Si minore

Dai taccuini inediti di Alban Berg, autore del Woyzeck (1929)

di in: Bazar

1.

Come mi chiamavano una volta? Musicista di semitoni, amico discreto della morte, concertista struggente… Eppure la musica che amavo di più erano i furenti Lieder di Wolf: adoravo le complessità del suo pianoforte, perché aveva radici profonde, armonie brahmsiane. Ma Wolf avrebbe dovuto abbassare la voce. Solo bisbigliando si può avere l’illusione di intraprendere un viaggio. Io, ad esempio, ho cercato e vissuto passioni immense, inadatte al respiro della mia voce, solo per ritrovare il nulla da cui scaturivano. Con ironica eleganza, nonostante l’affanno che mi stremava, ho composto il Woyzeck quasi scrivessi una strana, tragica operetta.


2.

La musica è sovrapporre e accrescere, è togliere ordine all’armonia; ma, nello sviluppo delle dissonanze, non lascio nulla al caso: cerco un suono nudo ed esatto, perché il timbro di ogni passaggio sia cristallino.


3.

La mia celebre lentezza è spesso il nulla, il pentagramma vuoto. Mi restano soltanto gli accenni di un pianoforte immaginario, le labbra che emettono il si minore della morte di Maria . Non dissiperò, come Hugo Wolf, le gioie della creazione componendo lieder furiosamente, giorno dopo giorno, bruciandomi in un’estasi tanto fragile quanto violenta. Wolf aveva la mia stessa tentazione – il nulla – ma ne è stato coinvolto come dalla carezza di un’amante. Ha avuto troppa fretta di svelare l’enigma, di addentrarsi oltre i confini delle cose. Invece di impazzire avrebbe dovuto studiare le leggi del contrappunto, il rapporto fra basso e melodia, fra armonia e voce. Creare uno spazio fra sé e il fuoco. Non cantare direttamente, in mezzo alle fiamme.

Un giorno – l’aneddoto me lo ha raccontato Mahler – Wolf camminava sulle rive del lago Carezza e ascoltava con invidia lo stormire delle foglie. Quel suono armonioso acuì la sua impotenza. Allungò le mani e le immerse nell’acqua: il Lied che meditava di comporre da mesi gli sgorgò dal cuore in quell’attimo: il morendo della voce, gli accordi rari del pianoforte, la luminosità dell’ultimo tema. Ebbro di gioia, cadde in acqua. Quando si risvegliò, in una corsia d’ospedale, invocò carta da musica. Gli venne dato un foglio e lui pianse, perché era asciutto. Non ricordava più il motivo del Lied: l’acqua era scomparsa. Da allora la sua ragione vacillò per sempre. Morì demente, nove anni dopo, nella clinica del dottor Svetlin.


4.

Il particolare mi fa sorridere. La cameriera che è al mio servizio da sei mesi è stata domestica di casa Hofmannsthal per quattro anni. Questo é il nostro unico legame: gli occhi di un’estranea. Per tutto il resto siamo diversi; forse, se ci frequentassimo, saremmo nemici. Non mi piace la grazia perfetta della sua scrittura: posso giustificarla, come affabilità, solo nei rapporti umani. Non gli perdono di avere scritto per Strauss, avallando, con inutili lirismi, quelle lussuose maschere sonore, quei freddi sortilegi timbrici. Il nulla è nulla: non languore del nulla. Nei libretti per Strauss si consuma l’infame tradimento al silenzio di Chandos.


5.

Un giorno, sfogliando i disegni di un pittore pisano del Quattrocento, vidi dei profili straordinari: erano sei impiccati, due dei quali in stato di avanzata decomposizione, proiettati su uno sfondo bruno. Osservandoli provai un senso di intimità, di mesta dolcezza, come se, mescolato alla folla, fossi stato uno dei testimoni dell’impiccagione. Forse il primo spunto del Woyzeck – la pietà per l’assassino – è nato da questi disegni.


