Sulla carta

Ho ascoltato molto volentieri le cose che sono state dette soprattutto da Bernhard Echte, queste osservazioni sui microgrammi. Si è parlato molto della scrittura microscopica, che certo è molto rilevante e appariscente, ma una cosa notevole è anche la carta, su che cosa cioè Walser scrive. Questo lo trovo estremamente interessante e significativo. A me viene da pensare al tema costante di Walser del “mettersi al servizio di”, fare il servitore: penso alla scuola Benjamenta, dopo la quale si va a fare il paggio, si va a servire e lo stesso Walser farà il cameriere di un nobiluomo. Ecco, come mai oltre alla microscrittura (che sembra già un volersi rimpicciolire, un diminuirsi, uno stare nell’umiltà e nella modestia), come mai Walser prende dei foglietti sparsi, dei foglietti strappati da un’ agenda , degli stracci di carta, viene da dire: Echte ieri ci faceva vedere questi altri fogli riciclati, le tipiche carte destinate al pattume; a volte con parti stampate sui cui margini appunto ci sono le scritture.

Mi viene da pensare questo: che è come, da parte di Walser, un “mettersi al servizio” della carta. Cerco di spiegare cosa intendo: scrivere su un foglietto già usato significa non scomodare un foglio nuovo, che probabilmente, per Walser, appare prodotto apposta per lui, come suo strumento, dove lui possa scrivere le sue idee, quindi come qualche cosa che si asservisce a Walser: il foglio viene (mi piace la parola) scomodato; viene cioè messa in piedi una macchina produttiva, una produzione cartaria apposta per questa modesta attività, come se l’estro scrittorio di Walser comandasse implicitamente alla bella carta pulita di stare lì ai suoi ordini ad aspettare subordinatamente di essere scritta. Lo straccio di foglio, invece, è già nato per qualcos’altro, non è stato scomodato per lui. Vedevo che ci sono anche dei piccoli pezzi di documenti, dichiarazioni dei redditi, ad esempio, usati appunto per scriverci sopra, e poi foglietti stracciati, con l’angolo rotto; ecco, tutto questo fa sì che la scrittura perda quell’enfasi che di fronte al foglio bianco tendenzialmente avrebbe. E diventa uno scrivere approfittando delle cose avanzate, non si scomoda nulla, sono cose che sarebbero finite, che sarebbero state buttate via: Walser si mette al loro servizio. In che senso dico questo? Che oltre all’uso del foglietto qualunque, c’è il gusto di scrivere lungo i bordi, lungo le parti bianche rimaste, le parti non usate. Perché è da notare che il foglietto viene non solo usato un attimo prima che vada perduto, ma viene riempito un po’ tutto, con una specie di horror vacui, in tutti gli angoli bianchi, in tutti gli spazi disponibili, e il foglietto quindi dà una sorta di legge, di limite alla scrittura, impone di essere scritto per quanto è lungo.

In genere, diceva Echte ieri, la scrittura parte dall’inizio del foglietto, lo percorre e lo esaurisce in tutte quelle zone che sono vuote. E quindi impone in un certo senso i limiti di ciò che viene scritto, a che punto inizierà e a che punto finirà, proprio come se ci si sottoponesse alla legge del foglietto, alla legge data dal suo spazio e da ciò che esso mette a disposizione. Questo, torno a dire, a me dà l’idea di “mettersi al servizio di”; non usare il foglio come strumento per deporre delle idee, un qualche racconto che viene ad esistere nella totale indifferenza al supporto, al foglietto; bensì subordinarsi a questo, con quell’atteggiamento proprio di Walser di non dare importanza al fatto arrogante dello scrivere, e facendone caso mai un compito, un lavoro di diligenza; si dà soddisfazione alla carta come la si darebbe al maestro di scuola, la si completa perché non vada a morire insoddisfatta, perché sia compiuta, servita a puntino.

Queste riflessioni mi nascevano anche ieri sera, ascoltando (stamattina per fortuna non sono state fatte sentire) queste letture fatte da un attore alla radio svizzera. Ecco, questo modo di leggere da parte di un attore i testi di Walser tradotti da Mantovani (e Mantovani diceva la grande fatica che ha fatto a tradurre in tono così dimesso), questo tipo di letture, che io chiamo “alla Gassmann” (con tutto il rispetto per Gassmann attore – forse, chissà, solo Carducci si presta adeguatamente a questo), ecco, quando ci sono queste letture con la voce così impostata, così baritonale, con questa voce profonda, con questo italiano pronunciato in maniera perfetta, si fa una sorta proprio di offesa a Walser, si vanifica tutto il lavoro del traduttore, non ci si mette, da parte dell’attore che leggeva alla radio, al servizio di Walser, come dovrebbe essere ogni lettura, ma lo si invade con un modo di pronunciare che va bene per qualunque cosa; io dico andrebbe bene anche per l’elenco del telefono, se a questi attori si desse l’elenco del telefono da declamare (Gassmann credo lo abbia fatto una volta scherzando perché era anche un uomo spiritoso, e l’elenco del telefono diventava come una poesia di Garcia Lorca, tanto per intenderci). Questo tipo di letture altisonanti sono dei veri guai per la letteratura in generale, poesia o prosa, perché la guastano profondamente: il primo pezzetto letto ieri era una piccola passeggiata di Walser, una delle tante passeggiate piene di meraviglia e stupore per le cose che ci sono attorno, con quella sorpresa, come diceva De Vivo, un po’ infantile, che si ritrova nei bambini. Ora, questo tipo di lettura, con il petto in fuori, con la voce certa, non ha alcun momento di incertezza, meraviglia, indecisione, come quando la parola è subordinata alle vaghe impressioni, allo stato momentaneo del pensiero, delle suggestioni; diventa invece una lettura che è una specie di

macina-sassi, qualunque cosa vi passa viene triturata e viene resa come declamazione poetica. Volevo con questo dire che tali letture sono un esempio di come non ci si mette al servizio della poesia, del testo poetico. Invece nei suoi microgrammi Walser si metteva addirittura al servizio della carta, la cosa più povera e scontata, ubbidendo ai limiti della carta, ai margini della carta, e proprio il margine della carta è la cosa su cui riflettere: questa carta nata per avere il destino di essere stampata, Walser la prende e scrive lungo tutti i margini, come se questa carta, prima di essere buttata via nel cestino, prima di morire, la si compisse, la si portasse alla pienezza del suo scopo, che è quello di essere scritta, e Walser si mette appunto al suo servizio. Diario del 1926, bellissima prosa che non dice nulla; ed è questa la straordinaria virtù di Walser, di farsi seguire attraverso un discorso che non dice nulla, e tuttavia è sempre sorprendente, e il cui scopo, mi viene da dire, è riempire il tempo che manca alla fine. Il paragone che mi viene da fare, guardando questi microgrammi, è con gli scarabocchi automatici che si fanno quando si è a una conferenza, quando ci si annoia, o anche quando si pensa ad altro, e in genere questi scarabocchi, se guardate, quasi sempre sono scarabocchi che sottolineano le forme del foglio, arrotondano le lettere, cioè sono scarabocchi che seguono le caratteristiche formali del foglio o dello stampato che è nel foglio, fatti sovrappensiero, proprio per riempire e compiere quello che ancora non è compiuto nel foglio, e intanto occupare il tempo che resta.