alla corte di Federico, vediamo come stanno ora le cose laggiù”. Il conte rispondeva: “Adesso ho un figlio di quarant’anni, è passato tanto tempo: cosa volete che io riconosca più, laggiù? Tutto sarà cambiato e mi sembrerà estraneo”.

Ma i negromanti insistevano e il conte allora li seguiva. Giungevano alla corte dell’Imperatore, e l’Imperatore stava ancora lì a donare e a offrire esempi della sua generosità. Federico vedendo arrivare il conte Bonifazio voleva sentire la sua storia, e il conte cominciava: “Ho fatto tre guerre e ho avuto in dono una terra della quale sono signore, ho un figlio di quarant’anni, e il mondo dovunque è diverso, cambiato, ma qui…”.

Federico si dilettava ad ascoltare quella storia e voleva che il conte sempre riprendesse da capo raccontandogli le cose che aveva visto e vissuto; e il conte riprendeva così: “Il mondo dovunque è diverso, cambiato…”.

XXII. Chiamalo pazzo…

L’Imperatore Federico, mentre si trovava a cingere d’assedio Milano, gli scappò un falco da caccia dentro le mura della città. L’Imperatore teneva molto a quest’animale e mandava perciò suoi ambasciatori a chiederne la restituzione ai milanesi. I milanesi si riunivano in consiglio e avevano quasi deliberato di restituire, come un atto cortese, il falco all’Imperatore, quando ecco interviene un vecchio, bizzarramente vestito con stoffe di mille colori, che dice: “Magari avessimo qui l’Imperatore come abbiamo il falco! Gli farei provare quello che stiamo provando noi milanesi sotto il suo assedio!”.

Gli ambasciatori ritornavano da Federico e gli riferivano l’accaduto. Federico si meravigliava moltissimo, esclamando: “Come è possibile che vi sia in Milano qualcuno che si oppone alla mia potestà?”. Eppure è così, sancivano gli ambasciatori, ai quali infine Federico domandò: “Ma che aspetto aveva questo oppositore? E gli ambasciatori: “Era vecchio ed era bizzarramente vestito con stoffe colorate”. “Adesso è tutto chiaro”, concluse l’Imperatore, “poiché andava vestito a quel modo, non poteva essere che un povero pazzo!”.

XXIII. Un uomo molto pulito

Vestito di verde com’era suo solito, l’Imperatore Federico se ne andava a caccia, quando presso una fontana incontrò un uomo che si stava preparando a mangiare. Costui aveva disteso una tovaglia bianchissima per terra e si era sdraiato disponendo cibo e vivande. L’Imperatore gli si avvicina e gli chiede un po’ di vino. Quello risponde: “Non ti sognare nemmeno di porre le tue labbra vicino alla mia borraccia; se hai un tuo corno, io te ne verso, altrimenti niente da fare”. L’Imperatore prometteva all’uomo che avrebbe bevuto a garganella, senza poggiare le labbra alla borraccia, e quello gliela porge. Ma dopo aver bevuto secondo i patti, Federico scappa via spronando il cavallo , e porta con sé la borraccia.

L’uomo si è accorto dai vestiti che quel ladro fa parte dei cavalieri dell’Imperatore, e si reca il giorno dopo al Palazzo chiedendo di essere ascoltato. Federico lo fa entrare e gli chiede più e più volte di raccontare la sua storia. L’uomo gliela racconta e l’Imperatore si mette a ridere a crepapelle. Dopo aver riso, fa questa domanda: “Riconosceresti la tua borraccia?”. E l’uomo: “Certamente!”. Federico allora la estrae da sotto le vesti e l’uomo si stupisce molto, scoprendo esser stato proprio l’Imperatore a fargli un simile torto.

Però l’Imperatore Federico a quel punto non soltanto restituiva la borraccia, ma gli offriva anche molti doni, perché non aveva mai visto un uomo così premuroso e attento all’igiene personale.

