Storie del bosco boemo

di in: De libris

1.

Non ho ancora trovato il tema di questo racconto. Eppure non possonon scrivere. Scrivere, prendere appunti è un’ossessione che ti corrode la vita. Me ne sto qui sull’erba bruciata di Forte Antenne, a schizzare pigri disegni. Estrella mi guarda ridendo. Riempirò molti fogli di graffiti e di sgorbi e di ghirigori. E alla fine in un lampo mi si chiarirà l’argomento.

Guardando quest’erba riarsa e pestata come lo squallido tappeto di una balera, mi riappare alla mente un’altra erba: fresca, gioiosa, smeralda, il dolce prato di Dobrís, sul quale, prima della calata dei Filistei, mi stendevo a sognare, come Oberon sopra un letto di gigli. Ed ecco so già di che cosa narrare. Tu ti ripeti come i vecchi, mi dice Estrella. Barcolli sempre su un punto a guisa di Tanzmeister ubriaco. Perdonami. Racconterò di un mio viaggio di qualche anno addietro, quando, non resistendo alla nostalgia, volli tornare in segreto in Boemia. Perché gli sbirri non mi riconoscessero, mi ero travestito da zbrojnos, da scudiero, come don Ramiro, principe di Salerno.

Girovagando di paese in paese per questo regno del provvisorio e poligono di eterne manovre, per questa asservita provincia e gubernija, evitai di avvicinarmi alle mura di Praga. Troppi ricordi. Praga? Fingevo che fosse lontana, più lontana di Kiskindhá, la città delle scimmie.

2.

Dopo aver molto girato, albergando in incognito in grame locande, in cui servono gnocchi tigliosi e pèccheri grandi di birra, mi ritrovai una mattina raggomitolato, con gli occhi gonfi di sonno, sul trenino Písek-Vodnany. Era d’agosto. Comete di fumo avvolgevano il mostro di ferro, tirato da una vecchissima vaporiera Blenkinsop, che col suo fracasso spauriva gli stormi di oche sui campi. Guizzarono alla mia memoria due versi del poema Il sogno di Holan: «Miseri tigli bollono il tè – contro la grande tosse canina del treno».

Hai mai visto, lettore, le automobili-nonne dalle lamiere arricciate come cuffiette e i venerabili treni che arrancano, intarsi di pezzi a malapena tenuti insieme, per il paesaggio della Boemia? Diresti che in quella contrada copiosa di tutti i beni corrano ancora trenini alla Keaton, e ti aspetti che a un punto qualsiasi i passeggeri debbano scendere per cercare i binari smarriti sotto ai vagoni simili a diligenze. Che il personale sia pronto a storcere le rotaie, se una frotta di palmìpedi non vorrà spostarsi. Che il treno debba indietreggiare da un tunnel, se incontra là dentro un branco di mucche. Che a un tratto possa spezzarsi in due matti monconi, lanciati ciascuno su un altro binario. E che a Vodnany i vagoni, coi viaggiatori dipinti di nera fuliggine, arrivino, perdendo le ruote in un sordo sconquasso, prima della vaporiera.

Su quel trenino burlesco strinsi amicizia col conduttore signor Brandys, un grassone gioviale, una giara di luppolo. «Ma come si è vestito?», mi chiese, scrutando incuriosito i miei panni barocchi. E poi si fece promettere che sarei andato a trovarlo nel suo paese natìo, a Ceská Skalice, per la festa delle giorgine.

3.

Tutti coloro che incontravo in questi piccoli treni mi sembravano ombre, inquilini dell’Erebo, immagini stinte di una stagione irrevocabile. A Protivín salirono due vecchi: una signora vestita di nero, con lunghi guanti giallo sènape e uno scialle indiano a ricami floreali, e un omino gessoso dai bianchi capelli a spazzola e con setoline di barba, in una giacca striminzita di nero alpaca. Avevano entrambi un aspetto di larve, di trapassati.

