A voce bassa

di in: Bazar

Io non la volevo, non sapevo che farmene. Sarà un ferro vecchio ormai, adesso. Ma il brigadiere ha insistito: “È sua!”, ha detto.

È mia?

*

Barbara ha i capelli castani, lisci, la carnagione bianca, slavata e il colore nei suoi occhi è verde.

Mi piace descriverla, ricostruire la sua immagine e ritrovarla familiare a casa. Quasi uno spazio riservato, vuoto, dove far aderire l’apposita figurina.

Ed anche il suo corpo quando è nudo è molto bianco. Nel corso di questi sedici anni insieme, mi è maturata in testa una spiegazione senza appigli logici, solo un’idea sospesa della mente: è molto bianco perché non riceve luce, ma ha sviluppato una luminosità personale, fioca e pulsante come quella delle lucciole.

Ormai ce ne sono poche di lucciole in giro. Però sono sicuro che in certi luoghi sono più numerose di qui. Dev’essere così. Io in fondo conosco solo questa porzione di terra, la mia nazione, la mia regione, la città che ci siamo scelti e così via, ritagliando sempre più, fino ad incollarci in questo quartiere. Di questo posto, due o tre vie mi sono familiari, più la strada che mi porta all’officina. Tutt’al più, le vie del Lavoro, le vie delle Necessità (via del Pane, del Supermercato, della Scuola, della Piscina, della Palestra, dell’Ospedale), le altre è come se fossero l’Africa o l’Estremo Oriente, portano fuori dal Mondo Consueto, nei suoi giri obbligati, verso spaesamenti molesti.

L’unica volta che ricordo d’aver fatto questa strada erano almeno 20 anni fa, forse di più.

Allora ero molto nervoso perché dovevo sostenere l’esame di maturità. Eravamo andati a fare la denuncia dai carabinieri, ma io avevo la testa da tutt’altra parte. Ripassavo Ungaretti, Foscolo, Montale, e poi le operazioni con gli algoritmi, i numeri infiniti.

Mi sembrava, in quei giorni, in quelle ore, che dopo l’esame di maturità non ci sarebbe stato più niente. Era il termine ultimo, dopo quella prova la terra finiva, i navigatori e l’ammiraglio Colombo tornavano indietro.

Dopo aver descritto la Vespa e aver lasciato i miei dati anagrafici, mi sono precipitato a casa e sono sparito in camera mia, fino a sera, a ripassare. Credo di non essermi nemmeno reso conto di quello che era successo. Che pazzo ero! Come si è pazzi a quell’età… La realtà era una cosa tutta a punte e strapiombi, non c’erano patteggiamenti da fare, l’unica soluzione: allenarsi a fare salti sempre più ampi da uno spuntone all’altro.

Dovevo aver avuto un cervello decisamente muscoloso per sopportare certe sollecitazioni e strappi.

Terminata la prova scritta, mi ero ripromesso di fare un bel giro in Vespa, senza casco. Sentire l’aria che fischia nelle orecchie, si spalma sul viso, preme sotto la nuca, allunga mani e dita concitate a rimenare i capelli. Sentirla nella testa che ti scioglie i pensieri, si allungano, si stirano, liberati dalla matassa densa che li appesantiva e impediva, una macchia di linee che cantano la loro musica minima e vibrano nell’aria.

Solo allora, una volta uscito, mi sono accorto che
la mia Vespa non era dove la mettevo di solito, vicino al muro, sotto la finestra che si affaccia alla segreteria, e ho preso a dare bracciate in aria.

Papà mi ha raggiunto dopo un quarto d’ora, anche lui a piedi perché guarda caso la macchina era dal carrozziere, e la mamma a far compere con la bici.

Un sabato come quello non me lo posso scordare.

L’unica volta che mi ero permesso di uscire in due settimane, vado a fare l’esame e mi fregano la Vespa.

Dunque, Giulio e Loretta sono al centro estivo, Cesare qualche giorno dai suoi amici del basket, tutto fila bene e io e Barbara possiamo stare un po’ in pace, da soli.

Quando ho aperto la porta, ho notato subito che non passava un filo d’aria in casa. Forse Barbara era uscita un attimo a comprare qualcosa, forse una sorpresa per me, e aveva richiuso tutto per sicurezza. Oppure stava ancora finendo le pulizia di casa e non aveva fatto in tempo ad aprire.

Era molto silenziosa la casa, senza i bambini, senza vento.

