Il lungo esilio di Robert Walser

1. Avvicinarsi a Robert Walser da psichiatra, avendone amato e ammirato da anni la scrittura, comporta esitazione, cautela, imbarazzo anche. Da oltre un secolo la psichiatria è penetrata spavaldamente nei territori dell’arte, della musica, della letteratura, pretendendo di spiegare o interpretare i prodotti della creazione artistica in termini di psicopatologia o, viceversa, di diagnosticare la «malattia della mente» ricercandone i segni nelle opere degli artisti. Ha ribadito così il binomio, ben noto, «arte e follia». Ha alimentato un circuito con il senso comune che spesso allo psichiatra altro non chiede che trovare sollievo dal disagio avvertito di fronte a opere immediatamente incomprensibili o provocatorie attraverso la conferma della loro natura abnorme o morbosa.

2. D’altra parte, in Robert Walser il rapporto con la psichiatria, le sue istituzioni, le sue categorie è così drammaticamente evidente, segna in modo così netto e definitivo la sua esistenza, che non è possibile ignorarlo o accantonarlo come puro e semplice evento di malattia. E allora uno psichiatra addestrato dall’esperienza a cogliere criticamente le costruzioni concettuali della disciplina, a riconoscerne il significato e il peso nella vita e nella cultura istituzionale – quindi a leggere al di là dei codici della pratica clinica – può tentare di ripercorrere alcuni momenti significativi della vicenda di Robert Walser per porre in discussione, qui, problemi e interrogativi che affiorano tra le righe delle formulazioni in apparenza imparziali e oggettive lasciate sui documenti dai medici che si sono occupati di lui.

3. Ho detto “documenti”. Devo però precisare che non mi è stata resa accessibile la documentazione originale relativa alla storia clinica di Robert Walser. La psichiatria – e nel nostro caso la psichiatria asilare – parla di sé attraverso le cartelle cliniche, il diario, le annotazioni e le prescrizioni dei medici. La verità della fisionomia di qualsiasi paziente psichiatrico può essere attinta solo con una paziente filologia del documento clinico che tenga conto del detto e del non detto nelle descrizioni del suo comportamento, delle modificazioni dello stile e della cultura psichiatrica – e quindi degli schemi teorici – nel succedersi degli anni e dei medici che si sono occupati di lui. Necessariamente, per queste mie riflessioni ho dovuto basarmi su gli scritti degli studiosi che hanno potuto utilizzare direttamente la documentazione originale e che la utilizzano, com’è naturale, selezionandola in citazioni riordinate secondo personali percorsi di lettura. Un doppio filtro si interpone quindi tra noi e la figura di Robert Walser: quello dei medici che ce ne riferiscono in termini clinico-descrittivi, quello dei biografi, come Bernahrd Echte e Robert Mächler, che ne hanno cercato una loro verità. Si tratta, peraltro, di biografi attenti e fortemente rispettosi di Robert Walser e degli aspetti più enigmatici e dolorosi della sua esistenza. Ci offrono così informazioni sicuramente preziose per ricostruire e rileggere la vicenda psichiatrica dello scrittore.

4. Il lungo rapporto di Robert Walser con la psichiatria – un rapporto che si mantiene ininterrotto per 27 anni, sino alla morte – divide nettamente in due parti la sua esistenza. Ricordiamolo sinteticamente. Nel gennaio del 1929 – Walser ha 51 anni – si trova a Berna dove alloggia da due anni e mezzo in una stanza d’affitto presso due anziane signorine, le sorelle Häberlin. Più o meno improvvisamente manifesta un comportamento che allarma le due proprietarie al punto che queste si affrettano ad avvertire la sorella di Robert, Lisa Walser: «aveva gravi stati d’ansia, udiva “voci” che lo schernivano, soffriva d’insonnia e la notte era fortemente agitato». Lisa, che abitava a Biel, il 24 gennaio si reca a Berna e accompagna il fratello a farsi visitare dal dottor Walter Morgenthaler, uno psichiatra che conosceva molto bene la famiglia Walser. Morgenthaler dedica ben poco tempo a Robert; dopo aver appreso dalla sorella che egli è depresso, si lamenta di angosce persecutorie e sente le «voci», «due o tre domande e una rapida occhiata» gli sono sufficienti per redigere una stringata «Relazione medica sul signor Robert Walser, scrittore»: descrive il «paziente» come «marcatamente depresso e gravemente inibito»; riconosce che egli ha «coscienza di malattia» e soffre del fatto di non riuscire a lavorare e chiede di potersi recare presso la sorella; conclude peraltro che Walser «nel suo stato attuale necessita d’urgenza, il più rapidamente possibile, di un ricovero in reparto chiuso» Morgenthaler, dunque, non sembra voler rappresentare una presenza solidale, al fianco di Robert Walser: si limita ad esprimere una diagnosi mettendo assieme i sintomi apprezzabili al momento e a indirizzare il paziente all’istituzione di ricovero, che per la città di Berna è la clinica di Waldau.

