Seduzione

Nicolas de Stael, Le soleil (1952)

Esultanza. Sfrenatezza. Esultanza trattenuta a stento. Non potevo che rispondere in maniera sproporzionata davanti all’eccesso di materia cui mi ero trovato di fronte quando l’avevo sorpresa davanti alla porta del poggiolo a stirare. Avevo aperto la porta e me l’ero trovata di schiena, intenta a stirare una camicia, con tutto quanto di glorioso erompeva da quell’azione semplice e insieme clamorosamente definitiva. Dovetti far forza su me stesso per non saltarle addosso all’istante. Un’impressione quasi miracolosa per forza ed equilibrio. “Lo sapevo” mi dissi, esultando dentro di me come se avessi trovato la chiave di un teorema. Lei si volse appena e accennò un sorriso.

C’era qualcosa di misterioso nella disinvoltura con cui manovrava il ferro, un’ulteriore manifestazione della materia irradiante nella quale sembrava essere avvolta. “Fatti guardare” le avevo detto, ma lei, dopo avermi rivolto uno sguardo benevolo, aveva sollevato una mano come per indurmi a lasciar perdere e si era di nuovo concentrata sul suo lavoro. Ancora meglio: la grazia che ignora se stessa. Indossava uno scamiciato ocra un po’ largo sui fianchi, ereditato da chissà quale zia e destinato a divisa per i lavori di casa.

Cambiai punto di osservazione e mi misi in un angolo per osservarla meglio. Non mi ero affatto sbagliato. Quell’impressione di confidente sorpresa che avevo avuto all’istante si consolidava e diventava reale man mano che mi abituavo all’atmosfera di quella stanza: era una sorpresa, sì, ma era soprattutto qualcosa di cui potevo fidarmi. Anzi, accresceva la mia fiducia in modo sbalorditivo.

“Ne avrai per molto?”, le chiesi.

“Per un’ora di sicuro” mi disse, supponendo che volessi invitarla a uscire, ma insieme arrivando quasi a scoprire le mie intenzioni.

“D’accordo, va bene.”, risposi. Andava molto bene. C’era tutto il tempo per mettere in moto quel sovvertimento di materia in cui sentivo che ci saremmo trovati perfettamente a nostro agio. Mi avvicinai e le cinsi i fianchi, spingendo la mia testa sopra la sua spalla, per cogliere meglio l’espressione del suo viso.

“Guarda che se fai così ci metterò sicuramente più di un’ora”.

Sì, non si poteva finire in un’ora, bisognava approfittarne, estendere quel momento di pienezza, aprire nuove prospettive della durata. Perciò le proposi di darle una mano (“darle una mano”, che espressione singolare) offrendomi di piegare la montagna di asciugamani che nascondeva il divano alla sua sinistra. L’asciugamano, questo pezzo di stoffa che lei aveva usato e piegato conservava nella sottile ruvidezza, difetto di ammorbidente, la memoria del contatto col suo corpo, un contatto a tal punto evidente da moltiplicare il valore della materia. Presi in mano quello in cima al mucchio e mi misi ad annusarlo con discrezione, mentre lei mi chiedeva come mai ci mettessi tanto a piegarlo. Ci sarebbe voluto un giorno intero per rendere omaggio al potenziale di quell’asciugamano. D’accordo, sarebbe potuto appartenere anche a sua madre, a suo padre, oppure a sorella, ma questa familiarità non diminuiva il fremito della materia, lo aumentava: che cos’era, in fondo, la familiarità, se non la condivisione sia pure imperfetta e parziale della sua materia? E se fosse stato suo? intendo, suo,in esclusiva? Al pensiero non riuscii a rimanere seduto, così, dopo aver ripiegato un altro paio di teli, dovetti girarle attorno con fare circospetto, ma pieno delle migliori intenzioni perché un conto è la memoria della materia, un altro il suo corpo. Mi fermai di fianco a lei.

“No” mi disse.

“Cosa significherebbe no, un altro sì?”

“No. No significa che devi dimostrare quel che ti meriti.”

“Ma cosa dici?”

Mi meritavo sicuramente un grande successo, quindi cosa avrei dovuto dimostrare? Il fondamento della mia convinzione, la mia fede ben strutturata?

“Sai benissimo che questo per me è lavoro. Oggi hai una giornata di ferie e vorresti che me la prendessi anch’io; solo che io non posso.”

“Avevi detto un’ora di lavoro.”

“Appunto, un’ora di lavoro.”

