In dialogo con l’albero della letteratura. Intervista a Juan Goytisolo

«Se mi dessi credito, potrei arrivare a dire una follia: oggi, il saggio, la scrittura specificatamente saggistica, può continuare ad esistere solo nell’orbita o sotto la protezione del romanzo». Così si concludeva l’articolo di François Ricard che abbiamo tradotto per la rubrica L’arte del saggio prima della pausa estiva. Con questo nuovo post, proseguiamo la riflessione sulle interrelazioni presenti tra saggio e romanzo, la cui indagine – come già annunciato nell’editoriale di apertura della rubrica – rappresenta un punto di vista interessante per la comprensione del saggio come arte letteraria. Presentiamo quindi un’intervista di Ferdinando Guadalupi al romanziere spagnolo Juan Goytisolo, nella cui opera la riflessione saggistica costituisce una componente essenziale. [Simona Carretta]

Félicien Rops, La mort qui sème la zizanie

Juan Goytisolo è un autore prezioso per la capacità di interiorizzazione delle proprie letture e per la successiva rielaborazione creativa. Creazione e critica sono termini essenziali per comprenderne appieno vita e poetica, e per visualizzare alla perfezione quel árbol de la literatura che si configura come un necessario punto di riferimento lungo il sentiero comparativo da lui stesso tracciato. Ho incontrato Juan Goytisolo venerdì 5 agosto 2011 a Tangeri, dove trascorre solitamente i mesi estivi. Ciò che segue è il risultato di una chiacchierata durata circa un’ora.

 

*

 

Ferdinando Guadalupi: La sua poetica ha spesso risentito di eventi salienti appartenenti alla sua biografia, ovviamente in modo non diretto ma, specialmente a partire da Señas de identidad, fictionalizzato e ludicizzato. Molta influenza hanno avuto gli incontri. Nonostante i miei sforzi di indagine bibliografica, il mio aggiornamento più recente risale al 1996, grazie ad Abdelatif Ben Salem, che ha completato la “Cronología” da lei stesso redatta anteriormente in terza persona. Come riassumerebbe questi ultimi 15 anni? Ha mai sentito l’esigenza di scrivere un nuovo capitolo delle sue memorie?

Juan Goytisolo: No, per me è un’esperienza completamente conclusa. Non mi piace il genere autobiografico. Allora lo feci per una ragione: spiegare perché scrivevo e le motivazioni alla base del cambio di scrittura a partire da Señas de identidad e Don Julián. Allora mi sembrava necessario spiegare ciò, però credo che le mie opere apparse dopo Don Julián non abbiano bisogno di nessuna spiegazione e quindi non c’è alcuna ragione perché io faccia commenti.

 

F.G.: Quindi gli ultimi anni devono essere stati tranquilli…

J.G.: Questo si può leggere in controluce nei miei romanzi e saggi. Non insisterò nel genere autobiografico, l’ho lasciato indietro. Adesso si aggiunge anche un altro problema, e cioè che interessa sempre più la vita rispetto all’opera dell’autore. Ci accorgiamo, grazie all’uscita di biografie, che per esempio un tale scrittore che ha composto romanzi magnifici in realtà era molto crudele con sua moglie, o andava a letto con sua nipote. (ride) Cose che non mi pare aggiungano nulla alla conoscenza della letteratura. Però è così.

 

F.G.: Ho la sensazione, leggendo alcuni dei suoi discorsi ufficiali…

J.G.: Non ho mai fatto discorsi ufficiali! Tuttalpiù conferenze… (sorride ammiccando)

 

F.G.: Sì, conferenze. Dicevo che ho la sensazione che lei sia arrivato a un grado di saggezza che le permette di approfittare di tali occasioni per veicolare il suo pensiero e renderlo chiaro a tutti. Si sente ancora radicale come nel passato (senza parlare, come hanno fatto molti, di anarchismo)? Dopo che il suo paese ha infine dimostrato interesse per la sua opera, ha fiducia nella capacità della gente che lì vive di capirla, o almeno avere curiosità per ciò che la letteratura potrebbe essere?

J.G.: No. Lì c’è un fenomeno particolare. Recentemente ho letto un articolo di Mario Vargas Llosa ne El País molto interessante a riguardo. C’è un regresso incredibile nella letteratura: ciò che prima si applicava unicamente alla poesia – ovvero un lettore attento, un pubblico ridotto, ecc. – si sta estendendo a quello che io intendo come romanzo di creazione. Nell’epoca in cui lavoravo, il mio editore era Gallimard. Era chiaro, si pubblicava la migliore letteratura del mondo però allo stesso tempo c’erano collane molto popolari: noir, romanzi polizieschi, ecc. In questo modo un settore copriva le necessità dell’altro. Ora ci sono molte case editrici che vogliono pubblicare solo libri che rendano subito molto e quindi trasformano quelli che sono prodotti commerciali in testi che si suppongono letterari. Per esempio abbiamo casi di alcuni scrittori di enorme successo che non hanno la minima qualità letteraria, e che tuttavia sono ben inseriti nell’accademia. Vengono presentati come grandi autori e c’era addirittura un illustre accademico che disse che i migliori libri sono quelli che si vendono di più! (ride)

 

F.G.: Parliamo di Paisajes después de la batalla. Dopo l’evoluzione del personaggio Álvaro Mendiola nella trilogia a lui dedicata, ha scritto Makbara, un romanzo che è anche un ampio poema orale. In Paisajes è quindi tornato alla centralità del personaggio. Quali sono state le motivazioni alla base della scrittura del romanzo?

