La sera in cui si spense la luce

di in: Inattualità

Era un pavillon, o ancora meglio una immensa voliera di legno traforato e bambù, aperto solo d’estate in mezzo a un parco, sotto l’ombra di tigli e ippocastani. C’era in effetti anche un cocorito, che però non scendeva mai da un suo altalenante trespolo da cui calava sui clienti certe sue chiacchierate condite di deiezioni e di sghignazzate da pirata. Vi si poteva bere grossi e bugnati bicchieri di Itala Pilsen, la birra d’allora e, per i bambini come me, granatine di colore rosa ciclamino. Si frequentava alla sera, per godere l’aria di quei mesi molto caldi di prima estate.

Minuscoli tavolini erano disseminati qua e là, con abat-jour a cupola di seta rossa con frangia lunga che dava il segno dell’aria vagante. Da un banco di rame da cui andavano e venivano camerieri simili a lemuri nell’oscurità appena punteggiata di lucciole spumeggiava l’Itala Pilsen, considerata il meglio. La ghiaia scricchiava insieme al sughero delle gentili signore, al cuoio di giovani gagà, con farfallina e capelli impomatati, alcuni con canna d’India.

Rarissime automobili con fari schermati (c’era stata da pochi giorni la dichiarazione di guerra) scivolavano lontano da quell’oasi ma di guerra si parlava ai pochi tavoli come di una avventura lontana, un flatus vocis pronunciato alla radio pochi giorni prima da Mussolini.

Lavanda era il profumo dominante, non si sa se vero, proveniente da siepi che limitavano ilpavillon o da una Linetti molto di moda in quegli anni. Rayon o sete lievissime con grandi papaveri e ciliegie fasciavano i fianchi di giovanissime e bionde clienti accompagnate dai gagà e da ufficialetti.

Qualche papavero fascista in divisa bianca e addome non di prammatica fumava una sigaretta sottile e con bocchino dorato.
Io stavo con mio padre e mia madre, con abiti d’epoca, lievemente deliziati da quel luogo indubbiamente molto elegante ma ritenuto fuori moda e quasi cristallizzato nel secolo precedente.

Alle volte c’era anche un’orchestrina composta di non più di due elementi, un mandolino e un banjo, entrambi ciechi e con rotondi occhiali neri. Non privi però di bizzarria perché, oltre a suonare, accennavano a lievissimi passi di tip tap. Un nulla, due marionette di importazione americana con paglietta. Sapevano quasi tutto e riuscivano a cavar fuori dai due strumenti perfino qualche valzer richiesto da un affezionato, per non dire fanatico, ufficiale tedesco con monocolo.

Senza tuttavia rinunciare alle movenze, ai miniritmi del tip tap che parevano una loro invenzione.

Erano inglesi, infatti, due inglesi ma autenticamente ciechi. Sarebbero scomparsi dopo pochi giorni e in ogni caso erano i soli a parlare nella loro lingua con il cocorito che, se ben ricordo, pareva rispondere a tono e alle volte scendeva in una svolazzata fino alle loro spalle.

Una sera, di colpo, mancò la luce, e i globi rossi di seta si spensero. Così per i globi di cristallo sfaccettato all’interno, e il padiglione piombò nel buio come del resto l’intera città. I soliti mormorii, i soliti accenni di candele introvabili. Nel cielo apparve per due volte una fascia di luce bianca proveniente, si pensò e si disse, dai riflettori dell’antiaerea lontani un quattro cinque chilometri da quel luogo, appostati nel campo di aviazione. E subito dopo il fischio di due Stukas a bassa quota.

Il tutto durò pochi minuti, il tempo esatto di quattro anni di guerra. C’erano tutti gli elementi: la fine del pavillon (che infatti bruciò un anno dopo sotto gli spezzoni), l’incenerimento delleabat-jour di seta rossa, la scomparsa dei due eccentrici inglesi, l’involamento del cocorito, la volatilità del proprietario, ebreo tedesco (Goetzl, chissà come ancora in attività), l’oscuramento, gli Stukas, il monocolo dell’ufficiale tedesco, i gagà e le sottanine di papaveri, i papaveri fascisti in sahariana bianca e perché no? la inspiegabile gioia di bere una granatina al lampone e due Itala Pilsen per una famigliuccia forata da una miccia che ancora si doveva accendere. Cinque anni in pochi minuti solcati soltanto da due farfalline bianche, ovviamente ignare.

dal Corriere della sera dell’11 luglio 1982