L’eccezione di Maertens

di in: Spazzavento

Maertens era un uomo enorme. Alto più di uno e novanta, per un peso superiore ai cento chili, abitava alla periferia di Sile. Da quando era morta la moglie, non riusciva più a entrare in casa. A fine giornata scendeva dalla corriera che lo riportava nel quartiere e si sedeva sulla breve rampa che saliva verso l’ingresso. Guardava i passanti, a volte piangeva in silenzio, reggendosi la testa con una mano. Nella maggior parte dei casi dopo un’ora dovevano intervenire i vicini, che gli prendevano le chiavi dalla tasca del giaccone e gli aprivano. Allora ringraziava con un cenno ed entrava. In altre circostanze restava invece ancora seduto a guardare la porta spalancata sull’atrio.

Ad alcuni che gli avevano chiesto la ragione di questa difficoltà, Maertens aveva risposto che il gesto di aprire la porta per lui era diventato un enigma. Lo spazio gli si apriva davanti come un vuoto in cui la materia sprofondava.

Lavorava come responsabile di reparto in una fabbrica di lamiere, sovrintendendo alle presse da cui uscivano gli stampati che andavano a ricoprire i condizionatori d’aria. Sua moglie era morta dopo una breve malattia l’anno precedente. Nei primi mesi dopo il lutto, al termine della giornata due colleghi lo invitavano in un bar per lasciar passare un po’ di tempo prima del ritorno, poi lo riaccompagnavano a turno in macchina. Uno dei due si era anche offerto di riportarlo a casa ogni giorno e di aprirgli la porta, ma lui aveva rifiutato sostenendo di dover affrontare da solo la sua difficoltà. Per la stessa ragione, a primavera inoltrata aveva abbandonato anche la consuetudine del bar. Prendeva la corriera, scendeva alla fermata e tornava a casa a piedi, attraversando il quartiere.

Si era trasferito in quella casa circa dieci anni prima, dopo aver trovato l’attuale impiego. In gioventù per un po’ aveva studiato letteratura, superando anche un paio di esami all’Università, poi si era impiegato presso una società di trasporti. Erano sposati da ventidue anni. Per un caso davvero poco ordinario l’aveva conosciuta al mare, in vacanza, anche se era della sua stessa città. Si erano ritrovati vicini di ombrellone. Lei aveva lavorato in uno stabilimento tessile, poi in sartoria. Quando pensava ai vestiti che lei indossava negli anni della sua giovinezza, quello che era accaduto gli sembrava impossibile.

Saliva la rampa, prendeva in mano la chiave, la avvicinava alla serratura. Poi la materia si separava, scompariva davanti ai suoi occhi rivelando lo spazio in cui ogni cosa è sospesa. Tutto si disgregava: volontà, forza, precisione, dispositivo meccanico, impulso elettrico. Tutto perdeva consistenza. E non era tanto la forza simbolica dell’oggetto, ma la sostanza delle cose: quando aveva quasi cominciato a credervi, l’aveva vista dissolversi fra le sue mani.

In casa, la sopravvivenza degli oggetti lo stupiva. A volte si fermava davanti alla lavagna appesa in cucina, dove segnavano le cose per la spesa: il legno della cornice mostrava una capacità di resistenza impressionante. Il suo lavoro era riuscito a rimanere in piedi solo per l’amicizia con i colleghi, per un senso di solidarietà che derivava dal ricordo degli anni dedicati a questo impiego, ma proseguiva ormai in un’altra forma.

“Com’è che l’altro giorno non c’eri, a vedere la partita?”

“Non lo so. Sono arrivato a casa, ho fatto la doccia. Poi mi sono cambiato e mi sono addormentato sul divano. Era una cosa che non mi succedeva da tanto.”

Mangiava un panino con Hoesle, un suo collega. Ultimamente era colto da questi momenti, in cui la stanchezza accumulata in quei mesi si riversava intera. Non gli era mai accaduto in precedenza, ma ora c’era poco da fare. I ricordi, le immagini della sua vita con lei lo prendevano di soprassalto nelle occasioni meno prevedibili: una gita a Venezia; la cerniera di un abito, il modo con cui si appoggiava al bancone quando era stanca. In coda per andare dal medico, gli era tornata in mente quando si lamentava perché le calze valevano poco e si smagliavano sempre. Il pensiero di ciò che era rimasto lo spossava, perciò la sera restava in soggiorno e dormiva sul divano, ancora vestito, come se si trovasse in un riparo di fortuna.

Il sabato mattina andava dal fioraio, comprava un mazzo di gigli e li portava sulla tomba. Poi faceva un lungo giro per la campagna e tornando indietro si fermava al parco. Mangiava qualcosa in uno dei chioschi, se capitava, oppure nei bar vicini all’entrata. Leggeva il giornale. In altre occasioni, se ce n’era bisogno, dava una mano a qualche collega. In queste passeggiate aveva fatto alcune riflessioni. Quel che provava, pur nella sua irripetibilità, non era del tutto inedito. Nella sua famiglia c’era già qualcuno che era rimasto vedovo anzitempo: uno zio, ad esempio, si era riscattato mettendosi a disposizione degli altri in varie attività di volontariato. Una cugina, più anziana, si era trasferita al sud, nella città in cui viveva sua sorella, tanto per avere qualcuno da vedere, ogni tanto. I suoi erano morti in età avanzata.

Se ne stava in giro per buona parte del giorno e tornava a metà del pomeriggio, indugiando attorno alla casa. Puliva la rampa, il piccolo quadro di verde con l’ agrifoglio, dava un’occhiata al retro, portava via le immondizie, spazzava il vialetto. Poi si sedeva, incrociava le gambe e riprendeva la sua battaglia.