Ho urlato, con un po’ di timore, come se qualcuno che non conoscevo potesse rispondermi: “Barbara!?”

Non so perché, ma avevo paura di restare solo là dentro. Era la prima volta che mi capitava, ma si trattava di un sentimento passeggero. Senza la voce dei tre rompiballe, senza Cesare che sbatte il pallone sul pavimento, senza Giulio e Loretta che si scannano e senza il rumore di un aspirapolvere o di una lavatrice, sembrava un’altra casa.

Certe cose sono inverosimili da raccontare, sembrano barzellette, ma ora che ci pensavo non ero mai stato solo in quella casa. Mai, in 16 anni. Neanche per una qualche casualità o accidente.

Ed ora succedeva, oggi.

Ma lei rispose: “Sì?”.

La voce veniva da sopra. Adesso penso quante volte mi sono mosso attraverso lo spazio verso qualcosa o qualcuno. Infinite, forse. Penso a quella camminata con mio padre, dopo l’esame, a quando sono uscito dal bar con gli amici, il giorno del furto, e andava verso di lei, o alla corsa verso all’angolo di muro fatta tante volte alla fine delle lezioni, e quando con la testa imbottita di definizioni e formule avanzavo incerto verso la commissione d’esame.

Ed ora c’era questo nuovo movimento un po’ sorpreso verso mia moglie, che è sempre come un lasciarsi andare aspettando che qualcuno ti raccolga, un salto con la fiducia che la terra non si sia mossa nel frattempo, poter affidare di nuovo i piedi dove hai lasciato la tua bandiera.

Barbara stava distesa sopra le coperte, con un cuscino che le sollevava la schiena, e beveva un tè.

– Come mai in accappatoio?

– Beh, ho fatto una doccia.

– Ma sono le 9.30.

– Perché? Non ci si può lavare alle 9.30? Vieni qui, sdraiati.

– No, beh…si, mi siedo. I ragazzi sono andati.

– Loretta ha fatto storie?

– No, figurati, ma ha minacciato che se Giulio non la lasciava in pace lei tornava a casa.

– Figurati, è lei che rompe le balle a Giulio e poi, poco si vedranno, mi pare che maschi e femmine li tengono separati.

– Sai che non ricordo, è strano, ma non mi ricordo.

– È una fortuna che all’officina ti abbiano dato le ferie proprio adesso, così ti puoi riposare un po’, ultimamente ti facevano fare troppi straordinari e ogni due mesi quei corsi di aggiornamento…e i tuoi amici furbi venivano a sfruttare anche le poche ore che ti restavano a casa…

– Si, è vero, ma non lo facevo per tutti…

– Per tutti o per pochi, Gianni era qui una settimana sì e una anche, è possibile che quella carriola di Seat sia sempre da metterci mano. Forse faceva un affare migliore a comprarsene una nuova!

– Beh, adesso abbiamo tempo per noi due…

– Già…

Me la ricordo, che si staccava da me e appoggiava la tazza sul comodino. La luce accesa. Perché c’era la luce accesa? Sotto l’accappatoio bianco, la sua pelle pallida pulsava e io avevo solo voglia di baciarla dappertutto.

Non mi sembrava vero di essere là con lei, soli, sentivo che sarebbe successo qualcosa.

Poi mi padre non mi comprò un altro motorino, neanche un Ciao.

“Speriamo che salti fuori” diceva, “altrimenti quest’anno avevamo comunque in progetto di prendere un’altra macchina. Ti farai la patente e uscirai con quella.”

“Ma non è la stessa cosa papà, io voglio il motorino!”.

“Voglio è una brutta parola, sei grande, potevi starci più attento. Non abbiamo i soldi per comprare un’altra Vespa. Quella di adesso costano anche più di 2 milioni, sai ?!”.

“Sì, lo so, ma la macchina non costa di più ?”.

“Adesso basta, pensa a riposare e a studiare, che ti mancano ancora gli orali”.

E non se ne è parlato più. Io ho insistito per settimane , poi mi sono iscritto a scuola guida.

Passati gli esami, tutto è andato bene. 1 settimana di vacanza in Sicilia, divertimenti e qualche storiella con le ragazze. C’è stato però quello spazio di tempo da quando ho subito il furto a quando sono salito in auto per la prima volta, che era immerso nell’indeterminatezza.