6.

Schubert, una volta, amò la melodia. Ma nelle sue ultime opere, con commovente asprezza, la fece emergere dall’architettura vacillante di bizzarri quartetti e prolisse sonate. Fu il primo a capire che non era più possibile, ai nostri tempi, cantare come un usignuolo nella notte. 


7.

Il numero 23 mi atterrisce e mi esalta. Se il 2 si somma al 3 il risultato è 5: un numero dispari, timido e tragico, che si sottrae ai conforti della totalità.


8.

Ora il timbro si concentra in un punto, nell’accordo straziato del clarinetto; ora si disperde nelle linee discontinue di una marcia – un allegro barbaro costruito per suoni sovrapposti. un’accumulazione timbrica, un pezzo di tenebra realizzato in perfetta chiarezza. È la legge dell‘ordine nella distruzione. Fra il caos necessario dei suoni e l’amore architettonico delle forme musicali la distanza è la stessa che separa un corpo torturato nelle segrete di un carcere da un corpo sofferente che possiamo vegliare giorno e notte.


9.

Vorrei che un dio mi concedesse il riposo e il mondo si congedasse  da me: è tempo di lasciare il mio grande affanno quaggiù, di mostrarmi senza la maschera di uomo timido e buono, raffinato e distratto, come sembro. Di mostrarmi quale realmente sono: con la paura che mi allaga il cuore. La paura è veloce e silenziosa, come un fiotto di sangue: ti toglie il respiro, ti costringe a tacere. Ma io non sto zitto, sono un bimbo capriccioso, invento l’illusoria vastità di un’architettura che inclina lentamente verso l’assenza di suono, come l’orchestra mahleriana dell’Ottava si spegne nel suono di una viola sola. Cerco di legare lo shock del suono al suo impercettibile sussurro, la sorpresa folgorante del rumore al più puro dei silenzi. Lego il pànico alla tenerezza, la logica all’assurdo: la mia musica non è altro che il ponte improbabile teso fra la cascata scrosciante e la vetta muta. Non contano i risultati ma i passaggi: il divenire di uno spegnersi, l’andare del suono verso un minimo udibile. Come ho esemplificato, con eccessiva chiarezza, nell’annegamento di Woyzeck, nel trasalire degli archi, nel rauco morire della voce…


10.

Musicista lirico, mi definiscono i critici; buono a comporre lieder, romanze, rapsodie, ballate. Nulla di più falso. Mi è necessaria l’interruzione dell’incanto, la prosa del quotidiano. Ho bisogno della vastità per esprimermi – della volgarità e della merda. Mi è congeniale, come forma, l’opera lirica: grande anfiteatro in cui posso tracciare il grafico del lento, ironico dissolversi delle forme monumentali…

 

11.

Ogni volta che scrivo musica mi metto dalla parte delle cose offese, degli esseri inermi: sono la vittima trafitta, l’animale ferito, la donna lasciata, la casa crollata. Più che amore della sofferenza è un atteggiamento musicale, una consapevolezza timbrica. Il sudore della febbre deve mescolarsi alla purezza del corale, altrimenti l’opera non nasce: non emerge la vasta superficie sonora che io disarticolo con suoni puri, la grande basilica di cui mostro come centro l’altare franato.


       12.
       Le scene del Woyzeck hanno nomi classici: Suite, Rapsodia, Fuga, Passacaglia, Berceuse. Sono forme storiche della musica, colte con ferrea esattezza nel loro disfarsi. La norma brahmsiana della variazione, lo sviluppo impercettibile dei bassi, il misterioso occultamento del tema, sono conquiste del passato: ormai mi sono estranee. Esigenza di comunicare: ecco il mio sogno.

Chiunque deve capire che qui, nel mio Concerto per un angelo, muore  una bambina di straordinaria bellezza. Il violino si accorda nel vuoto, viaggia fra le volte della basilica, risuona in un luogo troppo vasto.


