Don Chisciotte disoccupato

Spesso un romanzo nasce da una semplice immagine, un’intuizione, e altrettanto di frequente, dei grandi romanzi a rimanerci impressi sono i personaggi più che le loro azioni. Quanti episodi del Don Chisciotte sono ormai soltanto ricordi vaghi, mentre l’anelito tragicomico del cavaliere della Mancha e la grassa prosaicità del suo fedele Sancho Panza sono ben presenti e vivide nella memoria? Del resto sono impressioni sempre feconde, anche per lo scrittore di oggi, purché i sensi e il pensiero restino vigili, attenti alle contraddizioni dell’epoca: Don Chisciotte può allora reincarnarsi in un proletario neo-disoccupato dei nostri giorni, portare a guisa d’elmo un casco rosso da minatore con lampada al carburo, e, accompagnato dal fedele nipote adolescente, proiettare la propria tensione ideale là dove il progenitore spagnolo scorgeva la possibilità di provarsi nobile cavaliere: nel lavoro. È questa l’idea che Volker Braun, autore tedesco tra i più noti e onorati, nato a Dresda nel 1939 e cresciuto nella Ddr, ha sviluppato nel suo ultimo romanzo, uscito da poco in Germania per Suhrkamp con un titolo eloquente: Machwerk, ovvero “abborracciamento”, ma anche “opera in fieri” o, come scrive l’«autore» stesso nella postfazione, “titolo di lavoro”. Sottotitolo: Il libro dei turni [ma anche “libro a strati”, ndr] di Flick von Lauchhammer. Anche il nome del protagonista rimanda alle idee di “lavoro” e di “raffazzonatura”, mentre il cognome lo radica immediatamente nella sua regione natia, il bacino ormai post-industriale del Niederlausitz, in piena Germania orientale, dov’egli è stato attivo fino a sessant’anni come riparatore d’emergenza in una miniera a cielo aperto, prima di ritrovarsi a un tratto disoccupato. L’intuizione di base è semplice ma esatta, persino un po’ profetica: aspirare a lavorare in una «circostanza», come l’avrebbe chiamata Ortega y Gasset, in cui di lavoro non ce n’è più. Ed è in una tale landa desolata, dipinta con tratti visionari, che l’autore fa muovere in principio il suo eroe alla ricerca di problemi da risolvere, lavori da fare, occupazioni insomma, in una ridda di avventure picaresche che denudano i più vari risvolti della realtà del (non)lavoro contemporaneo. Non mancano poi episodi ambientati a Berlino, a Parigi, in mondi immaginari e perfino in una Puglia pseudoverista, dove il protagonista si ritrova alle prese con la “schiavitù” degli immigrati centro-europei nei “campi di raccolta” di frutta e verdura. Poeta, prosatore e drammaturgo, attivo per anni al Deutsches Theater e al Berliner Ensemble, dove fu cooptato da Helene Weigel, Braun non è nuovo ai richiami formali della prima modernità come specola straniante sul presente: in ambito romanzesco, lo aveva fatto nel 1985 con l’Hinze-Kunze-Roman (Romanzo di Tizio e Caio), il cui modello manifesto era uno dei più audaci esperimenti in prosa settecenteschi, Jacques e il suo padrone di Denis Diderot; lo ha fatto oggi con il Machwerk, palesemente cervantino.

Ho incontrato Volker Braun all’Accademia delle Arti di Berlino, di cui Braun dirige dal 2006 la sezione letteraria. Come la maggior parte degli scrittori dell’est che ho conosciuto, Braun è persona estremamente disponibile e per nulla altezzosa; ha poco dell’artista e molto dell’artigiano, e risponde alle mie domande con la concentrazione e l’entusiasmo di un uomo che ha ancora molto da dire.

 

 

Il lavoro è un tema del quale vi siete occupato spesso, fin dai primi tentativi letterari. In quale misura il fatto di essere stato innanzitutto un lavoratore nell’industria e solo in seguito uno scrittore ha influito sullo sviluppo dei vostri mezzi poetici?
Da ragazzo, naturalmente, ero un intellettuale: lessi I masnadieri di Schiller e lo Zarathustra di Nietzsche, le Fiabe di Hauff e la scienza di Planck, che trovai nella biblioteca di mio padre, morto in guerra. Nell’industria ci finii dopo il diploma. Conobbi dunque ben altro lavoro e piacere prima di fare il “lavoro sporco”. La scrittura, tuttavia, ha assunto sostanza e contorni solamente dopo l’esperienza della produzione, di cui assaporai l’amara contraddizione e la tematizzai nel dramma sui Kipper [i carrelli ribaltabili usati nelle miniere, ndr].