J.G.: È una lettura della città di Parigi. Ho sempre detto che se non fossi stato uno scrittore sarei diventato un urbanista. La lettura delle piantine delle città mi piace moltissimo. Sono un animale urbano. Ci sono quattro o cinque città nel mondo che mi appassionano. Parigi mi ha incuriosito. Ho avuto il privilegio di vivere in un quartiere, il Sentier, al limite tra il dodicesimo e il decimo arrondissement. Tutta quella zona, fino alla Gare du Nord e Barbès, mi ha fornito un’educazione che nessuna università avrebbe mai potuto darmi. Ovvero la scoperta della varietà umana, della varietà di culture. C’erano – e ci sono – persone francesi, ma anche arabi, ebrei, armeni, insieme a turchi, pachistani… Insomma, di tutto. Passeggiavo per questo quartiere, all’epoca in cui scrivevo Paisajes después de la batalla. Sono un passeggiatore, del genere definito da Walter Benjamin quando parlava di Baudelaire. E, precisamente pensando ai passages che descriveva Baudelaire e su cui ha scritto Benjamin, mi immaginavo lo stupore di chi costruì questi passages vedendo che ora sono abitati da gente proveniente da tutti i continenti. Potevo passeggiare e trovarmi improvvisamente in Turchia, poi camminavo cinquecento metri in più e mi ritrovavo in Pakistan, e poi in India… Insomma questo era un privilegio. Era uno spazio in movimento. E io volevo dar conto di questo. Certo, Paisajes è un ritratto di Parigi completamente diverso dalla città descritta soprattutto da altri autori stranieri che parlano sempre del Quartier Latin, Montparnasse, le zone più eleganti, gli Champs Elisées o Place de l’etoile, ecc.: presenta un’altra Parigi che nessuno voleva vedere in quel momento. E in effetti era anche un parodiare la alta cultura francese da parte di quella nuova che stava nascendo, che era la cultura dei migranti. La trasformazione, per esempio, della poesia di Louis Aragon Elsa mon amour nella vicenda del marabutto L’Sa Monammù rientra nel discorso di Bachtin sulla parodia dell’alta cultura da parte della bassa cultura, la quale si trasforma a sua volta in alta cultura, tuttavia con altre percezioni e altri propositi. Ed era sconfortante scrivere ciò sapendo che sarebbe stato compreso molto male, soprattutto a Parigi. Quando uscì il libro la redattrice del miglior settimanale letterario lo commentò con alcuni miei amici dicendo esattamente: “Pour qui se prend-il pour parler de Paris de cette façon?”. Una reazione di indignazione. Tuttavia credo che tutto ciò che appare nel libro si sia poi convertito in realtà. È un libro molto profetico. Dagli attentati assurdi all’islamofobia, i cambiamenti climatici, ecc.: tutto si è realizzato. Tutte le fantasie del personaggio si sono poi realizzate.

 

F.G.: Come immagina il Sentier e, in generale, la metropoli europea fra trent’anni?

J.G.: Ora, è da parecchi anni che non ci vado. Quando torno a Parigi assisto alle trasformazioni continue del quartiere però non posso seguirle. Quel che ho visto è che il fenomeno si accentua, anche in altri sensi. C’è stata una reazione totalmente assurda nel periodo della presidenza Giscard, come una specie di pulizia etnica. Molte persone di origine maghrebina che vivevano lì, per esempio, furono spostate nelle banlieues. E con ciò si crearono dei ghetti e questi giovani, ragazzi e ragazze ormai integrati nella mescolanza presente nel quartiere, all’improvviso si sentirono discriminati, lontani dalla città in cui erano cresciuti. Da lì cominciarono i problemi, e tutta la ribellione delle banlieues. Tutto ciò apparve  all’improvviso, quando un nero si dette fuoco alla stazione: tutto stava ancora per accadere. Non mi sono mai interessati i quartieri alti. Invece mi interessano le altre zone sociali. Ho sempre citato questa frase di Élie Faure che mi pare assolutamente geniale. Dice: «La spiritualità – la creatività – non è mai fuoriuscita dai dogmi né dai concili né dai sistemi, ma dalle viscere della vita in creazione e movimento». Non si può definire meglio da dove sorga la forza creativa dell’arte.