13.

Tutti, per la mia opera, usano gli stessi aggettivi – dolente, umano, pietoso – e fondamentalmente io sono d’accordo. Ma sposterei il problema dal sentimento al timbro. Una voce che sprigiona dal buio e affonda nel buio, consapevole e melodiosa insieme, è timbricamente umana. Da ciò si può facilmente dedurre, nonostante le mie esagerate dimostrazioni d’affetto, che non ho mai amato Schonberg. L’ho venerato per la sua asprezza, così difficile da imitare, e per la sua audacia; non per la musica, algebrica e sicura, freddamente perentoria, sdegnosa dell’udito umano. Ho sempre paragonato Schonberg a Kandinskij, non so perché. Mentre ho accostato volentieri la mia opera a quella di un ricercatore dell’invisibile, come Paul Klee. Altri dovranno spiegarne le ragioni. Io credo, però, che si tratti di un disamore per l’autorità astratta del segno e di un amore per la trasparenza musicale dell’emozione.


14.

La Nutrice: Séurat, 1882. La matita evoca, con un  groviglio di segni neri e sottili, la forma di un corpo che si appoggia delicatamente al buio dal quale è plasmato. Il corpo è spazio che sgorga dal reticolo tracciato dalla matita, struttura colta nel suo dissolversi. Séurat esprime, visivamente, ciò che io voglio rendere con il suono: la forma dello sparire indagata nei minimi passaggi, senza concedere niente alle seduzioni del timbro o alle purezze della melodia. Una forma è il niente nel quale è immersa, la tenebra da cui scaturisce e alla quale ritorna. Oggi nutrice, domani culla, dopodomani temporale o muro. Il tema non conta. La musica si forma dal buio, da una regione insonora da cui timbri e ritmo emergono come per un’intimità antica. LaNutrice: ma il bambino, dov’è? Nel disegno di Séurat il bambino è assente. Il buio è vissuto, dal corpo della donna, come sorgente, non come figlio. Ricordo un’altra incisione – non rammento l’autore né il nome: una figura di madre, dentro un interno bruno, veglia una culla abbagliante dove, al posto del bambino, c’è soltanto un’esplosione di luce. Io, di quel bambino, non so nulla. Ma forse, di come nasce, ho saputo qualcosa…


15.

Ogni opera è un nodo da sciogliere. Come districarsi nella dinamica degli intermezzi? Nessuno spazio alla degustazione dell’agonia, come nei lussuosi Lieder di Strauss. Mai. Solo un’azione concitata, un respiro mozzato, l’apnea alla gola. Il cuore si chiude a pugno e si dilata con forza, come fosse premuto da una forza di opposta violenza. Io odio la violenza, ma le vite umane esigono la loro voce contro la voce dei carnefici…

Ho vissuto da uomo dolce e distratto, mai adulto. Ma vi ho sempre ingannati. La durezza mi è stata compagna quasi più della dolcezza. La mia musica non è sentimentale. Coglie con precisione l’attimo storico di una crisi. È confidenza con la caducità, incapacità di sottrarsi alla stretta del buio. Le mie partiture sono complesse, affilate come coltelli. Non ho niente da spartire con i lirici, i poeti puri. Amo Smètana più di Debussy, e di Chopin accetto solo certe stupefacenti invenzioni timbriche.

16.

[…] Sul lago è venuto l’uomo con la barca – frase di una vecchia lettera che mi ritrovo a rileggere, a notte alta, a distanza di anni, trasformata nell’inspiegabile sentenza di un oracolo. Forse mi busserà alla porta, quell’uomo. Entrerà, con il solito abito nero, e mi commissionerà… Non un Requiem, spero. Magari un Adagio per clarinetto solo. Poi tornerà nella sua barca e riprenderà a remare. Mi fa così male questa puntura di vespa, così male… Che giorno è oggi? 2… 3… 23… Allora occorre morire.