Studiavo diligente come al solito i miei quiz e seguivo le lezioni ma non mi rendevo conto, continuavo a pensare che un giorno o l’altro mi avrebbero telefonato a casa per avvertirmi che era stata trovata abbandonata sotto un ponte o lungo un argine, oppure che era tutto uno scherzo architettato da mio padre e dagli amici per farmi penare il giorno dell’esame. E io avrei mandato all’aria lezioni e quiz per un bel po’, perché avanzavo ancora quel giro e a quel tempo pensavo che non ci potesse essere nulla di meglio che correre in moto. E poi era ancora fresco, era Settembre, ma anche a Ottobre, che corse mi sarei fatto!

Due volte sono passato persino di fronte alla scuola chiusa. Non per vedere se me la avevano riportata al suo posto, idea assurda, ma per controllare se non avevo visto bene, che magari non si era mossa di là, oppure, con la
testa per aria che avevo, se non l’avevo parcheggiata in qualche posto strano e nascosto.

“Senti, Paolo, ti devo parlare”.

Non provo più piacere a fare l’amore con te, qualche volta, perfino, ho
la nausea. Il tuo odore mi irrita, non ne posso più.

Questo mi ha detto, anche se non subito.

Sono uscito un attimo a prendere aria, non mi sentivo bene. Seduto sui gradini d’ingresso, vicino alla magnolia gonfia di passeri e rondini agitatissimi, mi sono dovuto rialzare subito, perché il postino reclamava. Il mondo continua ad andare avanti: bolletta della luce e le nuove offerte di un ipermercato.

Stavo per andare a sedermi accanto a lei, sul divano, di fronte alla tv spenta, quando è suonato il telefono e mi è arrivata la chiamata che aspettavo da 20 anni.

Avrei voluto abbracciarla, dirle “Amore mio, come è possibile?”, ma le avevo già detto tutto.Una confessione lunga un parto, con me che le facevo dei discorsi da uomo sensato per consolarla, esserle vicino.

Capivo la sua sofferenza, come deve essere stato difficile dirmelo, e poi  tutti gli anni passati a fingere di godere, l’energia il sudore la solitudine la fatica fatta contro di sé, per me.

In tutto questo tempo, mi sono preoccupato del mutuo, del lavoro, di non perdere per strada i tre rompiballe, della famiglia. E non ho mai capito che fingeva, non un dubbio. Ma forse il tempo non ce l’avevo, per il dubbio. Non mi hanno aiutato i corsi di aggiornamento, lo sforzo per capire le complicazioni dell’elettronica, arrivate a una “vecchia guardia” come me affezionata ormai alla fisicità forse grossolana, forse più vicina all’umano di leve assi cinghie e pistoni. La sera, a casa, dopo mangiato, restare sui depliant e i manualetti grattandosi la testa come uno scolaretto.

È triste doverlo dire, e provo vergogna di me, ma una cosa l’avevo capita. Che fare l’amore era diventato una specie di valvola di sfogo, un momento di ricarica per affrontare con serenità le difficoltà della vita.

Ricarica?

Barbara me la dava, la mia ricarica, ma ora ha speso tutta la sua energia, o vuole salvarsi prima che sia troppo tardi per ricaricare se stessa.

Siamo di nuovo lì, in quella stanza dove sono arrivato salendo le scale con una strana fatica.

“Per tutto questo tempo, e non sei riuscita a dirmelo prima, amore? Io ti amo!”.

La abbracciavo, le facevo male da quanto la stringevo, le prendevo il viso tra le mani e, umido di lacrime, lo puntavo contro la mia testa.

“Ma recupereremo, vedrai, ora che me l’hai detto!”.

Invece lei era così perentoria con quel suo silenzio. Ho pensato subito che avrei voluto aprire le finestre, mi sono precipitato giù e ho fatto esplodere la porta.

Mi sembrava che quelle finestre fossero sigillate. Peggio, che fosse stata lei a sigillarle. O forse ero stato io, o i bambini?

E fuori c’era il vento e il postino che arrivava portato dal vento, e la magnolia che oscillava come al solito, un rumore di normalità armata, impossibile da interrompere.

“Eccolo qui. Abbiamo fermato un iraniano una settimana fa. Diceva che il motorino l’aveva comprato da un suo amico, ma non aveva il libretto. Abbiamo controllato il numero di telaio e con un po’ di sforzi siamo risaliti a lei. Lo riconosce?”.

Mentirei se dicessi che non mi ricordo il mio primo e ultimo vespino primavera.