 

F.G.: In Paisajes, dicono alcuni critici, c’è una buona dose di onirismo. È comunque importante anche la dimensione di rottura del confine tra verosimile e inverosimile. Quando finisce l’inverosimile e inizia la prospettiva onirica del protagonista? Che differenza c’è tra l’azione del personaggio nel territorio dell’inverosimile e in quello onirico?

J.G.: La creazione del verosimile risponde sempre a un canone del romanzo, del grande romanzo del XIX secolo. Lo rispetto moltissimo e sono un grande lettore dei grandi romanzi francesi e russi del XIX secolo e de La Regenta in Spagna. Però credo che tutto ciò sia concluso. Reiterare questo ormai non ha più il minimo interesse dal punto di vista artistico. Per esempio, ora in Spagna stanno fiorendo una quantità di romanzi sulla guerra civile e tutti cercano di ricrearne racconti verosimili. Per alcuni sono interessanti soprattutto a confronto con le fotografie dell’epoca. Per me sono una totale perdita di tempo. Ciò corrisponde a cose già dette e fatte e che non hanno il minimo interesse. Ci sono autori che ci minacciano con le tetralogie. Sei romanzi sulla guerra civile. In Las semanas del jardin appare la guerra civile. È lì, però dentro una proposta letteraria completamente diversa. È un filo: c’è il narratore che costruisce e decostruisce i personaggi, però la guerra civile è lì.

 

F.G.: In Paisajes si possono riscontrare tecniche proprie del postmodernismo. Lei si sente un autore postmoderno? Come si relaziona con il postmodernismo?

J.G.: Queste sono definizioni che non capisco. Ho sempre pensato che ci sia una modernità che circola nel tempo. Una cosa è l’attuale e altro è il moderno. Per esempio, l’ultimo capo di stato spagnolo legittimamente eletto – e che era presidente della Repubblica -, Manuel Azaña, faceva in proposito una riflessione sulla differenza tra modernità e attualità: «Ciò che è attuale oggi non lo sarà domani e non era l’attuale di ieri». Vale a dire che correre dietro all’attualità – che è ciò che vediamo oggi – è sempre un condannarsi alla caducità. Invece la modernità circola perché ci sono le opere… Prendiamo ad esempio la letteratura spagnola. Ci sono grandi autori. Lope de Vega non lo sento come un mio contemporaneo, Calderon nemmeno. Invece leggo la Celestina e mi riconosco: l’autore è un mio contemporaneo, come anche l’autore della Lozana andaluza – altra meraviglia -, su cui fui il primo a tenere un corso negli Stati Uniti. Quando insegnavo alla New York University un collega spagnolo mi denunciò al Rettore dicendo che stavo tenendo un corso pornografico. E questo negli Stati Uniti, nel 1972! Questo per capire che pregiudizi ci fossero. E invece era un’opera assolutamente moderna, maestra. Per quel che mi riguarda, tutto quel che ho scritto è stato un dialogo con ciò che io chiamo l’albero della letteratura: con l’Arciprete di Hita in Makbara, con Góngora, in un certo modo, in Don Julián, con…

 

F.G.: … Flaubert?

J.G.: Con Flaubert in Paisajes después de la batalla, ma anche con San Juan de la Cruz in Las virtudes del pajaro solitario, ecc. Sono sempre in cerca delle radici della modernità, attraverso l’esperienza. Feci un viaggio in Egitto e in Grecia con Monique Lange. Al museo del Cairo, a Luxor e ad Assuan vedemmo continuamente Picasso e Giacometti. Era impressionante! Arrivati in Grecia vedemmo alcune Veneri e degli Apollo molto belli. Però non dicevano nulla, erano di un’altra epoca. A Roma accadde la stessa cosa, con le statue romane. Ce n’erano alcune di molto belle, però non vedevo che relazione avessero con il mio tempo. Mentre nell’arte egiziana, sì, ci sono dei misteri che fanno sì che determinate opere circolino attraverso il tempo.

 

F.G.: Abbiamo parlato di Flaubert. I Paisajes si aprono con una citazione tratta da Bouvard e Pécuchet per specificare, come ha sottolineato lei in un saggio all’interno di Contra las sagradas formas, la filiazione flaubertiana del romanzo. In quel saggio specifica anche che Flaubert, durante gli ultimi anni della sua vita, si dedicò così ostinatamente a quel romanzo da identificarsi nei suoi stessi personaggi e nei loro capricci. Può essere questa una spiegazione alla necessità di riprendere il vecchio personaggio dei Paisajes per la scrittura de El exiliado de aquí y allá? È un personaggio al quale si sente particolarmente legato? È, come per l’ultimo Flaubert, la sua biografia ad essere influenzata dai suoi  personaggi o piuttosto il contrario?