Il giorno seguente, 25 gennaio,Lisa accompagna Robert a Waldau. Il racconto che anni dopo Walser farà a Carl Seelig ci dà una pallida idea della sua sofferenza. Al momento di entrare in clinica egli esita, immaginiamolo arrestarsi e rivolgersi alla sorella: «ancora davanti alla porta di ingresso le chiesi se quello che facevamo era giusto. Il suo silenzio mi bastò. Che altro mi rimaneva se non entrare?».

Una volta entrato, Robert Walser deve sottostare al rituale della accettazione. Il medico di servizio lo interroga seguendo la falsariga del modulo clinico che occorre riempire. Annota quanto gli dichiara lo stesso Walser: da più settimane è incapace di lavorare, non riesce a concentrarsi, soffre di insonnia, è depresso, ha fuggevoli pensieri di suicidio. Infine aggiunge: il paziente ammette di «sentire le voci» ed ha importanti precedenti psichiatrici tra i suoi familiari. Sono le informazioni-chiave che consentono al medico di eliminare ogni dubbio. Egli conferma a Walser la necessità del ricovero e Walser, dapprima, accetta. Ma quando il medico gli chiede di firmare l’accettazione del ricovero volontario, rifiuta con forza, per l’«angoscia che non lo avrebbero più dimesso» e il timore che la permanenza in manicomio possa «danneggiare la sua fama di scrittore»; anziché essere ricoverato avrebbe voluto recarsi presso la sorella. Quest ’ultima esclude nel modo più assoluto di poter prendere con sé il fratello e riesce a convincerlo a firmare. Robert viene accompagnato nel padiglione accanto. Il medico lascia in bianco, sul modulo, la riga corrispondente alla voce «diagnosi provvisoria» e alla voce «diagnosi definitiva» scrive, in tutta evidenza, schizofrenia. Il rituale è così completo. Il medico opera attraverso un evidente schema mentale che è quello della psichiatria clinica tradizionale. Riduce il rapporto con il paziente ad un interrogatorio che esclude deliberatamente l’interazione con la soggettività dell’interlocutore per giungere a cogliere in termini oggettivi dei sintomi e con essi, secondo un preciso codice nosografico, l’oggetto-malattia che riceve un nome. Da questo punto in poi esso determinerà sino in fondo il destino di Robert Walser, paziente schizofrenico.

Un paziente che sembra essersi inserito senza problemi nell’ambiente istituzionale, dimostrando anche un rapido miglioramento delle sue condizioni di sofferenza psichica. Lo apprendiamo da una relazione scritta nel 1957 dal prof. Max Müller, allora direttore della clinica Waldau, sulla base della documentazione medica esistente. Scomparsa ben presto l’angoscia che lo tormentava, anche le «voci» si indebolirono (pur permanendo a lungo); tendenzialmente isolato, con scarsi rapporti con gli altri degenti, si adattò sin da subito, senza mai derogare, alle scansioni della vita quotidiana proprie dell’istituzione totale: al mattino aiutava a riordinare le stanze, nel pomeriggio si dedicava a lavori di giardinaggio, alla sera una passeggiata intorno alla clinica dalla quale rientrava con immancabile puntualità.

Ciononostante – almeno durante il primo periodo – Walser mantiene una vivacità della sua vita spirituale: intrattiene corrispondenza, riceve visite, scrive ancora poesie, legge opere letterarie e, soprattutto, chiede di essere dimesso per riprendere la sua attività di scrittore.