Entrarono nel mio scompartimento: e si sedettero di fronte a me, osservandomi con sguardo penetrante. Sulle prime non li riconobbi. Ma poi, quando il treno con truculenza di tamburo maggiore riprese a picchiare sulle rotaie, d’improvviso con una stretta al cuore mi accorsi di avere davanti la signora Koutecká , una traduttrice un poco antiquata, e lo scrittore Karel Konrád, di cui da tempo sapevo che erano morti. Mi fu chiaro che anche loro mi avevano riconosciuto, sebbene fossi camuffato in maniera così balorda. «Sembra il protagonista di un dramma cavalleresco di Klicpera, un paladino conocchiato» bisbigliò Konrád alla donna.

«Pane Konráde, kde máte tasticku?»: «Signor Konrád, dove ha lasciato la borsa?» chiesi al minuscolo vecchio grinzoso, ricordando che ogni mattina a Dobrís lo incontravo con una reticella o una sporta, mentre andava a portare ossi e lische di pesce e francobolli di lardo a un cane malato dietro l’orangerie. «E giuoca ancora al biliardo con Vasek nella biblioteca saccheggiata del Castello?». Ma non poteva rispondere a un vivo, sebbene mi avesse capito. «E Jirka, dov’è Jirka, con le sue guance a guisa di melanzane? Rammenta quando Jirka scendeva in cucina a preparare squisite zuppe di funghi?». Mi rivolsi alla signora Koutecká, sperando che almeno lei mi dicesse una paroluzza: «Rammenta, signora, quando ascoltavamo alla tele i perplessi discorsi di Sasa Dubcek? Di Dubcek, elegante, in cravatta e con un fermaglio al colletto, dopo gli sciamannati figuri dell’età staliniana?». Ma nessuna risposta: soltanto il fracasso scurrile del treno.

Nel luglio e nell’agosto del 68 avevo vissuto con loro e con altri scrittori nel castello di Dobrís non lungi da Praga, con loro e con altri scrittori, parecchi dei quali fanno ora i guardiani notturni, l’altalena estenuante di entusiasmi e di angosce che precedette l’occupazione. Sapevamo che l’abolizione della censura, lo splendore e la libertà della stampa, della tivù, della radio, gli arditi articoli di «Literární Listy», l’inchiesta sulla morte di Jan Masaryk, il rinnovamento della vita parlamentare, il risveglio della classe operaia, la febbre di mutamento dei giovani, il brulicare improvviso di gruppi e di associazioni, le critiche alla Pentarchìa di Varsavia, il Manifesto delle Duemila Parole, alieno da moine e da inchini servili: tutto questo non poteva piacere agli uccelli del malaugurio, che stavano intorno in agguato come esecutori testamentari, ai tutori stranieri, più torvi dei reggenti dipinti da Frans Hals. Eppure qualcuno di noi si faceva ancora illusioni, mentre il Supremo Concilio dei Filistei, nell’attesa del Giudizio Finale, alternava minacce, manovre, messaggi ed incontri su strade ferrate, agitando come una maschera di carnevale lo sconcio spauracchio della Controrivoluzione, cospirando coi giuda locali, imbastendo orditure di fragorose menzogne. «Signora,» dissi alla smunta Koutecká, che era cubismo di rughe «che cosa darei perché il tempo tornasse indietro». A queste parole tutta si sgomentò: si capiva che ne aveva sin sopra ai capelli delle trufferie della vita. Dal corridoio un’altra ombra, Jan Drda, con un traboccante cespuglio di chiome iraconde, mi guardava, tenendo in mano un erbario, lui che mi aveva insegnato i più matti nomi di fiori. Gli sorrisi e lui pure fece bocca da ridere e voleva parlarmi, ma riuscì solo ad emettere un lugubre rantolo. Non mi restava che ricomporre come in un puzzle i frantumi di quel Castello classicheggiante costruito nel Settecento: ricomporre nella memoria i frantumi dell’orizzontale palazzo, del giardino francese, delle alte siepi, delle scalinate e terrazze, delle mitologiche statue di pietra arenaria eternamente in restauro, della fontana di Helios del Platzer, dei viali, in cui un tempo tubava una plebe di tòrtore: ricostituirne la prospettiva illusoria e rimettervi dentro, non ombre malsane ma vivi, quei miei conoscenti che erano risaliti dall’Orco per festeggiarmi.

[…]

da Angelo Maria Ripellino, STORIE DEL BOSCO BOEMO, Edizioni Mesogea 2006