Libera la mano

di in: De libris

Con le sue mani sottili, Shitao impugna il pennello.

Il suo corpo sovrasta il rotolo che ha disteso sul pavimento. Lo ferma con quattro piccoli elefanti di giada verde. Alla sua destra, un piatto dai bordi alti, decorato con rami fioriti di colore blu su fondo giallo, ormai corroso, quasi del tutto, da spessi strati d’inchiostro.

Il piatto è dell’epoca Xuande. Ha seguito Shitao in tutti i suoi spostamenti. Intingendo i pennelli, Shitao smuove ricordi fermi fino a quel momento.

Accanto al piatto, un portapennelli di bronzo: riproduce cinque vette dello Huangshan. Nel vuoto che si apre tra una vetta e l’altra, Shitao ripone i pennelli. L’oggetto è comunemente diffuso fra pittori e calligrafi. Gli è stato donato da un vecchio monaco che esercita la calligrafia in un tempio di montagna.

In quel tempio Shitao ha trascorso gli ultimi mesi, osservando i caratteri forgiati da quel monaco: danzavano sul foglio.

Non aveva mai visto niente che si avvicinasse a quella danza gioiosa. Neppure i monaci calligrafi del monte Xiang erano capaci di tanto. Con loro, Shitao ha attraversato la porta che mette in comunicazione pittura e calligrafia.

«Sono una cosa sola » dicevano i monaci. « Si servono degli stessi strumenti: il pennello, l’inchiostro, la carta».

Il vecchio monaco del tempio di montagna aveva mani consumate dal tempo. Lente, ma ferme. Seguivano il fluire delle acque, il respiro dei venti, il movimento delle nuvole.

I gesti del monaco erano accorti. Li teneva costantemente a bada, ma senza sforzo. Ruotava di poco il polso, faceva scivolare il pennello sulla carta.

Mai forzandolo.

«L’inchiostro è acqua: entra nell’acqua. Asseconda la corrente. Non mettere il pennello contro la corrente» diceva il vecchio monaco.

Poi, taceva. A lungo. Ore.

Shitao sentiva il pennello scivolare sulla carta. Un rumore d’animale, un uccello di palude che si muove su terre umide, cedevoli.

Sotto quel rumore, appena sotto, altre parole, o suoni, o qualcosa meno. Radi comunque. Dentro blocchi squadrati di silenzio.

Quando rompeva il silenzio, la voce del vecchio monaco pareva esplorare il confine della vita.

Venivano da quel punto estremo le tre parole indirizzate a Shitao: «Libera la mano».
«Libera la mano?» a Shitao l’indicazione appariva oscura. « Libera la mano! » insisteva il vecchio monaco. E non sembrava un suggerimento.

Una sera.

Poco prima del tramonto. La luce cominciava a scarseggiare.

Il vecchio monaco si dispose a raccontare una storia lunga di secoli, una di quelle storie che avevano fatto il giro dell’intera Cina, gonfiandosi lungo
la strada. Chiunque la raccontava ne allargava il disegno. Si faceva fatica a portare a termine una storia tanto ramificata. Occorreva tenere ben stretto il filo della narrazione. Non tutti lo sapevano fare.

Il vecchio monaco lo sapeva fare. Raccontava come dipingeva, con gli stessi movimenti accorti. La sua voce scorreva come l’acqua.
Il titolo della storia era pressappoco questo: Come il monaco Rihua si trovò a liberare la propria mano.

«Quando?» potrebbe chiedere qualcuno, e c’è sempre qualcuno che lo chiede.

La risposta è: «Mille anni fa, e più».

L’inizio della storia varia secondo l’estro del narratore. E talvolta anche l’epilogo. Tutto si muove nelle storie. E non solo li.

Il vecchio monaco del tempio di montagna cominciò con il tono disinvolto di chi, saltando premesse e preliminari, ha preso la storia in corsa.

Disse: «Rihua voleva dar vita a caratteri leggeri come l’aria».

Esattamente così: «Caratteri leggeri come l’aria».

Shitao non capiva. Era come se le parole si fossero staccate da terra, raggiungendo la parte più alta della stanza. Lontane. Inafferrabili.

I monaci del monte Xiang tenevano stipati, nella loro memoria, oltre quarantamila caratteri.

Quarantamila! Mai avevano parlato di caratteri leggeri come l’aria!
Il vecchio monaco vide la silenziosa perplessità di Shitao e le andò incontro. Arrotondò gli angoli delle parole che aveva in animo di usare, eliminò le asprezze, ridusse le loro pretese.

Era sua intenzione farsi capire.