XXIV. A ciascuno il suo

Il Signor Imperatore Federico aveva con sé due grandissimi saggi, ed era solito disquisire con loro standogli seduto in mezzo: tra il Signor Bolgaro, per l’appunto, e il Signor Martino. Un giorno Federico poneva a questi due grandissimi saggi la seguente questione: “Posso io, che sono Imperatore, togliere a uno e dare a un altro solamente perché sono Imperatore, e senza dare spiegazione di niente, ma soltanto perché così mi piace?”.

I due saggi rispondevano in maniera diversa. Bolgaro sosteneva che sì, poteva fare come gli pareva e piaceva. Martino, invece, diceva che esiste pur sempre una legge da rispettare, una legge che si presuppone giusta ma che usiamo forse proprio per spiegare a tutti il perché di una scelta.

Il Signor Imperatore Federico si mostrava alquanto soddisfatto di entrambe le risposte, perché entrambe erano vere, e perciò donò a ciascun saggio qualcosa. Al primo diede un belcavallo bianco da parata e un cappello scarlatto, al secondo comandò di stilare una legge secondo la sua morale.

Come sempre, la scelta dell’Imperatore fu oggetto di ampie discussioni tra i saggi del reame, i quali giungevano poi a queste sommarie conclusioni: a Bolgaro, Federico aveva fatto dono, come a un giullare adulatore, di cose materiali; a Martino, invece, aveva concesso la signoria della sfera spirituale (o morale, che dir si voglia). 

Ma entrambi – si badi bene – avevano detto il vero, perché forse ai tempi di Federico Imperatore potevano convivere i desideri del re e quelli del popolo esattamente come in uno stesso corpo convivono il bagnato e l’asciutto.

XXV. Generosità e delusione

Saladino era il sultano più nobile che sia mai esistito, uomo valoroso e generosissimo. Qui si raccontano due episodi esemplari della sua vita.

Un giorno d’inverno stava presso un bagno pubblico a fare una sauna e gli si avvicina un uomo che gli offre un paniere di rose sfiorite alquanto. Saladino gli fa dono di duecento marchi, mentre il suo tesoriere si appresta a registrare prontamente l’uscita sul libro contabile. Ma ecco che invece che scrivere CC. (duecento), gli scappa la penna e segna CCC. (trecento) marchi, e il Sultano gli dice: “Cosa hai scritto?”. E il tesoriere: “Chiedo venia, Maestà, ho sbagliato, cancello subito”. E stava per elidere una C. Ma Saladino gli intima: “Non sia mai detto che la penna di un tesoriere possa essere più generosa di me. Invece di cancellare, aggiungi una C.: quindi scrivi CCCC. (quattrocento cioè); e crepi l’avarizia una volta per sempre!”.

In un’altra occasione Saladino, al tempo del suo sultanato, accettò, nel bel mezzo della guerra, una tregua con i Cristiani, perché gli era venuto in mente di andare a vedere le usanze che avevano costoro, e, se era il caso, di diventare cristiano egli stesso.

Venne di persona a osservare i costumi dei suoi nemici storici. Vide le tavole apparecchiate per mangiare, con tovaglie bianchissime, e le lodò molto. Vide come era sistemata la tavola del Re di Francia, divisa dalle altre, e la lodò molto. Vide ancora le tavole dove mangiavano i maggiorenti, e anche queste lodò moltissimo. Vide infine i luoghi dove mangiavano i poveri, in terra cioè, umilmente, e li biasimò molto, perché gli pareva ingiusto che coloro che il Signore amava di più avessero un posto così basso e vile nella gerarchia sociale. Infine il Sultano Saladino invitò i Cristiani nel suo paese, affinché vedessero i costumi suoi e del suo popolo. 

I Cristiani rimasero assai stupiti dal fatto che i Saraceni mangiassero tutti seduti per terra, anche se, sotto una grande tenda, il Sultano aveva fatto stendere enormi tappeti sui quali erano intessute e disegnate tante croci. I Cristiani stolti entrando in questa tenda, camminavano sulle croci e sputavano per terra come se per terra non ci fosse niente. A questo punto perciò il Sultano li riprese con queste parole: “Voi predicate Cristo, e allo stesso tempo lo oltraggiate così? A me sembra che voi amiate il vostro Dio solamente in apparenza e in parole, ma non in opere e in effetti. Le vostre usanze non mi garbano affatto”.