La dimissione non avviene, e sembra invece verificarsi un graduale adeguamento di Walser all’ambiente protettivo della clinica e instaurarsi un sostanziale equilibrio che verrà messo in crisi dal cambio della direzione della clinica. Nel marzo del 1933 diventa direttore di Waldau il professore Jakob Klaesi, un terapeuta attivo, interventista, diremmo, e capace di iniziative originali. Di lui si racconta «che, una volta, guarì un grave catatonico conducendolo a una gita in barca sul lago di Thun e poi gettandolo improvvisamente in acqua» e che quando lavorava ancora a Zurigo, al Burghölzli, portò «una paziente gravissima direttamente dalla sua cella di isolamento a una cena in stile medioevale organizzata nel più grande albergo della città, ottenendo risultati altrettanto sorprendenti». Klaesi intraprende una riorganizzazione di ampio respiro dell’istituzione di Waldau. Dimette un grande numero di pazienti ormai migliorati e tranquilli, altre ne sistema in strutture esterne di tipo agricolo. Anche a Walser viene proposto il trasferimento in una colonia agricola, cosa che rifiuta recisamente. Chiede di essere dimesso e di cercarsi un posto all’esterno ma, è detto nella cartella clinica, «non fa nessuno sforzo in proposito, nonstante gli venga lasciata piena libertà di fare ciò che gli pare sotto questo riguardo. Quando si parla di un trasferimento a Herisau, il paziente rimane completamente passivo, come se per lui fosse la stessa cosa andarci o rimanere qui». Il trasferimento viene comunque deciso e realizzato dalla sorella Lisa – a quanto pare, con il parere contrario dei fratelli Oscar e Karl [che, impressionati della prosecuzione dell’attività letteraria di Robert, tendevano a ritenere che egli non fosse affatto gravemente malato]. Il 19 giugno 1933, costretto a salire in vettura da due infermieri, Robert fu condotto all’ospedale psichiatrico di Herisau, nel cantone di Appenzell-Außerrhoden, che sarebbe stata la sua dimora permanente per gli ultimi ventitre anni della sua vita, fino alla passeggiata sulla neve quel giorno di Natale del 1956, durante la quale incontrò la morte.

5. Anche a Herisau Walser fu accompagnato stabilmente dalla diagnosi di schizofrenia formulata con tanta sicurezza all’atto del suo ricovero a Waldau, diagnosi che sarà la griglia interpretativa obbligata con la quale i medici – e non solo loro – leggeranno il suo comportamento.

È alla schizofrenia, precisamente al sintomo autismo – codificato, com’è noto, dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler – che vengono ricondotti il suo ritiro dall’ambiente, i suoi silenzi, il suo atteggiamento passivo, lo spegnersi definitivo della sua attività creativa. Per più motivi alcuni hanno messo in discussione quella diagnosi: ad esempio per la conservazione della coscienza di malattia e la disponibilità a farsi aiutare, attestati nella prima certificazione di Morgenthaler, e per il rapido miglioramento soggettivo subito dopo il ricovero. Personalmente aggiungerei qui il criterio dell’età di insorgenza della malattia: è molto difficile, forse impossibile, che un autentico processo schizofrenico si manifesti per la prima volta a cinquanta anni. Pure, quella diagnosi risulta confermata anche da uno psichiatra autorevole, il professore Roland Kuhn di Müsterlingen, allievo di Ludwig Binswanger, che visitò Walser a Herisau, in epoca imprecisata. Kuhn parlò di «tipica catatonia stuporosa» e «gravi difetti schizofrenici» [typischer stuporöser Katatonie e schweren schizophrenen Defekten]. La formulazione di Kuhn designa una delle forme più gravi di schizofrenia, e sembra calata come una pietra tombale sulla vita spirituale di Robert Walser. Pure, ancora nel 1954 un altro importante psichiatra, Theodor Spoerri, professore di psichiatria all’università di Berna, recatosi a Herisau per incontrare lo scrittore, di fronte al suo silenzio e al suo atteggiamento che sembrava tipico dello schizofrenico cronico, riuscì, con una stimolazione intelligente, a farlo uscire dalla sua corazza di impassibilità e ad avere con lui un lungo colloquio al termine del quale, richiamato forse anche dalla scansione dei ritmi istituzionali, Walser rientrò nel suo «ruolo» di schizofrenico cronico. Né possiamo dimenticare la testimonianza di Carl Seelig che negli anni di frequentazione di Walser ci ha lasciato di lui un’immagine concreta e attendibile – nonostante i sospetti di «invenzioni» formulati dallo stesso professore Kuhn – vivace, ricca di interessi e di curiosità per il mondo, capace sino all’ultimo di calore e di entusiasmo.

