Giù a far benzina

di in: Bazar

Io non so descrivere la tristezza ma una volta ho pianto mentre facevo benzina. Erano circa le sette di sera di un giorno di fine aprile. Il cielo quasi completamente oscurato; stava per piovere e tirava un vento per niente amico. Ho iniziato a piangere quando avevo messo sì e no cinque litri di gasolio. Mi sono guardato intorno e ho pianto. Ma proprio a singhiozzi forti. Una roba. Vediamo se ricordo bene: attorno a me c’era, e c’è ancora, ci passo tutti i giorni, una siepe spelacchiata con a terra più lattine ammaccate e mozziconi di sigarette che fili d’erba. La siepe separa la pompa di benzina dalla strada. Di là della carreggiata una casa che pare abbandonata, ma poi ho visto muoversi un paio di gatti tra una montagna di mattoni e coppi accatastati alla meglio. Poco più in là un vecchio seduto su una sedia di plastica, piegato per metà sopra un bastone. La casa alle sue spalle è un rudere. Il piazzale invaso da ferri. Il cancello che separa la proprietà dalla strada è giallo ruggine. Questa casa è attaccata al parcheggio deserto di un hotel due stelle con le imposte serrate, grigio, piccolo, vuoto. Sul lato di strada dove mi sono fermato a fare rifornimento c’è l’orologio elettronico di una banca. Lampeggia le 19.02. Guardando tutto questo mi è venuto da piangere. La visuale dalla pompa di benzina è la stessa che ho avuto altre cento volte e che avrò ancora domani, quando dovrò tornare a far benzina, ma solo quella volta mi è venuto da piangere. Prima gli occhi mi si sono riempiti di quelle immagini e poi di lacrime.

E io ho finito di fare benzina ma non di singhiozzare. Con i pensieri sono ancora lì: mi sbrigo a rimettere il tappo al serbatoio prima che il tizio con una pancia enorme sceso da una Punto senza più il fascione posteriore si accorga dei miei occhi rossi. Metto in moto e lo cerco nello specchietto. Impreca, pare, perché la macchina non gli mangia un foglio da dieci euro. Lo guardo frugarsi in tasca, poi decido di lasciarlo a sé e arrivo fino allo Stop. Controllo da entrambi i lati e non vedo nessuno. Nel senso che non c’è anima viva in strada, nemmeno sui marciapiedi. Mi volto d’istinto e vedo il vecchio che è riuscito a far benzina. Lancio ancora uno sguardo alla strada: nessuno. Rientro in corsia ed evito di passare sopra la carcassa di un gatto. È fradicio della pioggia di stamani o di quel che gli resta addosso della paura.
E poi è finita così quella serata. Sono corso a casa cercando di non seguire altro che la lingua d’asfalto. Sono sceso, ho tirato giù dal freezer una confezione di sofficini e due di olive ascolane. Ho chiuso le persiane, ho acceso la lampada a stelo ma non il lampadario, mi sono messo sul divano a mangiare e a riguardare “La strana coppia”.
Ho abbassato il volume della televisione quando il film è arrivato al punto che preferisco e ho recitato a voce alta le battute più belle. Queste:

Chi vuol mangiare?

Cosa c’è?

Ho dei sandwiches marroni e dei sandwiches verdi. Quali preferisci?

Che c’è nei verdi?

O formaggio molto fresco o carne molto passata.

Prendo il marrone.

Poi ho stoppato il film perché non ero dell’umore adatto per continuare. La serata era sbagliata, stonata, e non mi andava di sprecare la cartuccia de “La strana coppia” per raddrizzarla adesso che ormai erano le dieci meno un quarto. Così mi sono alzato dal divano, ho tirato giù dalla maglia un po’ di briciole e sono andato in bagno. Guardando lo specchio ho iniziato a far correre l’acqua bollente, poi ho chiesto a nessuno di chi fosse colpa di un simile schifo. Mi sono vergognato immediatamente di averla fatta quella domanda, e fortuna che ero solo in casa, perché è una domanda talmente ingenua che sarebbe stato da prendermi a schiaffi. Così sono andato in camera, ho inspirato l’odore più bello del mondo, secondo me, che è quello del pigiama, me lo sono infilato e ho dormito nove ore filate.