 

 

Il lavoro come ideale donchisciottesco in una realtà che «se l’è lasciato alle spalle»: secondo voi è soltanto un esito provvisorio dell’era post-industriale o l’indizio di un mutamento più profondo e duraturo?
Questo ideale rivolto al passato, folle in certo qual modo, chiama in causa tutta la magia e la miseria del mondo del lavoro, le quali ci inducono a chiederci: cos’è che stiamo facendo, e come si può andare avanti? Il lavoratore dall’eroica figura lascia a noi l’attività più importante: mettere in discussione ciò che facciamo. Il nostro ricorso furioso alle risorse, la produzione sconsiderata. L’“abborracciamento” dell’umanità.

 

 

La forma episodica del romanzo picaresco è particolarmente adatta a rappresentare l’attuale mondo del lavoro, nel quale i curricula individuali, ciò che si è fatto “prima”, sono altrettanto irrilevanti dei progetti esistenziali a lungo termine. Che cosa vi ha portato alla scelta di questo modello?
La realtà stessa, la brevità del suo respiro, e i suoi aspetti, così diversi, di comicità e tristezza. È qualcosa che richiede di essere affrontato a più riprese, con slanci molteplici: per facezie, dico io. La parola tedesca per “facezia”, Schwank, viene dal linguaggio degli schermidori: fendente, colpo, e, per come stanno le cose, esso deve vibrare in molte direzioni. È uno specchio lucido e duro, che cattura tanto il dolore quanto l’allegria. Che poi l’oggetto di conquista sia sempre un fallimento, è connaturato al suo modus miserando. Le condizioni attuali sono ostiche e non facili da rovesciare, e di ciò il libro restituisce, tormentosamente, la consapevolezza.

 

 

La densità linguistica, gli slittamenti di senso e il registro “inattuale” del romanzo richiedono al lettore uno sforzo, un “lavoro” dunque, al quale molta narrativa attuale ci ha disabituati: quale intenzione si cela in una simile sfida in rapporto alla forma e al tema centrale del romanzo?
Scrivendo mi sono sentito come un intermediario per il mio eroe: ero io che gli procuravo il lavoro, che gli davo da fare. Ma ero un tutore impaziente, che non lo aiutava a lungo. Anche perché, in generale, penso più che altro al mio piacere e al mio appagamento, che posso trovare soltanto nella lingua. È vero, tuttavia, che il libro dà da fare al lettore, richiede impegno, forse più del solito; e così si vede che il lavoro c’è ancora… un lavoro che disincanta, fruttuoso.

 

 

In Italia di recente si è parlato di un “ritorno” – effettivo o auspicato – “alla realtà”. Il vostro romanzo si richiama alla libertà compositiva e alla fantasia dei grandi romanzieri dell’era moderna. Qual è a vostro parere lo stato dell’immaginazione in Germania?
L’immaginazione non se la passa bene; si è guastata nel capitalismo ed era fiacca nel socialismo, che allevò una società particolarmente povera di fantasia. Ma ancor peggio se la passa la percezione (e in tutta umiltà devo dire che il mio libro non è altro che un tentativo di percezione). Senza immaginare – le conseguenze e le possibilità del nostro agire – non si può percepire, e così andiamo avanti, persistendo nell’abitudine di vivere senza alternative.

 

 

L’autore, si legge nella postfazione, ha scritto il libro in quattro Einsätze, una parola che significa “inserti”, ma soprattutto “impieghi”, “interventi”: ancora una volta il rinvio è a una sorta di lavoro, un intervento d’urgenza… La letteratura come forma di libertà, come modo di rompere le consuetudini, attingendo a un’altra vita possibile?
L’autore non era tenuto ad aspettare che lo si chiamasse, è occupato con se stesso e con le circostanze. Nel caso di un tema vasto come il lavoro, naturalmente si trattava di un intervento serio, dal quale a mio modo volevo ricavare piacere. L’alternativa decisiva, l’ho vissuta e agognata io stesso, è nel lavoro stesso, il lavoro “altro” di un genere capace di pensare la totalità. La libertà del poeta può certo offrire un esempio laddove egli scelga volontariamente la propria possibilità più ardua.

Volker Braun è nato a Dresda nel 1939 ed è cresciuto nella Germania dell’Est. Dopo il diploma superiore ha lavorato in tipografia e in miniera, in seguito ha intrapreso gli studi di filosofia a Lipsia. La sua prima raccolta di liriche fu presentata nel 1962 all’Accademia delle Arti di Berlino Est. Nel 1965 entrò come drammaturgo al Berliner Ensemble, dove fu rappresentato e subito vietato il suo primo dramma. Dopo la Primavera di Praga assunse posizioni critiche verso il socialismo. Negli anni settanta lavorò anche per il Deutsches Theater e scrisse uno dei suoi racconti più noti, Unvollendete Geschichte (Storia incompiuta). Negli anni ottanta fu tra i sostenitori di una “terza via” per la Ddr, e dopo la caduta del Muro l’interrogazione critica del fallimento del socialismo divenne il suo tema dominante. Da allora ha ottenuto numerosi riconoscimenti letterari, tra i quali, nel 2000, il prestigioso Büchner-Preis. Membro dell’Accademia delle Arti e attuale direttore della sezione letteraria, vive a Berlino.