Saggezza e romanzo

Non esiste maggior vivaio di pettegolezzi dell’ambiente aristocratico dei Guermantes1. Il duca Basin, sua moglie, la duchessa Oriane, e gli altri animatori del Faubourg Saint-Germain, quartiere generale della mondanità parigina, non perdono occasione di prendersi gioco di amici e conoscenti, consci del loro prestigio sociale, a cui sembrano associare, come basando tale corrispondenza su una nuova legge naturale, la certezza della loro superiorità morale.
Ad esempio, nonostante tutti, a Palazzo Guermantes, sappiano che il matrimonio di Oriane è basato su interessi economici e nobiliari, la duchessa, ravvisando il medesimo atteggiamento calcolatore nel comportamento di Rachel ­– amante del nipote dei duchi, Robert Saint-Loup – non si esime dallo schernirla in pubblico: «E sì, è molto misterioso l’amore […] in fondo, non sappiamo perchè una persona ne ama un’altra; forse, è per tutt’altre ragioni da quelle che crediamo noi»2. Anche Bloch, il giovane drammaturgo israelita amico del narratore, ammesso nella cerchia dei nobili in virtù della sua fisionomia da ebreo, e per questo ideale “ornamento esotico” nel salotto dei Guermantes, una volta accolto dal clan, si adegua in fretta alle abitudini degli amici di sangue blu: dinanzi agli invitati della Marchesa di Villeparisis, partendo dall’assioma «della propria elevata moralità»3 non risparmia critiche feroci a Saint-Loup, ritenendolo colpevole – a differenza di lui! – di eccessive aspirazioni mondane; il narratore commenta in questo modo la scenetta: «Che male c’era, dal momento che l’uomo cui voleva nuocere aveva in testa solo la mondanità e l’eleganza […] e contro gente di quella risma tutte le armi sono lecite, soprattutto a un Santo come lui, Bloch?»4.
Altezze reali e personaggi di spicco non sfuggono al moralismo beffardo dei Guermantes. Ancora la duchessa, nel corso di uno dei suoi ricevimenti, non esita a farsi beffe della regina di Napoli, rea, a suo avviso, di non essersi addolorata abbastanza per la morte della sorella: «Quello stesso giorno ci ha invitati a una festa e mi ha regalato due perle. Vorrei che perdesse una sorella tutti i giorni. Non piange la morte della sorella, la ride, la ride sino alle lacrime»5; salvo poi, qualche mese più tardi, dimostrare scarsissimo interesse nell’apprendere la notizia della morte imminente di uno dei suoi migliori amici, il collezionista d’arte Charles Swann. Commentando la condotta di Oriane, il narratore spiega:

“trovandosi, per la prima volta in vita sua, al bivio fra due doveri così diversi come salire sulla sua carrozza per recarsi a un pranzo e testimoniare pietà a un uomo che sta per morire, [la duchessa] non rintracciava nel codice delle convenienze alcuna indicazione circa la giurisprudenza da seguire e, non sapendo a quale dare la preferenza, pensò di fingersi convinta che la seconda alternativa non si ponesse nemmeno6“.

Senza esprimere condanne dirette, ma ponendo in ironico contrasto gli atteggiamenti (spesso in profonda opposizione tra loro) assunti da uno stesso personaggio rispetto alla medesima questione morale, Proust fa emergere le contraddizioni in cui incorre la natura umana, al momento di misurare i principi etici con il concreto della vita quotidiana. Funzionali a tal tipo di approfondimento non sono solo i nobili Guermantes, il cui microcosmo, fondato sulla necessità dell’ammirazione altrui, rende solo più evidente lo scollamento tra la maschera da indossare in società e la loro vera natura di soggetti morali (o amorali). Molti altri personaggi della Recherche sono descritti alle prese con i loro punti deboli, o conflitti di coscienza, in cui la condotta morale osservata abitualmente è declinata a favore di impulsi più sotterranei: dalla cameriera Françoise, animata da sentimenti ambigui nei confronti dei padroni7, a Monsieur Swann, diviso tra la volontà di rispettare la privacy della sua amante Odette e il bisogno di placare la propria gelosia, fino allo stesso narratore, spesso sgomento dinanzi all’affioramento dei propri lati oscuri. Letta in quest’ottica, la Recherche appare come un osservatorio di exempla, da cui ricavare il beneficio di un arricchimento interiore.