“Il modello è lo stesso, il fanale così non lo fanno più. Ma il cavalletto è diverso, e anche le ruote e poi non era di questo colore. Era blu, questa è verde”.

“È sicuro? Provi a ricordare. Consideri che probabilmente il ladro per rivenderla ha dovuto modificarla, il colore è la prima cosa.”

“No, guardi, credo che stia perdendo il suo tempo. Sono passati troppi anni, l’avranno buttata ai ferrivecchi o smontata e venduta a pezzi. Se la tenga per se o la regali a qualcuno, qualche poveraccio che ne ha bisogno. Per me quell’iraniano se la può anche riprendere.”

A questo punto il brigadiere si è fatto serio in volto e mi ha guardato come uno scolaro immaturo da educare. Mi sentivo proiettato in una scena da libro cuore, il libro dei ricatti, coi miei tratti deformati simili a quelli di un selvaggio, e il maestro-brigadiere torreggiante, un compromesso tra una divinità pagana e la severità delle espressioni di mio padre 20 anni fa, le partizioni del volto perentorie.

Continuava a insistere e non gli importava se per me un numero di telaio non corrispondesse a una Vespa intera. Aveva fatto quella gran figura di beccare un ladro dopo 20 anni, neanche il vero ladro probabilmente, e non voleva che gli guastassi tutto con le mie resistenze.

Controvoglia ha voluto che mi sedessi su quella Vespa e io provavo un gran fastidio, un imbarazzo come abbracciare una persona che non conosci. Ma sono sceso appena ho potuto, appena ho visto che il maestro-brigadiere mostrava un volto soddisfatto, e ci mancava che mentre me ne andavo da quel cortile di cemento dove ho effettuato il riconoscimento tenendola per il manubrio, quel despota mi elargisse un buffetto sulla nuca. Ho sentito sbattere il cancello dietro di me con un colpo secco, deciso, e non so perché ma mi sembrava di essere stato cacciato da scuola, o da un istituto di correzione. La mia schiena, da tempo non abituata all’altezza di un motorino, si era progressivamente curvata.

Nei giorni seguenti non riuscivo ad avvicinare mia moglie. Mi sembrava una creatura straniera, un animale arrivato di nascosto in casa mia. Ma quest’animale, col quale avevo trascorso 16 anni, condiviso tre nascite e una quantità di altri accidenti e gioie, aveva il potere di farmi sentire a mia volta estraneo.

Tornando a casa mi era tornato in mente tutto, dove andavo, da dove venivo, chi ero ora, appeso alle manopole nere aggiunte dal ladro. Trascinare quel peso sulle ruote mi ricordava inevitabilmente – e lo facevo con un sorriso – quando nei tempi lontani della scuola d’infanzia mi assegnavano un compagno antipatico da tenere per mano. Lo facevo, come ora, guardando bene davanti a me, fingendo che quella parte del mio corpo, la mano, stesse solo trasportando un peso qualunque, una cartella o una piccola valigia. La mano stessa, spersonalizzata per negare un contatto compromettente, diventava una parte del peso-compagno da portare a spasso.

Irreversibile o irremovibile? Che cosa spiegava meglio la posizione di Barbara?

Adesso fra di noi non c’erano correnti di scambio, due liquidi si erano uniti e avevano coabitato lo stesso spazio, senza mai compenetrarsi. Ora le due correnti si dividevano. Ciò che mi faceva impazzire è che sembrava una cosa logica.

Potevo tirare deciso la corda ma dall’altra parte non c’era nessuno a contrastarmi, a tenerla su. Abitavamo due rapporti diversi.

Al semaforo un tizio, abbassando il finestrino, mi chiede se sono rimasto a piedi. Non gli rispondo e come automaticamente cavalco la sella, imbarazzato come un bambino che vuole correggere subito una cosa strana che ha fatto senza chiedersi se prima  fosse stata sostenuta da una ragione. A questo punto accendo e il rumore non è più quello rimbombante dell’atrio della caserma, sembra molto più contenuto, limitato a qualche scoppiettata qua e là, rispondendo alle smanettate del gas. Un ronzio che mi accompagna discreto e per il quale comincio a provare una inaspettata simpatia.

Forse perché lì, in quel cortile, con il maestro-inquisitore, tutto mi sembrava troppo prepotente, arrogante. In fondo tu chi sei per venire qui e alzare la voce, dopo 20 anni? E non c’era proprio bisogno che ti alleassi con questo mastino, sai?!