Interruppe quindi la tregua, riprese la guerra, e pensò che proprio non valeva la pena convertirsi alla religione cristiana.

XXV.bis Chi spende più di quanto guadagna…

Messere Amari, signore di molte terre in Provenza, aveva alle dipendenze un castellano che spendeva smisuratamente. Un giorno, passando proprio per la contrada dove viveva Beltramo (questo era il nome del castellano spendaccione), Amari viene invitato da costui ad albergare presso di lui come suo ospite.

“Ma tu quanto guadagni?” – domanda messere Amari a Beltramo. E Beltramo gli rispose una certa cifra. “E quanto spendi?” – domanda ancora Amari. E Beltramo disse che spendeva molto di più di quelle che erano le sue entrate, ossia più di duecento lire di tornesi al mese.

Allora Messere Amari sentenziò: “Chi spende più di quanto guadagna, prima o poi finisce che non magna!”. E, partitosi da lui, andò ad albergare presso un altro suo castellano.

XXVI. Desiderio e colpa

Un borghese di Francia aveva una moglie bellissima, che frequentava abitualmente le altre donne della villa. Durante una festa , la moglie del borghese di Francia fa caso a come sia guardata da tutti con interesse e attenzione una bellissima signora vestita molto elegantemente. Allora pensa: “Se fossi vestita come lei, certamente anch’io sarei guardata con piacere da tutti”.

Se ne torna a casa ed espone questo suo pensiero al marito, aggiungendo il desiderio di avere una veste elegante come quella vista all’intrattenimento. Il marito le promette che al primo buon guadagno, esaudirà questo suo desiderio. 

Dopo qualche giorno, capitò che un uomo gli chiedesse in prestito dieci marchi, promettendogli di restituirne poi dodici. Si trattava di usura, e il borghese di Francia rifiutò. Quando la moglie lo viene a sapere, fa succedere il finimondo. “Come?” – dice – “mi avevi promesso che al primo guadagno avresti esaudito il mio desiderio, e invece addirittura vai sfuggendo le occasioni propizie per far soldi? Sei un fedifrago!”.

Al che il borghese risponde: “Ma l’usura è un peccato che porta dritti all’inferno!”.

E la moglie: “Tu non mi ami!”.

E il borghese: “D’accordo, farò il prestito a usura, voglio che tu sia contenta”.
Qualche giorno dopo le donne della villa si incontrano presso il monastero, e questa volta la bella moglie del borghese di Francia è ancora più bella perché sfoggia un abito di ricca fattura, e tutti finalmente la ammirano. Soltanto il saggio Merlino, che quel giorno si trovava lì per caso, ebbe da ridire: “Quella è veramente una donna bellissima, peccato però che a vestirla abbiano contribuito i nemici di Dio!”. La donna allora domandò: “Cosa intendete dire?”. “Intendo solo ricordarvi” – continuò Merlino – “quelli che sono stati i vostri comportamenti negli ultimi giorni: voi avete spinto vostro marito a diventare usuraio soltanto per ottenere una bella veste, che è il frutto di un guadagno malvagio, e perciò è malvagia essa stessa. Mi sbaglio forse?”.
Non si sbagliava certamente. Come facesse però a sapere tutte queste cose, la donna non riuscì mai a scoprirlo. Rimase tuttavia così colpita da quelle parole, che prontamente davanti a tutti si spogliò del suo ricco vestito rimanendo completamente nuda, si inginocchiò davanti a Merlino e lo supplicò di aiutarla a liberarsi da inclinazioni tanto malvagie.

XXVII. Sempre più saggio

Un uomo reputato molto saggio se ne andava in cammino per il mondo. Gli si avvicinò uno cominciando a dirgli molte cose spregevoli, offendendolo e biasimandolo, accompagnandolo per tutte le strade con parole molto pesanti.
Un altro uomo, a vedere quella situazione, si turbò e s’indispettì molto, e si rivolgeva al grande saggio dicendogli: “Ma perché non rispondi a chi ti parla in questo modo tanto oltraggioso?”.
E il saggio: “Io non odo alcuna cosa che mi piaccia, perciò non rispondo”.