Que…

Nell’ottobre del 1978, Roland Barthes avvia il suo ultimo corso al Collège de France8 con una lezione dal titolo Longtemps, je me suis couché de bonne heure, chiaro riferimento al celebre incipit della Ricerca del tempo perduto.
Nel testo della conferenza, Barthes afferma la volontà di inaugurare un’altra stagione della sua esistenza, una «vita nuova», che sempre, in chi scrive, si accompagna alla scoperta di una nuova pratica di scrittura9: lo studioso prende le distanze dal relativismo cognitivo che aveva dominato l’ultimo decennio di scienza letteraria (disciplina di cui Barthes era stato uno dei principali esponenti10) e che si esprimeva nel rifiuto di ravvisare in un testo letterario altro che un corpo linguistico11, preferendogli ormai un approccio alla letteratura più «intimo»12, basato sul riconoscimento, possibile solo in grandi romanzi come La Ricerca, di «momenti di verità»13 implicherebbe un riconoscimento del pathos, nel senso più semplice, non peggiorativo del termine, e la scienza letteraria, stranamente, mal sopporta il pathos come forza di lettura» (trad. mia).], ovvero illuminazioni «affettive»14 è la verità degli affetti, non delle idee».], storie che affinino le corde della sensibilità.
Esattamente trent’anni dopo, Antoine Compagnon dedica il corso annuale di letteratura francese del Collège de France alle Morales de Proust, ovvero a quelle verità etiche che La Ricerca, in quanto esempio di grande romanzo e per questo, secondo la visione di Compagnon, non privo di spessore morale, sarebbe in grado di suggerire ai lettori.
Per lo studioso belga, i romanzi racchiudono un tipo di saggezza affatto particolare, opposta e complementare rispetto a quella offerta dai testi di filosofia: «una riflessione morale che non è sistematica come in un trattato di morale, ma sempre particolare, esemplare, complicata, contestuale, nel senso che [nei romanzi] i problemi morali vengono sempre calati nel concreto»15; esisterebbe, dunque, «un’etica del racconto», da intendere in antitesi all’«etica del trattato». Per Compagnon tra i trattati di filosofia morale e i romanzi vigerebbe la stessa relazione che, nella Bibbia, oppone i comandamenti alle parabole: se i primi costituiscono i precetti morali, concepiti in una formulazione astratta e teorica, le seconde corrispondono agli aneddoti che ne forniscono l’illustrazione pratica.
Lo studioso riconosce come il suo interesse per la valenza morale dell’opera di Proust rispecchi le ultime tendenze della critica contemporanea, in generale più propensa a rivalutare la dimensione conoscitiva della letteratura, invece misconosciuta in Francia durante gli anni d’oro della teoria16. Strutturalisti e poststrutturalisti avevano osteggiato l’interpretazione in senso etico della letteratura – solitamente accettata, almeno fino alla metà del XX secolo -, la quale presupponeva l’assunzione a universali di valori morali che, nell’ottica dei teorici francesi, erano invece veicolati dall’ideologia dominante (nello specifico, quella borghese), quindi funzionali all’esclusivo beneficio di una determinata classe sociale17.
Il sospetto, insinuato dagli studiosi francesi, che non esistessero criteri di valore assoluti in base ai quali interpretare le opere, ma che tutti fossero relativi, cioè modellati secondo interessi contingenti, mirava a squalificare qualsiasi approccio extralinguistico ai testi letterari, tra cui l’idea di reperirvi principi morali obiettivi che aiutassero a vivere meglio18.
Questa, invece, era sempre stata la nozione di buona letteratura, fin dai tempi di Aristotele, il quale riconosceva nella catarsi il principale fine dell’arte letteraria, in particolare del genere tragico: «tragedia è imitazione di un’azione seria e compiuta – spiega il filosofo greco – che attraverso la pietà o la paura produce la purificazione di questi sentimenti»19; liberando i fruitori dalle passioni in eccesso, secondo il filosofo greco l’opera letteraria assicura il recupero di una certa padronanza di sé, di un equilibrio interiore che, secondo la visione degli antichi, costituisce l’essenza della saggezza. Nell’Usage des plaisirs, Foucault definisce questo tipo di morale, che non risponde direttamente a criteri stabiliti dalla società ma è prodotta dalla rielaborazione soggettiva di tali istanze, «sostanza etica» o «costituzione di sé come soggetto morale», per distinguerla sia dal «codice morale», ovvero l’insieme di valori proposti agli individui dalle istituzioni sociali (come la famiglia o la chiesa), che dalla «moralità»20, che determina il grado di rispondenza dei singoli al codice morale, la loro identità non tanto di soggetti, quanto di agenti morali. Allo stesso modo degli antichi, anche Compagnon, nelle grandi opere, ricerca nutrimento per la morale intesa come «sostanza etica», morale soggettiva, da non confondere con il rispetto formale di un determinato sistema di norme etiche: descrivendo la «moralità» dei personaggi e mostrando il modo in cui, spesso, essa non costituisca che un atteggiamento, scisso da un autentico sentimento morale, i grandi romanzi concorrerebbero allo smascheramento delle posture moralistiche riscontrabili nella società.
In questo modo, tali romanzi svolgono, presso i lettori, una funzione catalizzatrice del proprio “sé morale”; come dichiara Compagnon, in occasione dell’inaugurazione del corso Morales de Proust : «Abbiamo bisogno di etica e letteratura per combattere contro il moralismo e il fariseismo, e questo Proust ce lo suggerisce spesso».
Si è visto che, nella Ricerca, molti personaggi ostentano una condotta morale rigida e artefatta, che il narratore non accusa esplicitamente, ma pone sotto l’esame di uno sguardo ironico e straniante. Ad esempio, nel secondo volume dell’opera, All’ombra delle fanciulle in fiore, il giovane Marcel si sofferma sull’ambiguo comportamento dell’amica Andrée, in apparenza mossa dai più nobili sentimenti di carità verso coloro che la circondano:

“Ma, conoscendola un po’ meglio, si sarebbe detto che il suo caso fosse simile a quello degli eroici codardi che non vogliono aver paura, e il cui coraggio è particolarmente meritorio; si sarebbe detto che in fondo alla sua natura non ci fosse nulla della bontà che manifestava di continuo per distinzione morale, per sensibilità, per nobile volontà di mostrarsi una buona amica. Ad ascoltare le cose affascinanti che mi diceva circa un possibile affetto fra Albertine e me, c’era da attendersi che collaborasse con tutte le sue energie per concretizzarlo. Ora, forse per puro caso, di nessuno dei piccoli mezzi di cui disponeva e che avrebbero potuto unirmi ad Albertine, fece mai il minimo uso […].
Accordando all’esuberante frivolezza di Albertine un’indulgenza sempre tenera, Andrée le rivolgeva parole, sorrisi da amica, anzi: agiva da amica […] Ma se qualcuno insinuava che Albertine non era così povera come si diceva, una nube appena percettibile velava la fronte e gli occhi di Andrée. E se ci si spingeva a osservare che, dopo tutto, sposarsi sarebbe stato per Albertine meno difficile di quanto si pensasse, vi contraddiceva con impeto, ripetendo quasi rabbiosamente:
«E invece sì, purtroppo, non riuscirà a sposarsi! Lo so, e so anche come mi addolora!»”21.

