Credere nel movimento oltre se stessi

Caro Enrico,

ho letto la tua lettera per il decennale di Zibaldoni. Fai bene a mettere l’accento sull’imprevedibilità e sullo svestire i panni professionali, ma bisognerebbe parlare anche degli inediti cortocircuiti, combinazioni che venivano (vengono) fuori in fondo in ogni numero della rivista, che è sempre un condensato caleidoscopico di cose lontane in apparenza, di spinte eteroclite a un primo distratto sguardo, che in realtà credono di sentire nella ingenuità della passione che le muove una matrice comune, una matrice che comprende e ama anche l’eventuale poca destrezza, se destrezza vuol dire sapere esattamente dove andare a parare per uno scopo preciso, un utile certo.

Penso che il credere abbia distinto nel tempo questi testi, ma non era un credere in sé, neppure un credo, bensì un credere nella spinta, nel movimento oltre sé, che ha spesso accomunato chi ha scritto per Zibaldoni, assai più interrogante, che rassicurante. Questo lo distingue dai lit-blog letterari che tu nomini, e mi vengono in mente le figure del Perceval e del Perceval-Kaspar Hauser, impegnati in una conquista di sé che non può essere che perdita del sé, dissipazione, disseminazione.

Cosa cui invece stanno ben attenti i professionisti del sé, per i quali ogni piccola goccia del loro sudore scrittorio va racchiusa in una teca o ampolla ed esibita come l’ultimo condensato dello scibile letterario, fruibile come un pocket coffee, dolciastra in modo da ammansire i palati cariati con le citazioni a effetto e i periodi del bello scrivere codificato, quegli stessi palati ormai dimentichi dei diversi sapori del loro gusto, disattenti al formicolio degli odori quando questi attraversano le mucose del naso.

Tu scrivi parole”, ma io leggo “voci”, proprio per l’instabilità che contraddistingue la voce, e la diversità dei toni, e le rabbie, e le dolcezze che nella voce vengono fuori in maniera impredicabile allo scritto, se non si tratta di arte, cioè di quella grazia rara di cui tu mi scrivevi tempo fa.

E pure mi era sembrato di leggere”marchettizzato”, che poi col market la marchetta ha moltissimo a che fare, ossia lo scambio di favori in vista di reciproci guadagni e visibilità assortite da poter spendere.

Mi piace molto il racconto dei mezzi di minima su come hai cominciato, con gli altri. È vero, sembra un altro mondo visto da qua. Accattivarsi il pubblico (che non vuol dire alla fine fare prigionieri?) e affastellamento di cose su cose, sono il contrario dei dieci pezzi dieci che si decantano ogni due mesi in Zibaldoni, lasciando spazio a tutto quello che può nascere nel mezzo. Alle ombre, mi viene da dire.

Straparlo? All’improvviso mi vengono in mente le persone che ho conosciuto tramite te e la rivista, e come i loro ritmi personalissimi rintocchino nei giri delle loro frasi. Vedo (e sento in cadenza) lo sguardo di Barbara, il finto grugno di Roberto, le labbra di Massimo, la falcata di Walter, le mani di Stefano, poi Gianni seduto nel tuo cortile…un possibile senso, di Zibaldoni, e non solo, nell’ascolto amichevole?

Come immagine augurale per il decimo anno di un cammino che ha visto appaiarsi e poi divergere le impronte di molti compagni di strada, caro Enrico, desidero tornare al Perceval, e a quel tappeto di neve su cui noi e lui arranchiamo inconsapevoli… Tre gocce di sangue giungeranno, forse, ad attivare la nostra capacità di fantasticare e immaginare l’altro, non più separato anche se finalmente lontano.