J.G.: Dunque, io sono un flaubertiano. Provo una grande ammirazione per Madame Bovary e L’educazione sentimentale, però l’opera che mi interessa di più è Bouvard e Pécuchet. Bouvard e Pécuchet è un romanzo più cervantino: quei due sono inseparabili come Don Chisciotte e Sancio. (sorride) La verità è che l’umorismo di questo libro per me non ha prezzo. Se un giorno mi sveglio di malumore, prendo Bouvard e Pécuchet ed entro tre minuti sto ridendo. Mi passa il cattivo umore, lo dimentico! (ride) È un libro straordinario perché ha smascherato i meccanismi del progresso e della scienza. Ora servirebbe qualcuno che, per esempio, parlasse di questo mondo, del “mercato” in cui stiamo vivendo. L’altro giorno ho scritto un articolo per El País sulle nuove divinità, che si chiamano Moody’s, Fitch o Standard&Poors: sono gli unici che possono guidare l’umanità – o almeno una piccola parte di essa – verso un paradiso… “fiscale”. (ride) Bisognerebbe smascherare tutta questa truffa. In ogni caso, la sensazione di apocalisse che si ritrova in Paisajes después de la batalla di questi tempi pare addirittura accentuata, e credo che ciò che sta succedendo nel mondo sia la fine di un ciclo. Tutto questo non può continuare. Questo capitalismo depredatore e questo “casino” globale che si sta burlando dell’umanità intera può continuare? Io credo di no. Poco tempo fa stavo leggendo Ibn Khaldun, un grande storico arabo: il modo in cui vide tanto chiaramente che si trovava alla fine di un ciclo storico, parlando della decadenza araba, con dei governi che si basavano su realtà che non esistevano. È come un’analisi malinconica di tutta l’inevitabile decadenza del sistema di governo arabo… che fino alla primavera di quest’anno era durata parecchi secoli. A volte ho l’impressione, leggendo la stampa, che – vedi ad esempio la recente speculazione sul debito spagnolo e italiano – tutto questo sia allucinante! Ci sono persone che stanno giocando, i governi ormai non comandano più. È un mercato “così”, il guadagno è immediato. Celestina, quando definisce la creazione del mondo, dice «questa fiera, questo mercato». Il mondo per Celestina è una fiera e un mercato. È il modo che già aveva il baccelliere Fernando de Rojas di concepire il mondo, come una fiera e un mercato.

 

F.G.: Parliamo della figura del protagonista dei Paisajes. Si parla di una «autobiografia ludica». Di più: all’interno dello stesso romanzo lei stesso, o quell’istanza autoriale supposta omonima del remoto e invisibile scrittore Juan Goytisolo, usa i termini «crónica burlona y sarcástica» e «autobiografía deliberadamente grotesca». Ben Salem cita inoltre alcune sue affermazioni che riconoscono Jean Genet come sicuro punto di riferimento per la creazione del personaggio del monstruo, immagino per l’influenza che su di lei avrebbe esercitato il Journal du voleur. Ovviamente questa figura sarà nata da diverse fonti; le chiederei quali furono le ispirazioni alla base di tale personaggio.

J.G.: Be’, sì, è una «autobiografía deliberadamente grotesca» nel senso che il personaggio vive a casa mia, nel mio edificio; esce, percorre le strade che percorrevo io, ecc. Però ha una deformazione, non saprei come chiamarla… goyesca. Inoltre interviene il fattore erotico del gioco con le bambine e Alice… Quel che volevo fare era dare una visione della complessità dello spazio urbano di Parigi. Così come in Makbara avevo fornito una lettura dello spazio della piazza e di altri posti, lì c’è la struttura urbana di Parigi.

 

F.G.: In uno dei frammenti dei Paisajes lei invita a leggere correttamente Herbert Marcuse. Nel frammento descrive una rivoluzione disneyana che ha luogo nella coda fuori dal cinema Rex. Voleva, dando spazio alla sua immaginazione romanzesca, sperimentare e riferirsi alle teorie della scrittura come onanismo? Come si legge correttamente Marcuse?

J.G.: Definire la scrittura come onanismo… Qui raccontano una barzelletta molto carina. In realtà non qui, ma a Marrakech. C’è un bambino che chiede a suo zio: «Zio! Che faceva la gente con le mani quando non esistevano i cellulari?» – «Bè, sgranavano rosari». – «E quando non c’erano rosari?». – «Si masturbavano!». (ride) Se la scrittura è una masturbazione, è una forma di masturbazione sublimata. Allora perchè no? In ogni caso tali teorie non mi hanno mai interessato.

 

F.G.:  Molte scene di Paisajes sono ambientate nei dintorni del cinema Rex e all’interno di un cinema porno. Che rapporto ha avuto con il cinema, a parte le connessioni con il realismo che alcuni videro nelle sue prime opere?