La fanciulla risulta profondamente divisa tra la sua statura di agente morale, perfettamente in linea con il codice d’onore dell’amicizia, e la sua reale natura di soggetto morale, animata da ben altre pulsioni: ne emerge il ritratto dell’ipocrita, cioè di colui che simula atteggiamenti o sentimenti esemplari. Il narratore si trattiene dall’adoperare direttamente tale aggettivo; tuttavia, attraverso alcuni commenti ironici sul perbenismo di Andrée, atti ad insinuare dubbi sull’autenticità dei suoi slanci di bontà, ne suggerisce l’idea.
Secondo Compagnon, Proust eserciterebbe una velata ma continua polemica nei confronti di siffatti atteggiamenti moralistici; polemica che però non è condotta esplicitamente, secondo le modalità proprie di un pamphlet (o di generi di scrittura non romanzeschi), ma sempre, per così dire, al condizionale: in ambito romanzesco, l’ammaestramento alla vera saggezza risulterebbe dunque dalla problematizzazione ironica della morale convenzionale. Come i teorici degli anni Sessanta-Settanta, anche Compagnon evidenzia, a proposito del romanzo, una relatività della morale: tuttavia, mentre i primi, con tale espressione, alludevano alla presunta assoggettazione dei valori morali ad un’ideologia dominante, Compagnon si riferisce a quel particolare esercizio di relativizzazione critica della morale precostituita, che l’arte del romanzo opera per mezzo del tono ipotetico e ironico che la caratterizza, e che conduce i lettori alla scoperta del loro vero credo morale.
Anche nei Saggi di Montaigne, alla cui capacità edificante Compagnon accosta spesso la Ricerca di Proust, la saggezza è presentata come valore che scaturisce dalla presa di coscienza della relatività di ogni giudizio o morale precostituita. Nell’incipit del saggio Del Pentirsi, Montaigne spiega che:

“Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e per il movimento generale e per il loro proprio. La stessa costanza non è altro che un movimento più debole. Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una naturale ebbrezza. Io lo prendo in questo punto, com’è, nel’istante in cui mi interesso a lui. Non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio: non un passaggio da una età all’altra […] ma di giorno in giorno, di minuto in minuto […]. Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei; essa è sempre in tirocinio e in prova22“.

Al mondo, non esiste nulla di fisso e stabile: gli oggetti del nostro interesse, come i nostri stessi parametri di giudizio, sono sottoposti ad un continuo mutamento; di conseguenza, non è possibile emettere sentenze definitive su ciò che ci circonda.
Il particolare apprendimento cui attende Montaigne, interrogandosi sugli svariati argomenti al centro dei suoi saggi, non è mai formulato in modo sistematico: ogni questione viene soltanto «saggiata», cioè esaminata da molteplici prospettive; il tipo di conoscenza cui Montaigne così perviene è dunque sempre suscettibile di ulteriori rielaborazioni e presentato come soggettivo ed ipotetico.
Lo smantellamento della visione univoca della realtà è, ad esempio, alla base del capitolo XIV del libro I, Come il sapore dei beni e dei mali dipenda in buona parte dall’opinione che ne abbiamo. Montaigne vi riporta una serie di testimonianze, ricavate dalla letteratura classica, per dimostrare che non esiste nulla al mondo di cui si possa ottenere una cognizione obiettiva, universalmente valida: perfino l’intensità del dolore fisico dipende dal valore che gli attribuiamo.
Come nel caso della Ricerca di Proust, anche il tipo di saggezza veicolato da Montaigne attraverso i suoi saggi risulta dal continuo vaglio critico del sapere comune e della morale convenzionale, condotto a partire dall’analisi di determinati aneddoti esemplari.
Ma se la lettura di un’opera quale i Saggi di Montaigne e quella di un romanzo come la Ricerca di Proust consegue lo stesso tipo di arricchimento intellettuale; se è vero che il valore morale di un romanzo, esattamente come quello espresso da un saggio, consiste nello smascheramento dei luoghi comuni, al fine di indirizzare i lettori verso la conquista di un vero senso etico, inteso come sviluppo della ragione critica personale e accrescimento del sentimento morale; in tal caso, risulta arduo discernere la funzione e lo statuto propri del romanzo da quelli tipici di un saggio, comprendere quale particolare forma di conoscenza può essere emanata da un romanzo e quale invece da un saggio. La differenza consisterebbe soltanto nel fatto che, nei romanzi, i casi morali rappresentati risultano maggiormente “narrativizzati”, cioè in essi l’istanza finzionale appare privilegiata rispetto a quella argomentativa?
Oppure, il romanzo custodisce una forma di saggezza specifica, consustanziale alle sue finalità artistiche, che nessun altro genere di scrittura, né alcun’altra arte, è in grado di offrire?