Mi ricomposi. Le diedi a vedere di essermi chetato, tornando sul divano a proseguire il lavoro accanto agli asciugamani, attività che aveva qualche vantaggio. Spingendomi in avanti verso il basso, infatti, mentre riponevo il telo che avevo piegato, potevo sbirciare fra i bottoni dello scamiciato che lei non aveva allacciato fino in fondo. Scrutavo la trama ocra resa più chiara dal sole, le gambe che si sfioravano mentre prendeva un altro capo dalla cesta di vimini. Lei guardava queste contorsioni con curiosità.

“Ma non avevi proprio niente da fare?”

“Certo che avevo qualcosa da fare. Lo sai che sono sempre occupato.”

“Il fatto è che anche oggi non avrò molto tempo. Dopo aver finito qui dovrò quasi subito rimettermi a studiare. Oggi non sono riuscita a combinare quasi niente.”

Una melodia già nota, eppure piena di mistero. Non “molto” tempo, ma un poco sì, forse quel tanto che ci permetterà di naufragare sul divano. La “o” di “oggi” sembrava così promettente e “combinare” era proprio quello che avevo in mente. In un certo senso, mi aveva quasi tolto le parole di bocca.

“Ti ricordi della piccola casa di legno vicino alla vecchia sede della biblioteca, in piena zona artigianale? Oggi ci sono passato per caso, tornando da un giro che avevo fatto fino alla cascata. Sulla destra c’era una selva di papaveri tale che mi sono immaginato l’effetto che potrebbe provocare caderci dentro.”

“Se vuoi uno di questi giorni ci andiamo” disse sovrappensiero, senza curarsi di avermi aperto nuove prospettive.

Squillò il cellulare. Lei andò a rispondere, e vedere il suo corpo attraversare la stanza mi colpì tanto da impedirmi di cogliere le prime battute della conversazione.

“Le hanno perso i campioni? deve fare di nuovo le analisi? E’ assurdo. E’ andata apposta in quel piccolo ospedale per un controllo, proprio perché sapeva che ci sarebbe stata poca gente.”

Si era lievemente seccata e mentre con una mano reggeva il telefono, con l’altra si grattava l’elastico del reggiseno.

“Va bene, meno male.”

Quel grattarsi protratto mi irretiva. Non l’avevo idealizzata, se vogliamo era la materia stessa che si idealizzava attraverso di lei (glielo avevo detto tante volte, ma non dovevo essere risultato molto persuasivo perché lei non se ne era ancora convinta). Ora era più serena.

“Ma comunque non si tratta di niente di grave, vero?”

La rassicurazione che arrivò subito la illuminò ulteriormente, anzi le attribuì una nuova forza illuminante. Sorrise un poco, poi si volse e mi guardò quasi felice.

“Beh, dai, sono contenta. Alla fine è andata bene.”

Mi alzai in piedi e le feci segno che mi sarei messo a stirare, per finire il lavoro più in fretta, ma lei me lo vietò perentoriamente. Mi allungai allora in una figura di danza. Ora mi trovavo davvero a mio agio. Pensai che quel ballo senza musica, tutto mentale, poteva perfezionarsi in una raffinata tecnica di seduzione, tutto un cerimoniale che poteva ricordare il corteggiamento messo in atto dai maschi di certe specie animali, perciò feci ancora un paio di figure.

La prima volta che ero uscito con lei l’avevo portata a vedere un film pieno di avventure, eccessivo (forse intuivo già come sarebbe andata fra noi, ma davvero allora il film mi interessava). Ci eravamo proprio divertiti. Al rientro, lei scese singolarmente in fretta dalla macchina, senza neanche darmi il tempo di slacciarmi la cintura per congedarla come si deve. Così non arrivai a baciarla: fuggendo via di corsa mi salutò con la mano e io le dissi che il giorno dopo avrei dovuto recuperare il terreno perduto. Le lanciai uno sguardo d’intesa cui rispose in modo del tutto convincente, rinviando i festeggiamenti al giorno dopo. Le diedi il primo bacio l’indomani, davanti alla porta d’ingresso di casa sua, in uno slancio del tutto benaugurante, mentre i suoi genitori parlavano alla sommità della scala.

“Fammi un piacere, rimettiti seduto. Anzi, hai visto, lì in fondo, quei ragazzi in bici?” stese la mano in avanti. Aveva sempre un gesto misurato, elegante.

Dalla finestra si vedevano il muro di cinta di un giardino e sulla destra due file di meli fra i quali correvano dei ragazzi.

“Perché non te ne vai con loro?”