J.G.: Fino a Señas de identidad quel che scrivevo seguiva il modello romanzesco tradizionale, che più o meno poteva essere influenzato dal cinema – fino al romanzo dal titolo La isla, che in realtà è un copione cinematografico: lo preparai apposta così. A partire da Señas de identidad il cinema ha smesso di interessarmi. Di fatto è molto difficile che un film mi interessi. Se un romanzo si adatta facilmente al cinema per me è un brutto segnale, perché vuol dire che è facile ridurne la trama. Non si può… Una forma di creatività, per esempio, come quella di Citizen Kane o La corazzata Potemkin o La terra trema, o anche Senso, e certi film di Fassbinder… Lì c’era la creatività dell’immagine. Però adattare un romanzo non è possibile. Ma molta gente lo dice: «Scrivo questo romanzo sperando che si adatti al cinema». Sono cose diverse. Per esempio nessuno dei miei romanzi si può adattare al cinema.

 

F.G.: Forse i primi?

J.G.: I primi sì. Però a partire da Don Julián è impossibile. Nessun romanzo si può adattare. Conoscevo abbastanza Luis Buñuel. Aveva raccontato, a me e a Carlos Fuentes, che gli avevano proposto di adattare al cinema Under the volcano, il romanzo di Malcom Lawry. È un romanzo così straordinario, così ricco, che ci disse che lo studiò tanto, ma che nel migliore dei casi gli avrebbero detto che aveva semplicemente riscritto il romanzo, e sempre a un livello inferiore. Quindi diceva in modo molto carino: «A me piace moltissimo Galdós, perché ha idee molto buone. Però è molto pasticcione quando lavora». Lavorava di corsa per guadagnare soldi. E quindi diceva: «A me dà un margine di creazione enorme passando a me l’idea e permettendo a lui di cominciare cose nuove. Perché adattare un grande romanzo è impossibile».

 

F.G.: Preparare questa domanda è stato per me molto difficile. Mi pare di vedere all’interno del frammento «Reflexiones ya inútiles de un condenado» il momento di maggior prossimità tra autore, narratore e protagonista di Paisajes: un’affermazione in prima persona che indica nel derviscio errante Sufi il suo ideale letterario. Come autore, in Contra las sagradas formas parla di un «narrador-escriba, que (…) esboza su autorretrato», ma nel romanzo in seguito afferma che «el narrador no es confiable, no para ni un momento de engañarte». In chi avere fiducia quindi? Forse nell’autore colto nel momento della scrittura del romanzo stesso? La scrittura è una o una serie di contingenze?

J.G.: Dunque, la letteraura è il territorio del dubbio. Una volta tenni un corso su Le mille e una notte. Mi piace moltissimo quando Sherazad dice «si dice che…», «si narra che…», ma poi c’è una contraddizione in quel che si dice, in quel che si narra. È il territorio del dubbio. Io non credo nel Corano, né nella Bibbia, né nella Torah o nei Vangeli. Credo invece ne Le mille e una notte. Lì tutto è dubbioso. Il romanzo non serve a dare risposte ma a fare domande, perché il lettore si faccia delle domande nuove. Tutti danno risposte. Tutti i governi, tutti i partiti, tutti i sistemi danno risposte. La maggior parte false, però comunque si tratta di risposte. Invece bisogna fare domande.

 

F.G.: La saga de los Marx è generalmente considerato una sorta di esito ludico rispetto ad alcuni temi già impostati in Paisajes. Nel romanzo l’autobiografia grottesca sembra mescolata alle vicende di un Karl Marx che deve rapportarsi a un mondo post-marxista. Può essere questa una sorta di allegoria della disillusione da lei stesso vissuta dopo aver scoperto, in verità già tempo addietro, che quel realismo sociale che applicava all’arte le teorie marxiste ed engelsiane ormai non era sufficiente per descrivere la realtà? O, meglio, che il realismo in sé, di qualunque genere fosse, ormai non era più adatto a descrivere la realtà?