…sais-

Riconoscere la differenza tra la particolare forma di saggezza dispensata dai romanzi e quella ricavabile dalla lettura dei saggi risulta tanto più difficile, in considerazione della natura che accomuna alle radici queste due arti. Nate entrambe nella seconda metà del XVI secolo23, sembrano sorgere come reazione al senso di vuoto esistenziale creatosi all’avvento dei tempi moderni, periodo in cui l’invasione delle discipline specializzate, riducendo il mondo ad un organismo da vivisezionare, rischia di sottoporre anche la sfera dell’essere al medesimo processo di disgregazione. L’interesse per l’esistenza umana, la sua rivalutazione rispetto alle forze esterne della tecnica, della politica, della Storia, costituisce invece la raison d’être sia del romanzo che del saggio; infatti, se il primo può essere inteso come una «meditazione poetica sull’esistenza»24 organizzata in prosa, la definizione del saggio risiede nella stessa etimologia del termine: «l’uomo saggistico»25 è, per l’appunto, l’uomo che saggia, cioè sperimenta, conduce esperienze, esercizio nel quale si esprime l’essenza dell’anima umana.
A tale proposito, il romanziere e saggista Marek Bienczyk osserva che «basta sostituire il termine ‘saggio’ con ‘umano’ per ottenere una particolare definizione della condizione umana […]; l’uomo saggistico rimanda non soltanto all’arte di scrivere, ma anche a quella di vivere»26. Allo stesso modo dei romanzi, i veri esempi di arte del saggio, nati in seno ad una tradizione il cui capostipite può essere riconosciuto in Montaigne – e da non confondere con i reportages, o i testi di mera divulgazione scientifica, i quali, non presentando alcun elemento di originalità formale, non contribuiscono in nessun modo all’evoluzione estetica del genere, e sconfinano quindi dall’ambito artistico -, si configurano come forme di esplorazione dell’esistenza, non però organizzate attorno all’analisi di determinati personaggi, bensì di determinati argomenti prescelti.
I numerosi punti di conformità individuabili tra le due arti hanno suscitato le riflessioni di saggisti e romanzieri, alcune delle quali sono poi confluite nel n. 50 della rivista letteraria «L’ Atelier du Roman», intitolato alle Affinità elettive esistenti tra romanzo e saggio.

Secondo i redattori dell’« Atelier », a mettere in relazione le due arti non è un semplice rapporto di analogia, ma di vera e propria attrazione, del tipo che, in chimica, prende appunto il nome di “affinità elettiva”, espressione con cui si allude alla proprietà, presente in determinati corpi, di assimilarsi reciprocamente, una volta posti a contatto.

Oltre ai numerosi elementi di somiglianza – per François Ricard, ad esempio, comuni a romanzo e saggio sono un approccio al mondo non dogmatico e l’esercizio di una prosa non specialistica, cioè libera da un certo gergo di tipo accademico, o dalle stratificazioni retoriche della poesia27 –, sembra che ad unire le due arti sia un’affinità ontologica, un accordo che ne coinvolge l’essenza: non è infrequente ritrovare le strutture narrative proprie del romanzo insieme all’espressione di una soggettività che “saggia” una determinata questione, accolte entro un’unica opera. Roland Barthes chiama «terza forma»28 la composizione letteraria che, nata dall’assemblaggio di elementi romanzeschi e saggistici, sembra non potersi collocare chiaramente nell’una o l’altra delle categorie; secondo Barthes, rappresentativa di questa terza forma è la Ricerca che, inizialmente concepita come risposta alle teorie del critico Sainte-Beuve, si evolve poi dallo stato meramente saggistico, senza però attestarsi completamente nella forma del romanzo.
Nel Sipario, Milan Kundera definisce «romanzi che pensano» quelli in cui l’istanza saggistica – ovvero gli interventi meditativi dell’autore – appare talmente sviluppata da diventare «parte integrante della composizione»29 e cita I Sonnambuli (1931) di Hermann Broch e L’Uomo senza qualità (1943) di Robert Musil come migliori esempi del genere.
Kundera precisa che questi romanzi, lungi dal rappresentare una sconfitta dell’immaginazione dinanzi all’extrema ratio, costituiscono «una delle innovazioni più audaci che un romanziere abbia osato nell’epoca dell’arte moderna», in quanto, acquisendo entro il loro statuto fittizio una linea pseudofilosofica, si arricchiscono di uno strumento ulteriore, mediante cui sondare i temi esistenziali al centro dell’opera.
Allo stesso modo in cui il romanzo trae beneficio dall’apporto della componente saggistica, anche quest’ultima, una volta immersa nel contesto romanzesco, appare come vivificata. A tal proposito, osserva giustamente François Ricard che paradossalmente, al giorno d’oggi, «la scrittura specificatamente saggistica può esistere solo nell’orbita o sotto la protezione del romanzo»30: solo l’universo costitutivamente non dogmatico del romanzo garantisce un’assoluta libertà di pensiero.
Inoltre, se è vero che i romanzi, sempre più spesso, inglobano un’attitudine saggistica al mondo, così anche i saggi sussumono logiche prettamente narrative: «Je n’enseigne pas, je raconte», io non insegno, racconto31, spiega Montaigne. Proprio nella rilevanza che assume questo «io», nell’espressione di questa soggettività, così orgogliosamente esibita dal padre dell’arte del saggio, si scorge un primo elemento di differenza tra questa e il romanzo.
Montaigne avverte fin dal prologo: «lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c’è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano»32. E nel già citato saggio Del pentirsi, aggiunge: «Altrove si può considerare e accusare l’opera separatamente dall’artefice; qui no: chi tocca l’uno, tocca l’altra»33.
A questo riguardo, François Ricard osserva34 che, nonostante i numerosi punti in comune rilevabili tra il romanziere e il saggista, per il rilievo accordato all’espressione dell’io dell’autore, quest’ultimo risulta più simile al poeta.
Infatti, mentre sarebbe sbagliato valutare un saggio «separatamente dall’artefice», nel caso del romanzo vale esattamente il contrario: a quanti credevano che, per conseguire una corretta interpretazione fosse necessario considerare la biografia dell’autore, nel Contro Sainte-Beuve (1954) Proust rispondeva che, in realtà, l’io che presiede la composizione di un romanzo non è quello cosciente, l’io che si manifesta nella vita quotidiana e che gli altri osservano vivere, ma un io più profondo, un moi de profondeur, i cui moti sfuggono talvolta all’io cosciente.
Per individuare la differenza tra le due forme di saggezza offerte dal saggio e dal romanzo, può essere utile misurare la distanza che separa l’io del saggista da quello più discreto e quasi invisibile del romanziere.