6. In realtà, credo che non ci debba soffermare troppo sulla diagnosi di schizofrenia, perché non possiamo interessarci ad una possibile patografia in termini specialistici. Comporterebbe, inevitabilmente, racchiudere la figura e l’esistenza di Robert Walser in una categoria medico-naturalistica e così renderlo incomprensibile e incomunicabile. La stessa parola schizofrenia, eredità di un secolo e più di psichiatria scientifica, comunemente risuona come qualcosa di svalutativo ed evoca un’immagine di alienità assoluta, irriducibile alla nostra umana esperienza. Dirò anzi che la diagnosi era probabilmente «giusta» o forse «inevitabile» all’interno del canone che definiva la cultura psichiatrica – in Svizzera come nel resto d’Europa – negli anni in cui si svolge la vicenda esistenziale di Robert Walser. Una volta formulata quella diagnosi era altrettanto inevitabile – come per una profezia autoavverantesi – prevedere nel paziente lo spegnersi progressivo di ogni possibilità di vita interiore e di relazione con gli altri, l’inaridirsi ineluttabile delle sorgenti della creatività e della curiosità per il mondo. Oggi abbiamo appreso, ormai, che la shizofrenia non è inevitabilmente una malattia devastante. Chi ha esperienza della schizofrenia, sa, come ha scritto Luc Ciompi, che «lo schizofrenico con la sua sensibilità e la sua “pelle sottile”, […] con le sue capacità di intuizione e di osservazione spesso sbalorditive, […] con la sua autenticità e il suo potenziale creativo non conformistico […] appare anzitutto come una particolare declinazione dell’individuo normale, come un estremo di uno spettro che, all’altro estremo, presenta l’individuo dalla “pelle dura”, rigido, robusto, il villano insensibile e ottuso»; lo schizofrenico cronico, anche dopo molti anni di regime asilare duro, conserva potenzialità psicologiche inaspettate che, in circostanze ambientali e interpersonali favorevoli possono rivelarsi in forme straordinariamente vive.

7. Conviene quindi mettere da parte le preoccupazioni diagnostiche, e guardare alla schizofrenia non come «processo morboso» ma come fase di sofferenza che si inserisce in una storia di vita, una fase spesso non nettamente separabile da tutta ciò che la precede. O , se si vuole, una nuova forma di esistenza alla quale dobbiamo pur sempre dare un senso.

Le vie di accesso alla comprensibilità della psicosi schizofrenica, alla possibilità di interpretarne alcuni aspetti, alcune caratteristiche, sono le stesse di quelle che ci consentono di avvicinarci alle creazioni artistiche. Stiamo attenti a non confondere, ancora, arte e follia. Più semplicemente, si tratta di riconoscere le peculiarità del rapporto tra «Io» e «mondo» che in persone particolarmente dotate, negli artisti e spesso negli schizofrenici (specie agli inizi della loro vicenda di sofferenza) si manifestano con una particolarissima sensibilità – una immediata recettività – per gli aspetti espressivi dell’ambiente. Dall’ambiente emergono e si impongono imperiose alla percezione le qualità essenziali [Wesenseigenschaften] delle forme, degli oggetti, del paesaggio, dei dettagli del mondo. In numerosi passaggi degli scritti di Robert Walser – e ben prima del fatidico 1929 !- noi ritroviamo queste modalità percettive quasi esasperate di oggetti o dettagli che spiccano e sembrano staccarsi dal contesto, ambienti e atmosfere che sembrano parlare e risuonano, anche al lettore, e rivelano una “materialità espressiva” attraverso lampi di luce, sinestesie coinvolgenti, ambigui adombramenti.