J.G.: Be’, una volta ebbi un’esperienza. Viaggiai in Unione Sovietica negli anni sessanta. Fui lì due volte, invitato dall’Unione degli Scrittori. E lì mi resi conto di una cosa, e cioè del fatto che quell’esperienza non poteva funzionare. Perché ti dicevano in continuazione una certa cosa, e vedevi esattamente il contrario. Uno spagnolo che in tempo di guerra era bambino, cioè uno della mia età, la cui famiglia, come altre famiglie repubblicane, si trovava lì [in URSS; NdA], aveva molto senso dell’umorismo e diceva: «Che differenza c’è tra un pittore impressionista, uno espressionista e un realista socialista?». E poi diceva: «Che l’espressionista dipinge ciò che vede, l’impressionista ciò che prova e il realista socialista ciò che ascolta». Ed era esatto. Lì vidi tutto con un certo senso dell’umorismo. Non caddi in una rassegna anticomunista, ma vidi tutto come una  sorta di regressione e lo presi con umorismo. E da lì colsi il momento della caduta ponendomi nei panni di Marx e della sua famiglia. Vedere quel che succedeva per me era molto divertente. L’arrivo degli albanesi a Bari. Arrivarono fino in Francia ed era impressionante: volevano tutti andare a Dallas, questo era certo. Ci fu un gruppo che fu portato in un alloggio a Masif Central e da lì andarono tutti a piedi fino a Parigi, all’ambasciata americana per chiedere dei visti per Dallas! Ci sono elementi di verità: alla fine del romanzo arrivano tutti a Dallas. Fu una parte delle dicerie, ma la realtà era lì sotto gli occhi di tutti. Ho descritto dei milionari. Tutto ciò lo scrissi nel 1993, all’inizio dell’era Yeltsin. Ora si vede bene quello che sono gli oligarchi russi. Ne ebbi la prova l’ultima volta che mi recai a Mosca, quando andai in Cecenia nel 1996. Ero all’hotel Metropole, riconvertito e con gestione americana. Per qualunque cosa ti servisse chiedevano un monte di soldi: «Mille dollari per future chiamate telefoniche», ti chiedevano ad esempio all’entrata dell’hotel. Poi ci fu un’altra cosa che non dimenticherò mai. Una sera nel mio appartamento ci furono dei musicisti che suonavano musica di Lully e di Rameau, musica francese del XVIII secolo, vestiti come durante il periodo di Luigi XVIII. Nella hall le uniche persone presenti erano guardie del corpo di capi mafiosi: si vedeva che avevano addosso una mitragliatrice, (ride) ma c’era la musica di Lully come sottofondo. Se avessi potuto aggiungere un capitolo l’avrei persino migliorato [il romanzo; NdT]! Però era troppo tardi, avevo già scritto il romanzo. La realtà superava la finzione.

 

F.G.: Dopo la pubblicazione di Telón de boca ha spesso sostenuto che non avrebbe più scritto opere di finzione. Nonostante ciò, pochi anni dopo pubblica El exiliado de aquí y de allá, un romanzo in cui tornano il protagonista e alcune sfumature dei Paisajes. Perchè sentì la necessità di lavorare di nuovo con il monstruo dopo quasi un quarto di secolo? E perchè proprio con lui?

J.G.: L’ho fatto in funzione delle trasformazioni che stavo vedendo. Pensavo ci fosse bisogno di creare un filone argomentativo. Non so se utilizzare il monstruo fu un errore, non ne sono sicuro. Dubito spesso di me stesso. C’era una serie di testi che stavo scrivendo sul terzo mondo, sui tiranni arabi, e poi due testi su Ben Ali e Tunisi, ma senza menzionarlo. In seguito cercai un filo conduttore tra di essi. Non so se ciò costituisse un errore o no. Là dentro ci sono alcuni testi che mi sembrano rivelatori dell’epoca in cui stiamo vivendo, per esempio la ricerca di fama scannandosi davanti alle telecamere o la caccia a pochi momenti di gloria. Ciò che vediamo ora è questo mondo orribile e in più anche totalmente imprevedibile. Quando c’è stata la strage in Norvegia mi sono ricordato di un mio vecchio compagno di classe, un vecchio come me che quattro mesi fa a Barcellona si era trovato in un ristorante in cui mi trovavo anche io. Si avvicinò e mi disse: «Guarda, tu sei pazzo! Vivi in questi paesi arabi, sempre con terroristi e attentati, ecc. Guarda cos’è successo a Marrakech! Io voglio vivere tranquillo, mia moglie ed io quest’estate ce ne andiamo a vedere i fiordi in Norvegia!». Quando ho sentito dell’attentato mi sono immediatamente ricordato di lui e stavo quasi per ridere. Ovviamente non per l’orrore dell’attentato, ma per via di questo signore che cercava la pace e la tranquillità. Il mondo in cui viviamo è questo.

 

F.G.: C’è una sottile differenza tra il riso provocato da Don Chisciotte e Sancio Panza, o da Bouvard e Pécuchet, o dai personaggi di Rabelais e quello del monstruo. Non è una comicità innocente, è permeata di disillusione. C’è uno stretto vincolo con l’attualità, con una realtà ironicamente portata all’estremo, nelle perversioni sessuali, nella pedofilia sarcasticamente riferita a Lewis Carroll, nella rivoluzione vista come postmarxismo e nella misantropia. Ancora agli inizi del secolo breve era possibile un’esperienza come quella del soldato S’veik, ma dal secondo dopoguerra in poi l’ironia si è fatta sempre più “cattiva”, feroce e disillusa. Satirica. Pensa questo sia un punto di non ritorno per l’innocenza cervantina e rabelaisiana? C’è più bisogno di innocenza o di satira?