Disse: «Rihua voleva che i caratteri non si posassero sul foglio, ma che si alzassero al di sopra. Voleva che si mettessero in movimento».
«In movimento?» Shitao era diviso fra l’irritazione e il disorientamento. Non sapeva che senso dare al racconto del vecchio monaco, e non era in grado di prevederne gli sviluppi. E neppure poteva uscire dalla stanza lasciandolo solo con la sua storia. Non lo poteva fare.

Allora mise a tacere l’irritazione provando a stendere il filo di poche parole appena velate da una timida riserva: «Non capisco come si possano muovere i caratteri».

Il vecchio monaco non rispose.

Shitao colmò il vuoto velocemente, tracciando le linee di un’immagine, che, in quel momento, gli parve risolutiva: « I caratteri devono tener fermo il mondo che si muove» disse Shitao. E lo disse assai lentamente, scandendo bene le parole: «I… caratteri… devono… tener… fermo… il mondo… che… si… muove».

Due i motivi: definire bene i tratti di quell’immagine e distribuirne con accortezza gli effetti.

Ma nessuno dei due motivi andò a segno.

Il vecchio monaco non dette alcun seguito alle parole di Shitao. Nulla.

Mentre cadeva la notte, s’inoltrò in un silenzio tanto lungo da intaccare l’asse del tempo e la sua misura. Passarono ore, forse giorni.

Dopo il primo imbarazzo, Shitao cominciò a esplorare quella distesa di silenzio, ne sondò gli strati compositi, scavò sotto
la superficie. Scavò e scavò – che altro poteva fare?

Estrasse gemme dalla forma diversa: il silenzio del corpo che riposa, quello della meditazione, quello della contemplazione. Vennero fuori, insieme a un terriccio sassoso, le pesanti pietre di silenzio che opprimono l’anima: la veglia ansiosa, l’attesa vana, la vita che si spegne – rotto dal lamento, il suo silenzio. S’imbattè nel capo chino della mortificazione e in quello piegato della sconfitta. Soppesò i loro silenzi fino a sentirsi in essi, fino a sentirli propri.

Il vecchio monaco non proferiva parola. La sua bocca era serrata, il corpo irrigidito.

Shitao scavò ancora. Riportò alla luce un masso di silenzio che aveva già incrociato. Era un masso enorme, ingombrante. Lo distingueva il profilo familiare delle cose che accadono.

Dal momento che Shitao aveva già saggiato l’irreparabile e il suo silenzio tombale, non fece fatica a riconoscere quel masso liscio, compatto. Tornò ad avvertirne
la pressione. Una morsa. Sul cuore e al centro dello stomaco. Lì, al centro. Un masso d’angoscia che toglie il fiato sfibrando ogni parola. Dove cade, cancella le proiezioni della speranza.

Di fronte all’enorme masso di silenzio che, in passato, e più di una volta, aveva schiacciato la sua vita, Shitao si ritrasse spaventato. Il filo della memoria si andava aggrovigliando attorno a quel cumulo d’angoscia, come se non avesse mai conosciuto altro. Si fermò.

Per far ordine, cominciò a stendere il Repertorio dei silenzi in cui si può addentrare l’uomo. Il rotolo del manoscritto è oggi disponibile nella biblioteca del monastero di Lushan.

Trecentoventitré sono i silenzi in cui si può addentrare l’uomo. Shitao li ha contati una volta riportati alla luce.

Trecentoventitré: l’ultimo, lo ha dipinto. Per quello che si sa, è il solo pittore, nell’intera storia del mondo, a essersi misurato con il silenzio dipingendolo. Shitao è entrato in un angolo di mondo dove il mondo non emette suono perché si è dissolto. Senza fragore.

Un giorno – verrà il tempo – andrà raccontato.

Un giorno, quando si saranno consumate più parole e più illusioni, quando ci saremo avvicinati al destino degli esseri rimasti impigliati nella matassa di questo racconto, si potrà procedere almeno un poco in quell’angolo di mondo dove il pieno e il vuoto, il silenzio e il suono si corrispondono. E quello che ora risulta enigmatico e incomprensibile potrà forse apparire evidente.

Stando al conteggio di Shitao, ventuno sono i silenzi definitivi.
Nove percorrono le strade dello stupore, gli occhi aperti sul mondo che nasce.
Dodici le strade della disperazione: inutilizzate, le parole si smarriscono, le cose errano senza nome. Priva di parole, la mente si atrofizza. E che cosa è il mondo senza la mente che lo pensa? E le cose senza il nome che le sostiene? Silenzio screziato di disperazione.
Shitao sa di un popolo lontano, ben oltre i confini del grande impero, che, caduto in un generale oblio, evitò la fatale rovina con uno stratagemma, appiccicando dei piccoli fogli su ogni cosa perché tutti ne conoscessero il nome e le proprietà.

da Tutto quello che offre il mondo, di Maurizio Ciampa, Bollati Boringhieri 2006