-je…?

Quasi un secolo dopo Alla Ricerca del tempo perduto, un altro romanzo, il primo scritto in francese dal romanziere ceco Milan Kundera, assume come oggetto d’indagine il rapporto tra morale e società: La Lentezza (1995)35 è organizzato attorno al confronto tra la genuinità della morale edonista – intesa nella sua accezione originaria, come rispetto e apprezzamento dei piccoli piaceri della vita –, di cui erano info rmati i rapporti umani ancora al tempo dei Lumi, e l’artificiosità che caratterizza invece la condotta più tipica dell’epoca contemporanea, l’epoca della società di massa, i cui atteggiamenti sono quasi sempre regolati in funzione del’ammirazione altrui, che si tratti di quella riscossa da un vasto e anonimo pubblico di telespettatori o di quella suscitata presso il più esiguo gruppo degli amici della porta accanto.

L’intellettuale Jacques-Alain Berck, ad esempio, abile nel cavalcare l’onda dei mass-media, risulta un campione nell’arte dello «judo morale»36, secondo la definizione che il giovane Vincent e i suoi amici del Café Gascon offrono dei tentativi (spesso molto fantasiosi e dispendiosi, in termini di denaro ed energia) che Berck compie per sembrare sempre il più sensibile nei confronti dei disagiati, il più attento alle problematiche sociali, e in ogni caso per restare sempre al centro della scena.
Ad esempio, invitato ad un convegno di entomologi, a cui si trova a partecipare anche uno scienziato ceco in esilio, Berck non perde occasione per annunciare subito la volontà di istituire un’Associazione entomologica franco-ceca, che testimoni la solidarietà accordata dalla Francia agli scienziati esuli, e conclude il discorso ribadendo il diritto dell’uomo a ribellarsi a qualunque forma di oppressione e, in caso di mancata oppressione, a ribellarsi «alla condizione umana che non abbiamo scelto noi»37.
Questa frase, che suscita subito la commozione generale e, per la sua efficacia, mette lo stesso Berck «su di giri»38, si presenta come un vero colpo da maestro nell’arte dello ‘judo morale’. A distanza di qualche pagina, le stesse parole che inorgogliscono Berck ritornano, come una sorta di leit-motiv, ma attribuite stavolta al giovane Vincent: questi, in preda ad un conflitto di coscienza, cerca di chiarire a se stesso in cosa si distingua il suo comportamento da quello dei «ballerini»39 di lui? E ricorre a tutte le mosse che gli consentono di mettere l’altro in una situazione di inferiorità morale». Ivi, p. 26.] della società contemporanea, i moralisti come Berck. Allorché crede di rintracciare la soluzione nel fatto che lui, diversamente da Berck e gli altri, si disinteressa del plauso generale e ha il coraggio di andare contro “il sistema”, affrettandosi a dar prova del suo anticonformismo a Julie, bella ragazza conosciuta poco prima, così le sussurra: «La sola cosa che ci resta è ribell arci alla condizione umana che non abbiamo scelto noi!»40.

Per dimostrare di essere diverso dalla massa dei «ballerini», a Vincent viene in mente proprio la stessa espressione che, a sua insaputa, pochi istanti prima aveva decretato il successo del loro leader, Berck.
L’orchestrazione di tale paradosso non ha solo lo scopo di produrre un semplice effetto umoristico, nonostante per Kundera l’humour, inteso come «lampo divino che rivela tutta l’ambiguità morale del mondo […] che nasce dal conoscere la relatività delle umane cose»41 sia un valore connaturato all’arte del romanzo: ponendo la stessa frase in relazione a contesti e personaggi differenti, Kundera trova il modo di ricavare prospettive diverse da cui esaminare il problema del moralismo.
Attraverso l’applicazione di una struttura formale basata sul principio dell’ironia42, risultante dal contrasto “umoristico” che si realizza confrontando personaggi dissimili alle prese con la medesima problematica, Kundera presenta l’atteggiamento moralista non come colpa specifica di un determinato insieme di individui (ampio o ristretto che sia) che il romanziere si incarica di smascherare più o meno allusivamente in quanto comportamento sbagliato che sarebbe possibile evitare, ma lo presenta nella sua valenza esistenziale, come una “possibilità” dell’uomo da sottoporre ad esame, una tentazione intrinseca alla condizione umana e a cui è impossibile non cedere, almeno occasionalmente. In questo modo, il problema del moralismo viene tematizzato, cioè trasformato in una delle questioni esistenziali poste al centro della meditazione poetica sviluppata dal romanzo43.
Compito del romanziere, infatti, non è smascherare, ma piuttosto riflettere intorno a determinate problematiche esistenziali: non tanto dimostrarela preminenza di un’ideologia o l’inopportunità di determinati comportamenti, quanto semplicemente mostrare la varietà dei punti di vista che è possibile assumere di una medesima questione.
A questo proposito, nella raccolta di saggi I Testamenti traditi (1993), Kundera sottolinea come, rispetto alla missione conoscitiva del romanzo, l’eterna propensione degli uomini a condannare, a giudicare, sia «la più esecrabile sciocchezza, il peggiore di tutti i mali»44: perché il romanzo possa svolgere il suo obiettivo principale, ovvero la ricognizione della «sostanziale relatività delle cose umane»45, la cui nozione ravvivi nel lettore la coscienza della complessità della sua natura di individuo, è necessario che le scale di valori, i parametri di valutazione normalmente ritenuti attendibili, vi siano banditi.