In altre circostanze, mi sarebbe sembrata davvero una splendida idea, tanto piena di vita, ma ora la mia prospettiva aveva assunto una concretezza diversa, in cui lei giocava un ruolo centrale, perciò non potevo divagare in eccesso. Per intenderci, con un po’ di concentrazione sarei potuto arrivare ad avvertire la respirazione della sua pelle sotto lo scamiciato: ero già nel mezzo di un’avventura, non me ne serviva un’altra.

“Con te non c’è proprio niente da fare, vero?”

Certo che non c’era niente da fare. Cos’era la gloria se non questo erompere della materia nel processo che lei innescava nel corso del pomeriggio? Mi rimisi sul divano cercando qualche paio di calzini da piegare, tanto per recuperare un atteggiamento più gradito, ma più che altro per sintonizzarmi con la sua condizione. Voleva finire il lavoro? Bene, finiamo il lavoro. Voleva studiare? bene, che studi. Ma lei sapeva benissimo che fra queste due attività si sarebbero potute aprire miriadi di crepe, solchi, faglie, interstizi in cui mi sarei potuto inserire trovandomi del tutto a mio agio, e sapeva che si sarebbe trattato di intervalli temporali nei quali non avrebbe potuto, né voluto respingermi. Insomma, tutta questa lunga condotta circonlocutoria apparteneva al suo modo estremamente complicato di dirmi di sì, al suo modo di essere al mondo. Infatti, come dovesse confermare questi miei pensieri, si mise a guardarmi con una benevolenza più attiva, insinuante, che confermava il suo apprezzamento per i miei tentativi e mi incoraggiava a non desistere. Mi mostrò una polo verde che di solito indossava in piena estate, poi si mise a stirarla. Sembravano le manovre del personale di terra in un aeroporto. Potevo dunque atterrare?

Sul suo viso vedevo qualcosa di inevitabile, la confusione della materia, su cui si stendeva il mio desiderio. Mi alzai di nuovo in piedi, andai dietro di lei e la abbracciai. Un po’ a sorpresa lei appoggiò il ferro, girò in parte la testa verso di me e ricambiò. Tentai di tradurre il tutto in un linguaggio verbalmente comprensibile, con tutte le incertezze e le difficoltà che la traduzione comporta, ma lei arrivò prima e mi baciò di nuovo. Più che una magnifica conferma, si trattava di una vera confusione materiale, dove non c’era più alcun senso di appartenenza del proprio corpo. Mi identificavo del tutto in questa compenetrazione: del resto, il mio corpo era suo da tempo. Così, quando ci staccammo, fui colto da una breve sensazione di stordimento che in un istante colsi con soddisfazione anche in lei, visto che ero rimasto un po’ disorientato. Mi sembrò che questo senso di confidenza – quel condividere lo stordimento – aumentasse la nostra complicità. Potevamo davvero concludere il lavoro per il meglio. Finire di piegare la biancheria, riporre le camicie perfettamente stirate sul davanzale, in modo che si raffreddassero un poco. Tutto nel modo più esigente: erano oggetti che avevano assistito al nostro abbraccio, testimoni muti ma partecipi. “Dove finisce il tuo corpo?” stavo per dirle, ma mi fermai in tempo.

In effetti non avrei saputo dire dove finisse, dove fosse la giunzione fra ciò che era “lei” e ciò che la circondava: gli oggetti che toccava sembravano estensioni dei suoi tratti somatici. Da dove le veniva questo privilegio? Era tutta roba sua o c’entravo anch’io, almeno per aver inavvertitamente innescato il processo? Non potevo certo risalire l’innumerevole catena della divisione cellulare.

“Qui bisogna andare a fondo” le dissi, “Non vorrai mica lasciare una cosa a metà?”.

Non potevamo arrestarci per un improvviso desiderio di completezza che si era fatto largo anche in lei e che richiedeva una conclusione al modo in cui gli schemi simmetrici reclamano la loro seconda parte per un’evidente necessità di equilibrio. Dovevamo concludere, non si poteva venir meno a questo appello, del resto del tutto coerente con i principi della termodinamica.

“Abbiamo dei doveri da rispettare, non sei d’accordo?”

Dovevamo affrontare la nostra materia, andare a fondo. Lei spostò l’asse da stiro aprendo maggiormente il campo alla luce che entrava dalla finestra. Cominciammo a lavorarci.

E’ sempre più difficile capire dove si vuole andare a parare. E’ già abbastanza riuscire a intuirne la direzione. Del resto, il dovere è dovere.

“Mai viste camicie stirate meglio” disse infatti più tardi sua madre.

Fui perfettamente d’accordo.