Una vicina, che era stata amica di sua moglie, finito il giro delle pulizie spesso si fermava a guardarlo dalla finestra. Il più delle volte era lei ad andare ad aprirgli.

Una sera, prima di coricarsi, si era improvvisamente scoperto a cantare, prima a mezza voce e poi con più forza. Cantava una canzone di montagna, che non gli piaceva neanche tanto. Si era giusto lavato i denti e mentre rimetteva spazzolino e dentifricio nell’armadio era stato colto da quel desiderio inatteso. Non amava le canzoni di montagna, soprattutto quelle campestri, che raccontavano un mondo artificiale, lontano da quella che era stata la sua esperienza di vita. Apprezzava di più quelle di guerra, eppure non si era fermato. Finito il canto, dopo essere rimasto in piedi davanti allo specchio per tutto il tempo, era andato a dormire. Anche la mattina dopo, già pronto per il lavoro, mentre sistemava con le mani il colletto della camicia, si era messo a cantare. Ne era rimasto sorpreso, aveva cercato di riferire la cosa al suo stato d’animo, ma era andato avanti. Un tardo pomeriggio, prima di sedersi davanti alla porta, aveva cantato per intero, lentamente, Son partito al chiaro di luna e Novembre. Lo aveva dovuto fare a bassa voce, guardandosi attorno con circospezione. Ora si metteva a cantare anche queste canzoni? Cantava a bassa voce, seduto davanti alla porta, come fosse una litania personale, un’esecuzione privata.

Quella sera, quando un vicino era venuto ad aprirgli, lo aveva guardato con grande comprensione. Chissà cosa avrebbe detto, sua moglie, a vederlo ridotto in quel modo.

Non era andato a vedere la partita al bar, era rimasto a cantare nel silenzio della casa, che aveva lasciata al buio per seguire meglio la musica. Cantava lentamente, con rigore, senza farsi trascinare troppo dall’emozione. Poi si era alzato, aveva fatto le pulizie e rimesso tutto a posto.

Una mattina presto, sull’autobus, guardando dal finestrino, si era messo a seguire i giovani che andavano a scuola. Rifletteva sulle ultime questioni sorte in fabbrica, sulla necessità di cambiare il profilo degli stampati secondo un nuovo disegno fornito dalla ditta per cui l’azienda lavorava. Eppure, al di là di questo, pensava soprattutto a cosa avrebbe cantato la sera, non appena arrivato in casa. Aveva molto da fare. Teneva in tasca un libretto con i testi e gli accordi delle canzoni che era riuscito a comprare su una bancarella.

A fine giornata, da solo, se ne andò al bar, si sedette al bancone e ordinò una birra. Era meno affollato di quanto pensasse. Vicino a lui, seduti sugli sgabelli c’erano due camionisti che non vedeva da molto tempo, ma che avevano subito ricambiato il suo saluto. Per non sembrare troppo solo, tirò fuori il libretto delle canzoni, che aveva foderato perché desse meno nell’occhio, e si mise a ripassarne una mentalmente.

I due parlavano di una cena a casa di un amico, di chi fosse opportuno invitare, ma dopo qualche minuto cominciarono a guardarlo.

“Allora, Maertens, hai finito di leggere?” Chiese il più anziano dei due.

Maertens si voltò verso di loro: “Sì, sì dovevo solo controllare un paio di dati”, disse, rimettendo il libro in tasca. Poi aggiunse: “A proposito, già che ti vedo, dovrei chiederti una cosa sulla vita dei cori. Tu canti in un coro da almeno vent’anni, credo, e ogni tanto fai anche il solista. Ti è mai capitato di trovarti in difficoltà, in una data importante?”

 

“In tanti anni che canto, era ovvio che capitasse. Ad esempio, una volta, in Germania, ero così giù di voce che non sapevo neanche se sarei arrivato alla fine della mia parte.”

“E allora, cosa hai pensato?”

“Niente. Quello che si pensa sempre: che tanto la canzone va avanti lo stesso. Ma cosa c’è, adesso canti anche tu?”

“No, mia moglie dice che per cantare posso anche cantare, ma che non sono proprio tagliato per esibirmi in pubblico.”

“Tua moglie ha ragione” rise il camionista.

Sorrise anche Maertens, mentre nel piazzale davanti al bar la corriera cominciava a mettersi in moto.

“Alla sua, allora”, brindò il camionista.

“Alla sua”, rispose Maertens.

Con il bicchiere in mano, dalla vetrata guardava verso il parcheggio della fabbrica, ormai popolato solo dalle automobili di quelli che facevano il turno di notte.

Tornato a casa, aspettò sul muretto in cima alla rampa in uno stato d’animo raccolto, concentrato. Quando finalmente vennero ad aprirgli, entrò, accese la luce, spalancò la porta sull’atrio e vi si sedette di fronte, con le gambe incrociate. Cominciò a cantare sottovoce, quasi con un filo di voce, una canzone che aveva imparato da ragazzo, tornando dal campeggio. Mentre cantava, guardando verso la lampada accesa, gli sembrava di poter contare un po’ di più sulla materia. Seduto come un saggio orientale cominciò quindi un’altra canzone, e finita questa un’altra e poi un’altra ancora, andando avanti fino a notte fonda.

Racconto sul tema dell’eccezione interiore, scritto per Spazzavento. Marzo 2011
L’immagine che illustra questo testo è di Eliana Petrizzi (www.elianapetrizzi.com) e si intitola “Interno”.