Il tempo delle Apples. Se sognare (non) è un privilegio d’élite

di in: Inattualità

A poche ore dalla scomparsa di Steve Jobs, fondatore dall’azienda informatica Apple, i navigatori del web – come sempre, i più rapidi testimoni dell’opinione pubblica – si distinguono tra commossi e indifferenti; tra coloro che rimpiangono, nella morte del celebre informatico, la scomparsa di un exemplum positivo, quello dell’uomo nuovo giunto a realizzarsi nonostante le avversità, e quelli che biasimano il suo personaggio per aver impiegato una brillante intelligenza al servizio di una tecnologia “per ricchi”.

Ad esempio, ci si può chiedere se l’invito rivolto da Jobs, durante il discorso del 2005 ai laureati dell’università di Stanford, a scoprire e a cercare di fare, nella vita, quello che davvero si ama, a vivere le proprie passioni e non, invece, “la vita di un altro”, possa essere inteso come un monito filosofico realmente valido per tutti o non, piuttosto, solo per una stretta cerchia elitaria, come quella a cui devono appartenere gli studenti di università costosissime come quella di Stanford, che possono ben sperare in un accesso facilitato al mondo del lavoro.

Ma in moltissimi altri casi – purtroppo la maggioranza, se pensiamo al quadro della società italiana attuale – di giovani (e meno giovani) uomini e donne, magari supertitolati, i quali si vedono costretti a mettere da parte le competenze maturate a seguito di anni e anni di studio, per accettare di svolgere un mestiere che con esse non ha niente a che vedere, ma è purtroppo l’unico disponibile, l’unico che offra da mangiare (e neppure tanto), l’invito a seguire la propria stella in quale modo può essere colto? Quando il bisogno di fronteggiare le esigenze della vita materiale sembra allontanare dal percorso che si era scelto di chiamare destino, è ancora possibile pensare di tenere fede ad un sogno?

«La caratteristica dell’uomo forte è di marchiare qualsiasi cosa con la propria impronta – scrive il filosofo Alain nel discorso “Sul destino” (1923) – E questa forza è molto più comune di quanto non si creda. Tutto diviene abito per l’uomo, e le pieghe si adattano alla silhouette e al gesto». L’invito a non deviare dal proprio percorso specifico, dalla forma che si era scelto di “indossare”, può comunque non essere disatteso – e, questo, a prescindere dalle circostanze in cui ci si trova -, nella misura in cui questo impegno etico a non scendere a patti con la mediocrità riguarda ogni aspetto della vita, ciascun gesto; e può allora trasformarsi in uno stile di vita, indipendentemente dal traguardo che sarà o meno raggiunto.

Perché, in ogni caso, un piano B non esiste mai. Non si può fare bene nulla, non si può riuscire in nulla se non in quello che effettivamente si ama, cioè nelle attività in cui diviene possibile scorgere un senso, inteso come il significato che esse assumono nella logica della nostra esistenza. Quando lo si scopre, l’emozione che ne deriva è simile alla gioia di un riconoscimento, il piacere di riconoscere se stessi in quello che si fa.