XXVIII. Perché il mondo cade in rovina

Nel regno di Francia c’era una volta l’usanza di portare in giro su una carretta coloro che dovevano essere condannati o giustiziati. Se capitava per caso che scampassero alla morte, nessuno più aveva a che fare con loro, e così venivano isolati dalla società.
Un giorno Lancillotto, pazzo d’amore per Ginevra, che cosa fece: andava girando su una di queste carrette piangendo d’amore, quasi come a implorare di essere giustiziato per essere liberato dal tormento. Fu da quel giorno che non si portarono più in giro per le strade di Parigi i condannati, avendo un così nobile uomo usato cotanto mezzo. E non solo: da quel giorno, non più i disgraziati, ma addirittura le signore e i nobiluomini presero ad andare in giro su una carretta, cioè in carrozza.

Ah, quanto è meschino il mondo! E quanto poco riconoscenti sono gli uomini!
Lancillotto aveva stravolto, in un solo giorno, un uso tanto radicato nei costumi di Francia (paese non suo, tra le altre cose!). Nostro Signore, invece, nel paese Suo che è il mondo, non è riuscito a ottenere che gli uomini indulgano al perdono. Anzi, Egli stesso ha perdonato coloro che lo posero in croce e per loro ha pregato il Padre Suo.
Ma nessuno ha fatto più come Lui; e il mondo perciò cade in rovina.

XXIX. Presunzioni del pensiero umano

Un giorno alcuni grandissimi saggi si trovavano a discutere appassionatamente dell’Empireo, ossia dell’ultimo cielo che sta al di sopra di tutti gli altri cieli. Elencavano questi diversi cieli e dicevano: in uno alberga Giove, poi c’è il cielo di Saturno, quindi quello di Marte, e ancora esistono i cieli del sole, di Mercurio e della Luna, fino a che in cima a tutti sta appunto l’Empireo, dove è assiso il Dio Padre in maestà.

Mentre parlavano di queste cose, si avvicina un matto: “Chiedo venia, Signori” – dice – “ma sopra il capo di Dio che cosa c’è?”. Uno dei grandissimi saggi rispose a volo: “Un cappello!”. E il matto, soddisfatto, se ne andò.

Ma era bastata, secondo voi, una risposta tanto arguta a scacciare il seme di una novella domanda che già si impadroniva delle menti dei grandissimi saggi? No di certo; e infatti uno di loro subito disse: “Tu hai proferito una bella battuta, senz’altro, però il problema resta a noi: che cosa c’è al di sopra di Dio?”.

Ciascuno dei grandissimi saggi si metteva così a cercare nella propria scienza una risposta adeguata, ma nessuno trovava niente. Allora conclusero: “Matto è colui che vuole la verità a ogni costo, ma ancora più matto è colui che va alla ricerca della propria origine”. E infine: “Senza senno affatto è colui che desidera conoscere le più profonde intenzioni di Dio”.

       XXX. Egoismo assoluto

Un cavaliere di Lombardia, che aveva nome G., era molto amico dell’Imperatore Federico. Non aveva alcun erede cui lasciare i suoi averi, anche se, da qualche parte, probabilmente aveva dei parenti. Decise allora di spendere tutto ciò che possedeva affinché in futuro non rimanesse niente di suo, per nessuno.

Calcolando di dover vivere ancora circa dieci anni, entro questo tempo scialacquò tutti gli averi. Ma la vita con lui fu clemente, e invece che abbandonarlo prima, gli si protrasse oltre il tempo calcolato, per cui venne un giorno in cui il cavaliere di Lombardia non aveva più niente di che vivere. Risolse allora di andare a far visita all’Imperatore, pensando di essere accolto con grandi onori.

L’Imperatore lo fece entrare e G. gli si presentò e raccontò la sua storia. Federico, dopo averlo ascoltato attentamente, non ebbe alcuna esitazione e disse: “Va’ via di qui, e non presentarti più al mio cospetto perché potrei decidere di farti uccidere. Tu sei colui che, spendendo tutto per sé, ha voluto che nessuno avesse più bene dopo di lui, peccando perciò di egoismo assoluto”.

(III continua)