La nostra è sempre stata una sessualità a voce bassa, intima: sguardi, sorrisi, carezze. Una soluzione provvisoria ai nostri istinti che forse ci eravamo tessuti addosso, come l’abito più comodo per fare ogni cosa. Un relazione casual.

Ora c’è uno strappo nel vestito.

L’ultima cosa che ho pensato prima che un vigile mi fermasse è stata che doveva essersi inselvatichita, in tutti questi anni, a contatto forse con un padrone di altra natura, molto più esigente e sicuramente meno morbido, che doveva averla trattata come un mulo.

“Non ce l’ha il casco?”.

“No… ma vede, questo è un giorno particolare…”.

Perché ho ritrovato la vespa o perché mia moglie vuole lasciarmi?

“Ah, si, che giorno è? La festa dell’esenzione dal casco?”

“Buona questa, no, è che oggi dopo tanti anni hanno ritrovato la Vespa che mi avevano rubato, e io non pensavo…”.

“Va bene, ce l’ha il libretto?”.

“Non pensavo che fosse la mia… cioè… non volevo portarmela a casa anche se…”.

“?”.

“Il libretto dice? Eh no, l’ho buttato via neanche tanto tempo fa, l’avevo trovato in mezzo ai libri di scuola, guarda te…”.

All’improvviso divento serio, capisco che mi sto rendendo ridicolo. Rispondo, sicuro:

“Lo devo rifare. Comunque se vuole può chiedere alla caserma qui dietro la curva, ci sono appena stato”.

“Ok, lo so dov’è la caserma. Ma , alla fine, è sua questa, vero?”.

Ci penso. È una domanda banale, visto che ci sto correndo sopra. Ma ho capito che le cose non sono quasi mai così semplici. Una cosa è tua se hai dei documenti, degli attestati che lo comprovano, ma in questo caso non era così, non avevo niente di quello che serviva per riconoscere una mia proprietà materiale. Solo un’intimità interrotta. L’unica cosa che potevo fare era riconoscere quella Vespa, come si fa con una persona.

Girare per casa per due settimane, fare la spesa, pagare quel che si deve, dormire in un modo nuovo, mangiare con Barbara. Ora avrei dovuto attraversare tutto questo. Stringevo il manubrio della Vespa come se stringessi me stesso, per paura di volare via, e piantavo bene il culo sulla sella. La testa si rovesciava all’indietro nel tentativo di ritrovare istanti di quella giovanile liberazione.

Imparare daccapo a scalare e sterzare, a frenare e, perché no, impennare. La gelateria, la bottega sopravvissuta di un calzolaio, la pizzeria gestita da tre ventenni, mi riapparivano in ordine rovesciato, e a questa velocità sembrava avessero una densità diversa.

Camion, auto, biciclette, scooter, pattini, monopattini. Ogni cittadino della città si è scelto un mezzo per muoversi e fare le sue cose, ci sono gruppi più nutriti, ed altri che vengono subito segnalati dalle maggioranze come scelte originali, solitarie. Ma tutto sembra andare avanti comunque, io passo un po’ troppo il segnale della precedenza (non ho ancora le sensibilità per i freni), un’auto fa il giro più largo per non colpirmi, mentre all’altra uscita una bicicletta passa sfrecciando come se non fosse una rotonda. Tutti questi movimenti che si incastrano quasi miracolosamente, costantemente in equilibrio sull’incidente. Anche l’incidente, mi viene da pensare, è un movimento, anzi il movimento per eccellenza, e poi vengono i verbali e le constatazioni, e sappiamo ciò che è nostro e in che stato, ribadiamo chi siamo e quali sono le nostre proprietà.

Ora io dovevo scegliere, semplicemente trovare il mezzo più conveniente per entrare nella mischia, di nuovo, riconoscerlo tra tanti altri.

*

Il vigile che mi ha fermato ha un corpo squadrato, occhiali da sole con lenti gialle e montatura vistosa, baffi bianchi fitti come pennelli, il testone incassato nelle spalle.

“Allora”, dice dopo essersi guardato in giro, scrutando il movimento nella strada. “Ha deciso?”.

Mi accorgo che il motore della Vespa è ancora acceso. Non so neanche quanta benzina ci sia.

Dovrebbe fare fede la posizione del rubinetto.Il modello primavera non ha una spia che si accenda quando sei in riserva.

Lo spengo.

“È mia.”