Definendolo «territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale»46, Kundera non intende suggerire che il romanzo istighi all’immoralità, o all’amoralità; ma cheil censimento di cosa sia morale e cosa no non può avvenire che al di fuori dell’universo romanzesco: solo trattenendosi dall’esprimere il proprio giudizio, il romanziere può creare una serie di «io sperimentali»47, ciascuno fondato «sulla propria morale, sulle proprie leggi»48, e così mettere in atto quel «carnevale della relatività»49 che è un romanzo.
In questa caratteristica risiede la principale differenza tra saggio e romanzo, che permette di identificare le forme di saggezza emanate dalle due arti: il primo, nonostante spesso tragga materiale per il suo discorso dall’esame di una quantità di casi umani, si configura in genere come strumento di espressione di un unico io, coincidente con la persona dell’autore, il cui punto di vista predomina su tutti quelli presentati; in un romanzo, invece, l’io del romanziere non si esprime se non come partecipe dei «rapporti ironici»50 che costituiscono l’ossatura dell’opera: il suo punto di vista non riscuote maggior credito di quello degli altri personaggi, a confronto dei quali appare relativizzato. Dunque, mentre un saggio, pur nel rispetto di un approccio non dogmatico all’oggetto che pone al centro dell’indagine, nasce comunque come presentazione di una particolare idea, o di un determinato orientamento di pensiero, corrispondente alla prospettiva dell’autore, il romanzo invece, per definizione, non serve a comprovare nessun’idea, meno fra tutte quelle del proprio autore.
Atale proposito, Kundera tiene a precisare:

“Ora, il romanziere non è il portavoce di nessuno, anzi, mi spingerò fino a dire che non è nemmeno il portavoce delle proprie idee. Quando Tolstoj delineò la prima versione di Anna Karenina, Anna era una donna assai antipatica e la sua tragica fine era pienamente giustificata e meritata. La versione definitiva del romanzo è ben diversa, ma io non credo che nel frattempo Tolstoj avesse cambiato le sue idee morali: direi piuttosto che, durante la stesura del romanzo, egli ascoltò una voce che non era quella delle sue convinzioni morali personali. Ascoltava quella che mi piacerebbe chiamare la saggezza del romanzo51“.

Si è dimostrato come i saggi invitino a sviluppare una visione plurivoca dei problemi, nell’ottica che non sia mai possibile rintracciarne soluzioni esaustive; questa forma di conoscenza viene trasmessa in quanto idea, orientamento di pensiero che appartiene all’autore, e fa parte del contenuto del saggio.
Anche «la saggezza del romanzo», ovvero il tipo di saggezza veicolato dal romanzo, coincide prettamente con l’invito a sviluppare una coscienza della relatività del tutto, la cui acquisizione trasforma l’uomo in individuo52; questo messaggio, però, non si evince tanto da quello che il romanzo esprime direttamente, quanto dall’osservazione della forma, dal rilevamento dei rapporti ironici in base a cui è concepita la struttura compositiva53.
Come sostiene Compagnon, i romanzi si distinguono dai trattati di filosofia in quanto rappresentano nel concreto il mondo della vita umana, materia su cui può esercitarsi la riflessione dell’autore, consistente, ad esempio, nell’invito ad esaminare criticamente gli eventuali casi morali considerati; tuttavia, la saggezza specifica del romanzo, ovvero quella che può emanare solo da tale arte, e da nessun’altra forma artistica o intellettuale, è quella che risulta dalla constatazione del continuo confronto tra le diverse prospettive orientate su uno stesso tema: è la percezione di suddetta costruzione formale, più che le eventuali considerazioni esplicite dell’autore (la cui opinione, in ambito romanzesco, non può sovrastare quella degli altri personaggi), a generare nel lettore la consapevolezza che non esista al mondo alcuna verità assoluta, nessun problema a cui sia possibile offrire una risposta univoca.
La necessità di un’organizzazione formale basata sul contrasto tra punti di vista diversi non appartiene solo alla logica dell’opera kunderiana, ma può essere considerata intrinseca all’arte del romanzo.
Anche nella Ricerca del tempo perduto, ad esempio, due episodi sembrano richiamarsi l’un l’altro, come a costituire le due linee di un disegno contrappuntistico: nel volume All’Ombra delle fanciulle in fiore, il giovane Bloch, in vacanza nella stessa località del narratore, al fine di attirare l’attenzione su di sé, semina discordia tra quest’ultimo e il marchese di Saint-Loup, cercando di istigarli l’uno contro l’altro: tale atteggiamento non stupisce il narratore, abituato alle maldicenze di Bloch54. Tempo dopo, però, è Saint-Loup, di solito maestro di cortesia e sensibilità, ad esclamare, rivolto al narratore: «Sai, ho messo in chiaro con Bloch […] che tu non sei poi così entusiasta di lui, che gli trovi dei lati volgari. Che vuoi? Sono fatto così, mi piacciono le situazioni nette»55. Il narratore è tristemente sorpreso di questo tradimento, e si trova così a dover riconsiderare la sua visione dell’amicizia.
In ogni caso, se in opere come quelle di Milan Kundera gli elementi che determinano la struttura ironica corrispondono soprattutto all’ottica di differenti personaggi, alle prese con uno stesso tema esistenziale, nel caso della Ricerca, questi sembrano coincidere piuttosto con le diverse interpretazioni, successive nel tempo, che uno stesso personaggio (in genere il narratore) assume di episodi svoltisi nel passato.
A tale proposito, ricordiamo un altro episodio, tratto ancora dalle Fanciulle in fiore. Albertine, scopertasi infatuata del narratore, lo invita a farle visita presso una camera del Grand-Hotel, dove si troverà a trascorrere una notte; accettato l’invito, e al massimo dell’esaltazione, una volta raggiunta la fanciulla, il narratore tenta di baciarla: con suo sommo sconcerto, però, Albertine lo respinge con forza, suonando addirittura il campanello perché i camerieri sopraggiungano a soccorrerla. Questo episodio, misterioso agli occhi del narratore, scatenerà la sua indole investigativa: cosa potrà aver provocato la brusca reazione di Albertine? La paura? Una perfetta osservanza della morale borghese?
Nessuna delle risposte che il narratore si darà, diverse a seconda di mesi, degli anni, e che continuerà ad elaborare durante il periodo della relazione con Albertine, nonché dopo il suo termine, gli schiuderanno il mistero della reale natura della giovane; tutte si riveleranno verosimili, costituendo delle valide prospettive da cui considerare Albertine, ma nessuna permetterà una comprensione univoca dell’essere amato.
Resteranno al narratore (come al lettore) una serie di ombre cinesi, di verità che si contraddicono: la certezza di non sapere, o meglio, la saggezza dell’incertezza.