J.G.: Credo che in Paisajes ci sia una condensazione di tutta una serie di problematiche, sia urbane che… insomma, mondiali, concentrate in un personaggio. Chi parlava del cambiamento climatico nel 1982? Il personaggio già si immagina che il livello del mare salga; immagina di comprarsi alcuni terreni e vedere l’agonia dei suoi vicini sommersi dal mare. C’è tutto. Mi piace molto leggere, sono molto curioso: aneddoti nei periodici, scritte sui muri, tutto stimola la mia creatività. L’ultima volta che sono stato in Messico è stato bellissimo per me vedere i dintorni dello Zócalo, così simili a quelli della piazza di Marrakech. Vidi una farmacia enorme che si chiamava «La Farmacia de Dios». Doveva essere davvero enorme: pensai che con gli anni che ha e la quantità di medicine di cui ha bisogno doveva essere una farmacia immensa! (ride) E dall’altra parte della strada qualcuno aveva scritto sul muro una cosa che suonava così: «En cada día que amanece el numero de idiotas crece». Mi pareva piuttosto giusto. (ride)

 

F.G.: Come scrittore di finzione e critico, lei riterrebbe più affidabili le asserzioni sulla propria poetica di un autore-narratore o gli sforzi esegetici autonomi di un critico? E quali sono le posizioni dello scrittore a cui fare riferimento, quelle programmatiche, quelle in corso d’opera o quelle fatte ex post?

J.G.: Ho sempre detto che lo sforzo dell’opera appartiene all’autore mentre il risultato dell’opera appartiene a tutti tranne che all’autore. Voglio dire che un’opera deve parlare di per sé, ovviamente nel caso in cui volesse dire qualcosa. Una volta feci quest’esperienza: negli Stati Uniti tenni un piccolo corso abbastanza specialistico sulla mia opera. Ogni tanto venivano date interpretazioni divergenti e la gente mi guardava come aspettandosi che io dessi ragione a qualcuno. Io non dovevo far questo, questo non era e non è il mio ruolo. Ciò che era scritto stava lì e ognuno lo poteva leggere. Quel che succede è che le letture cambiano, cambiano a seconda della prospettiva. Proposi di tenere anche un corso su Cervantes. Volevo chiamare sei professori che ne proponessero ognuno un approccio diverso. Proposi Cervantes ma si poteva fare con qualsiasi altra opera di una certa importanza, con qualsiasi romanzo moderno, per esempio La coscienza di Zeno o Se una notte d’inverno un viaggiatore.  Ognuno di questi professori avrebbe dovuto focalizzare la propria analisi su un aspetto diverso: un discorso meramente linguistico, oppure indovinare il contesto a partire dal testo, o studiare il testo a partire dal contesto, una lettura marxista, una lettura puramente evolutiva all’interno del genere. In questo modo si sarebbe potuto parlare di cose diverse partendo sempre dello stesso libro. Ciò vale a dire che c’è sempre un’enorme varietà di approcci nei confronti di un’opera, purché essa sia densa.

 

F.G.: Una curiosità: che libro sta ri-leggendo in questo momento?

J.G.: Ho appena finito di rileggere Diderot. Ho scritto un articolo sulla mia rilettura di Jacques il fatalista. Ora rileggerò El Criticón di Gracián, che non leggo da molti anni. Una delle cose più interessanti è come cambia la lettura nel corso degli anni. I libri che ho letto quando avevo vent’anni non sono quelli che leggo ora: cambiano in funzione della mia età, della mia esperienza. Per esempio, ho letto Guzmán de Alfarache, il romanzo picaresco di Mateo Alemán, a vent’anni e qualcosa: non avevo capito quel che leggevo! L’ho riletto dieci o quindici anni fa e mi sono reso conto del fatto che non avevo capito nulla. L’esperienza della censura dell’Inquisizione, i trucchi dei nuovi cristiani per dire senza dire. Tutto questo. Rilessi un romanzo che non mi ero accorto di aver letto quaranta anni prima.

 

F.G.: E le capita mai la stessa cosa con le sue opere?

J.G.: Non mi rileggo. (ride)

 

F.G.: Però è capitato che modificasse alcune opere, anche in occasione della pubblicazione delle Obras completas

J.G.: In realtà quel che ho fatto in queste Obras (in)completas è stato tagliare alcune cose. Non ho modificato nulla. Solo in Don Julián feci una piccola modifica perché l’ispirazione veniva da una poesia di Lermontov che è una maledizione gitana contro la Russia detta quando lo Zar lo mandava a combattere in Caucaso per uccidere ceceni. All’inizio la scrissi basandomi su una vecchia traduzione francese, che era risultata approssimativa. Uno slavista l’aveva ritradotta più di recente e quindi decisi di correggerla. La traduzione della poesia di Lermontov è: (recita a memoria)

 

Adiós a ti del ruso sucia patria

nación de encomenderos y de esclavos.

Adiós a esas guerreras azuladas.

Adiós al pueblo por ellas maniatado.

Quizá yo, tras el Cáucaso erguido,

esconderme podré de tu tirano,

de sus ojos que todo lo escudriñan,

de su oído que nada escucha en vano.