Potremmo citare molti esempi. Mi limito qui a ricordare, da Vita di poeta, (1917), il brano «Discorso a un bottone»: un giorno mentre ricuciva l’occhiello d’una camicia, il narrante [Walser] si rivolge «all’onesto bottone […] a quel piccolo, fido e umile amico» e nota, tra l’altro, «Tu sorridi, amico mio…». Il bottone, quindi, diventa il protagonista di un campo percettivo, e questo mi ha immediatamente richiamato un passo dell’autobiografia di Kandiski nel quale il pittore dice: «Non soltanto le stelle cantate dai poeti, ma anche i mozziconi che si trovavano nel portacenere, un bianco, paziente bottone da pantaloni che guarda dalla pozzanghera per la strada…tutto mi mostrava il suo volto» (1913). E nello stesso libro, il brano «Un pezzo raro», il narrante percepisce improvvisamente che «nella grigia, nera e muffita parete della stanza stava infisso un vecchio chiodo coperto di ruggine, a cui era appeso un ombrello». Il resto della breve prosa si sviluppa intorno alle risonanze emozionali – rivelate dagli aggettivi: vecchio, triste, stanco, malandato – suscitate da quell’ombrello che spicca, isolato, nel campo percettivo. Anche qui, un richiamo all’arte figurativa mi si impone: penso agli oggetti di Magritte, gli ombrelli o la pipa, isolati nello spazio con la loro pregnanza narrativa.

8. Se potessimo proseguire nella nostra analisi con dati più certi, forse riusciremmo a trovare un senso – un significato [ein Sinn] – anche alle manifestazioni di Walser più francamenti abnormi, come le famose «voci» allucinatorie che poterono autorizzare la diagnosi di «schizofrenia». Una ipersensibilità percettiva, esasperata nell’acme d’una angoscia profonda, poteva renderlo più recettivo anche a messaggi informi e subliminali, sì che come giustamente suggerisce (mi pare) Bernhard Echte, facilmente accettò il suggerimento del medico che con il termine «voci» gli offriva il modo di “esprimere l’inesprimibile”, denominandolo e quindi allontanandolo da sé (spazializzandolo).

Ma preferisco concludere. Io credo si possa riconoscere una continuità negli aspetti di vari momenti della vita di Robert Walser come declinazioni successive d’una particolare, irripetibile forma di esistenza. Egli stesso aveva sempre avuto una acuta, lucida consapevolezza di sé, della sua «diversità», o inadeguatezza, o impossibilità di essere come gli altri. E’ questa consapevolezza, credo, che lo aveva portato in più occasioni, quasi prefigurandosi il proprio destino, a identificarsi con il grande poeta folle, Hölderlin, e a riconoscersi – forse ironicamente, forse già dolorosamente – nei giudizi di chi lo incontrava a passeggio sotto i portici di Berna: «Questo qui dovrebbero metterlo al manicomio». La solitudine, la mancanza di successo, il dubbio di sé costituirono le «determinanti» della sua vita che lo mantenerono in un equilibrio sempre precario, sempre minacciato dagli eventi. La rottura – avvenuta in uno o più episodi, più gradualmente o più improvvisamente – di questo equilibrio lo condusse infine al ricovero psichiatrico che doveva essere l’unica risposta ai terribili interrogativi che la sua angoscia poneva a lui stesso e agli altri.

Forse al momento in cui venne costretto al trasferimento a Herisau si rivelò sino in fondo la sua fragilità, se vogliamo una vulnerabilità denunciata dalla sua apparente ambivalenza (o ambiguità) rispetto alla prospettiva di libertà al di fuori dell’istituzione psichiatrica: una libertà rivendicata e temuta. Walser subisce la violenza del trasferimento imposto dal volere dei medici e della sorella e nello stesso tempo, come ha scritto Mächler, esprime «l’orgoglio della rinuncia: rinuncia dell’uomo sulla via della vecchiaia al ruolo pubblico del clown sublime, rinuncia a prendere parte alla competizione culturale in generale». Schizofrenico o no, nei suoi ultimi anni di vita a Herisau Robert Walser realizza al massimo grado quella dimensione del «servire» [la Dienertum] che aveva già delineato più volte, soprattutto nello splendido Jakob von Gunten: gliela offriva l’istituzione con la sua grigia uniformità, con l’ordinamento rigido dei tempi e degli spazi, con le occupazioni umili e ripetitive, con l’assenza di un futuro autentico, l’istituzione che tutto prevede e tutto previene.

Rispetto ad una impossibile libertà, tra la psichiatria asilare o manicomiale di Herisau e Robert Walser si realizzò forse, oscuramente, una collusione: essa offriva allo scrittore sulla via del tramonto una disciplina protettiva, la dimensione di quella Gerborgenheit di cui egli aveva bisogno. Accettò così l’esilio a Herisau o, in altre parole, realizzò là la sua estrema anacoresi.