  1. La famiglia Guermantes costituisce uno dei poli attorno a cui si snoda la vicenda di Alla Ricerca del tempo perduto (1913-1927) di Marcel Proust.  
  2. M. Proust, <em>Alla Ricerca del tempo perduto – La parte di Guermantes</em> (1920), trad. it. di G. Raboni, A. Mondadori, Milano 1995, p. 272.  
  3. Ivi, p. 273.  
  4. Ibid  
  5. Ivi, p. 614.  
  6. Ivi, p. 715.  
  7. Cfr. La parte di Guermantes, cit., p. 75: «Quando Françoise, la sera, era gentile con me, quando mi chiedeva il permesso di sedersi in camera mia, mi sembrava che il suo viso diventasse trasparente, e di scorgere in lei bontà e schiettezza. Ma Julien, nel quale esistevano zone di indiscrezione che conobbi solo in un secondo tempo, rivelò in seguito come Françoise andasse dicendo ch’io non volevo che la corda per impiccarmi, e che avevo cercato di farle tutto il male possibile».  
  8. Si tratta della Preparation du roman (I e II), seminario svoltosi durante gli anni accademici 1978/1979 e 1979/1980.  
  9. R. Barthes, Longtemps, je me suis couché de bonne heure, in: Id., Oeuvres complètes, Vol. V: Livres, textes, entretiens 1977- 1980, a cura di E. Marty, Editions du Seuils 2000, p. 467 (trad. mia).  
  10. L’opera di Roland Barthes Critique et verité, Ed du Seuil, Paris 1966 (trad. it. Critica e verità, Einaudi, Torino 1995) può essere considerata una sorta di manifesto della scienza della letteratura; cfr. soprattutto le pp. 56-63.  
  11. Cfr. ivi, p. 61: «L’autore, l’opera non sono che il punto di partenza di un’analisi il cui orizzonte è il linguaggio».  
  12. Cfr. Longtemps, je me suis couché de bonne heure, cit., p. 465: «E’ l’intimo che vuol far sentir il suo grido, contro le generalizzazioni, la scienza» (trad. mia).  
  13. Ivi, p. 468. Barthes spiega che «il ‘momento di verità’ […  
  14. Cfr. ivi, p. 469: «la sua istanza [del romanzo  
  15. Questa e le successive citazioni delle lezioni di Compagnon al Collège de France sono ricavate dall’audioregistrazione del corso Morales de Proust, svoltosi durante l’anno accademico 2007/2008, rintracciabili sul sito del Collège de France: www.college-de-france.fr (trad. mia).  
  16. Che le ultime tendenze degli studi letterari mostrino un netto allontanamento dalle teorie strutturaliste e decostruzioniste e procedano invece verso il recupero di metodologie analitiche atte a valorizzare la specificità dell’immaginazione letteraria, a prescindere da altre implicazioni di tipo politico o più generalmente culturale, sembra testimoniato dal sorgere, negli Stati Uniti, di Associazioni come la ALSC (Associations of Literary Scholars and Critics), interessata allo studio della «letteratura per la letteratura», e dalla publicazione di volumi come Theory’s Empire. An Anthology of Dissent, a cura di D. Patai e W.C. Corral, antologia che raccoglie alcuni interventi critici contro l’egemonia assunta nel panorama degli studi letterari da strutturalismo e decostruzionismo.Di entrambe le esperienze Remo Ceserani offre una buona analisi ne Lo stato della teoria, pubblicato sul « Manifesto » il 10 e 11 settembre 2005, ora disponibile sul sito dell’associazione Compalit (Associazione degli studiosi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura): www.compalit.net http://www.compalit.net target=”_blank”>www.compalit.net.  
  17. In Critica e verità, cit., scritto in risposta alle accuse che Raymond Picard aveva rivolto alla Nouvelle Critique (in Nouvelle critique ou nouvelle imposture, 1965), Roland Barthes mette in discussione i criteri di valore su cui la critica tradizionale basava la propria valutazione delle opere, ritenendoli appunto arbitrari e asserviti alla classe ideologica dominante. Cfr. pp. 18 e 19 (ed. francese, cit.)  
  18. A sostenere l’approccio etico alla letteratura, prima degli attacchi ad essa inferti dalla Nouvelle Critique, sono studiosi come Franck R. Leavis o Raymond Williams, che a partire dagli anni Trenta ritengono «il valore della letteratura legato alla vita, alla forza, all’intensità dell’esperienza di cui essa è testimone, alla sua capacità di rendere l’uomo migliore». Cfr. A. Compagnon, Il Demone della teoria. Letteratura e senso comune (1998), trad. it. di M. Guerra, Einaudi, Torino 2000, p. 250.  
  19. Aristotele, Poetica, par. vi, a cura di G. Paduano, Editori Laterza, Roma-Bari 1998, p. 13.  
  20. Le citazioni di Foucault – tradotte da me – sono tratte da: Histoire de la sexualité. L’Usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984.  