 

Una traduzione meravigliosa. E quindi il mio adattamento: (sempre a memoria)

 

Adiós madrastra inmunda, España. País de siervos y señores. Adiós tricornios de charol. Adiós pueblo que lo soporta. Quizá yo, tras el mar del estrecho, esconderme podré de tu tirano, de sus ojos que todo lo escudriñan, de su oído que nada escucha en vano. 1

 

Quindi l’unico cambiamento che ho fatto è stato migliorare il verso di Lermontov e adattarlo. Negli altri casi ho tagliato qualche passaggio. Ma ne La saga de los Marx no, in Las semanas del jardin ho tolto alcune parti inutili, in Carajicomedia ho eliminato parecchie pagine, in Telón de boca niente.

 

F.G.: Dopo aver percorso un viaggio che l’ha portata, sia fisicamente che a livello di poetica, dalla Spagna franchista e il realismo sociale al Marocco e alla cultura orale delle origini, si sente giunto a una sorta di traguardo? Ritiene di essere riuscito nell’impresa di Robinson Crusoe, d’aver creato, per necessità, un proprio mondo riparato dalle ostilità di quello esterno? O sente di aver percorso un viaggio idealmente omerico, un percorso che viene vanificato se si pensa alla destinazione, ma che acquista il più alto dei sensi se considerato in sé?

J.G.: Beh, in realtà la mia vita è stata una emigrazione costante: dalla Spagna a Parigi, da Parigi agli Stati Uniti, dagli Stati Uniti all’interesse per il mondo arabo, per la Turchia, per il Marocco; interesse che in gran parte deriva dalla mia permanenza a Parigi, possiamo dire. Non lo so, uno non sa mai in anticipo quale sarà il suo destino. È il destino che va tracciando le cose. L’importanza dell’oralità, tutto ciò che ho scritto a partire da Don Julián… che ho incorniciato in Don Julián, in Juan sin tierra, in Makbara, e soprattutto in Las virtudes del pájaro solitario, ma anche in Telón de boca, è tutto scritto per essere letto a voce alta. È allo stesso tempo prosa e poesia. Niente a che vedere con la cosiddetta “prosa poetica”, che mi inorridisce, mi pare spaventosa. Invece è allo stesso tempo prosa e poesia: vuol dire che all’interno del testo è presente quella che si chiama oralità secondaria. Conta molto per me, tanto quanto la gestualità. Prendiamo degli esempi. Quando stavo preparando il saggio sull’Arciprete di Hita capii un episodio che nessuno aveva mai capito vedendo un narratore della piazza che raccontava qualcosa di simile, però facendo una serie di gesti. La gestualità è molto importante nell’oralità. Lo capì bene anche Diderot. In Jacques il fatalista di Diderot il lettore interviene sempre, interviene e dice: «Bene, e che hai fatto della storia?». Gli viene risposo: «Non aver fretta, lettore!». Ma alla fine la storia non viene raccontata. Il lettore interviene sempre in maniera molto creativa nel romanzo. Per me l’esperienza dell’oralità nella piazza fu molto importante. Capii come un episodio del Libro de buen amor acquistava significato vedendo e ascoltando uno dei migliori narratori, che poi morì. Tutto questo mi ha sempre suscitato molto interesse per le culture antiche. Ricordo di aver letto un saggio sui versi di Omero, un Omero che veniva letto a voce alta e il cui ritmo veniva adattato in base alla gente che stava ascoltando. Per esempio ci sono passaggi dei miei romanzi che sono scritti assolutamente in funzione della loro lettura a voce alta, con un ritmo molto preciso e marcato. La stessa cosa si ritrova in Carlo Emilio Gadda, per esempio. Purtroppo non padroneggio l’italiano. Una volta provai a leggere la Via Merulana, che è una meraviglia. È tradotto molto bene in spagnolo. Quando non capivo il testo in italiano ricorrevo alla traduzione spagnola. Chiaramente era un po’ difficile, non era come leggere un romanzo italiano normale. Per me Calvino, Gadda e Svevo sono i tre grandi italiani del secolo scorso.

 

 

NOTA

 

Vorrei ringraziare l’Università di Trento per avermi permesso, con un concreto sostegno economico, di portare a termine il progetto con profitto, il Prof. Rizzante per aver appoggiato il progetto e per avermi concesso estrema libertà quanto allo sviluppo dello stesso, il Prof. Taravacci per l’aiuto in fase di stesura delle domande e, non ultima, Lucia Gennari, per il fondamentale aiuto con la traduzione e, sì, ovviamente per tutto il resto.

 

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Ferdinando Guadalupi si è laureato in Letterature comparate all’Università di Trento nel 2011, con una tesi dal titolo: Dalle rovine al romanzo: letture di Paisajes después de la batalla di Juan Goytisolo.  L’intervista che pubblichiamo oggi su Zibaldoni è apparsa precedentemente in Spagna sulla Revista de filología de la Universidad de La Laguna.

 

  1. Entrambe le citazioni non sono state tradotte per rendere appieno le modifiche operate dall’autore sul testo lermontoviano in occasione del suo adattamento.