  21. M. Proust, Alla Ricerca del tempo perduto – All’Ombra delle fanciulle in fiore (1919), trad. it. di G. Raboni, A. Mondadori, Milano 1995, p. 599. Corsivi miei.  
  22. M. Montaigne, Saggi (1580-1588), libro iii, cap. ii, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1966, p. 1067.  
  23. In un intervento dedicato alle affinità tra romanzo e saggio, Lakis Proguidis riconosce in Gargantua e Panta gruel (1532) e nei Saggi di Montaigne le opere inauguratrici rispettivamente del romanzo e del saggio. Cfr. L. Proguidis, in L’homme qui lit, « Atelier du Roman», 2007, 50, pp. 48-54.  
  24. Questa nozione di romanzo è tratta da M. Kundera, L’Arte del romanzo (1986), trad. it. di E.Marchi e A. Ravano, Adelphi, Milano 1988, p. 58.  
  25. L’espressione «uomo saggistico» è una citazione di Marek Bienczyk, desunta da Forme et empathie, in «L’ Atelier du roman», cit., p. 73.  
  26. Ibid. Trad. mia.  
  27. Cfr. F. Ricard, La Solitude de l’essayiste, in «L’ Atelier du roman», cit., p. 82.  
  28. Cfr. Longtemps, je me suis couché de bonne heure, cit., p. 461.  
  29. M. Kundera, Il Sipario (2004), trad. it. di M. Rizzante, Adelphi, Milano 2005, p. 82.  
  30. Cfr. La Solitude de l’essayiste, cit., p. 84.  
  31. Cfr. Montaigne, Saggi, cit., p. 1069.  
  32. Ivi, Cfr. Prologo  
  33. Ivi, p. 1069  
  34. Cfr. La Solitude de l’essayiste, cit., p. 80.  
  35. Tradotto dal francese in italiano da E. Marchi per Adelphi, Milano 1995  
  36. Ivi, p. 26.  
  37. Ivi, p. 83.  
  38. Ivi, p. 84.  
  39. Nella prima parte del romanzo, il prof. di Storia Medievale Pontevin, che Vincent considera suo maestro, illustra agli amici la sua teoria dei «ballerini». Chiamasi “ballerino”, secondo Pontevin, colui che vuole a tutti i costi «occupare la scena, perché il suo io possa rifulgere. Per occupare la scena bisogna cacciarne via altri. Il che implica una speciale tecnica di lotta. La lotta ingaggiata dal ballerino viene da Pontevin definita judo morale. Il ballerino lancia la sua sfida all’universo mondo: chi mai sarà capace di mostrarsi più morale […  
  40. Ivi, p. 40.  
  41. M. Kundera, I Testamenti traditi (1993), trad. it. di M. Daverio, Adelphi, Milano 1994, p. 39.  
  42. Per Kvetoslav Chvatik, «l’aspetto ludico della narrazione di Kundera» risulta dal «frequente cambiamento di strategia e di prospettiva narrativa». Cfr. K. Chvatik, Il Mondo romanzesco di Milan Kundera, trad. it. di S. Zangrando, Università degli studi di Trento, 2004, p. 23. Nei Testamenti traditi (cit., p. 195), Kundera precisa inoltre che la struttura ironica di un romanzo si manifesta, in genere, attraverso il contesto: ogni gesto, affermazione, situazione «è inserita in una serie di confronti complessi e contradditori con altre affermazioni, altre situazioni, altri gesti, altre idee, altri eventi. Solo una lettura lenta, ripetuta due o più volte, metterà in luce all’interno del romanzo tutti i rapporti ironici senza i quali il romanzo non verrà capito».  
  43. Ricordiamo che, nella concezione di Milan Kundera, per “tema” si intende un interrogativo esistenziale che è compito del romanziere sviscerare. Cfr. L’Arte del romanzo, cit.  
  44. Cfr. I Testamenti traditi, cit., p. 17.  
  45. M. Kundera, L’Arte del romanzo, cit., p. 21.  
  46. Id., I Testamenti traditi, cit., p.17.  
  47. Cfr. la definizione che M. Kundera offre dei personaggi romanzeschi ne L’Arte del romanzo, cit., p. 56.  
  48. Id., I Testamenti traditi, cit., p.17.  
  49. Ivi, p. 34.  
  50. Cfr. nota 42.  
  51. M. Kundera, L’Arte del romanzo, cit., p. 128.  
  52. Cfr. Ivi, p. 220: «L’uomo diventa individuo quando perde la certezza della verità e il consenso unanime degli altri. Il romanzo è il paradiso immaginario degli individui».  
  53. La possibilità di distinguere lo statuto del saggio da quello del romanzo in base al fatto che il primo esprimerebbe attraverso il contenuto le conquiste intellettuali a cui perviene, mentre il romanzo attraverso la costruzione formale, sembra avvalorata da Roland Barthes. In Longtemps, je me suis couché de bonne heure, cit., questi definisce il saggio come la forma letteraria che svolge la funzione di «interpretare» e il romanzo quella di «collegare»; secondo le parole di Roland Barthes, davanti ad una stessa questione, il saggista si chiede: «Che cos’è? Cosa vuol dire?», mentre il romanziere «Da cosa potrebbe essere seguito quello che sto enunciando? Cosa potrebbe far scaturire l’episodio che sto raccontando?». Cfr. p. 460 (trad. mia).  
  54. Cfr. All’Ombra delle fanciulle in fiore, cit., p. 388.  
  55. M. Proust, La parte di Guermantes, cit., p. 481.