La giocosa libertà del pensiero

Il gesto saggistico, par excellence, consiste nel ricondurre il lontano al vicino. Così, dopo aver declinato le caratteristiche del saggio in una prospettiva prevalentemente europea, nella nostra rubrica non poteva mancare un capitolo dedicato al nostro maestro partenopeo. Presentiamo I Saggi Inventati di Enrico De Vivo (QuiEdit, 2013), attraverso il commento (dallo spirito saggistico, ça va sans dire) di Antonio Devicienti. [S. C.]

Disegno di Giambattista Pittoni

«Verso la fine degli anni ’90 ero stato trasferito in una scuola media di un quartiere popolare di Torre Annunziata, in provincia di Napoli, per insegnare materie letterarie. Questa scuola aveva una caratteristica singolare, sorgeva sulle rovine di una antica villa romana degli scavi di Oplonti, e dall’alto dei finestroni dell’edificio scolastico, ogni mattina, percorrendo il lungo corridoio che portava alle aule, si poteva ammirare quel che rimaneva di colonne e stanze di un paio di millenni fa. Non era chiaro come fosse stato possibile costruire sopra delle rovine archeologiche, che, affacciandosi, si capiva ahe arrivavano a lambire le fondamenta stesse dell’edificio scolastico. Comunque, ogni mattina, prima di entrare in classe, lo sguardo cadeva immancabilmente su quelle pietre in basso ».

 Così si legge a pagina 7 dei Saggi inventati di Enrico De Vivo (QuiEdit, Verona e Bolzano, 2013) e, da quando ho letto questo racconto, continuo ad immaginarmi Enrico De Vivo attraversare con la sua borsa nella quale c’è sempre un nuovo libro da leggere il peristilio della Villa dei Papiri o quello della Casa dei Vettii prima di entrare in classe.

Ed è questa una fantasia che mi piace e sulla quale indugio volentieri, perché, a ben pensarci, ogni mattina noi insegnanti sbirciamo veramente dalle finestre del corridoio della scuola il cortile dello Stift di Tubinga dove ha studiato Hölderlin o la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza ancora in costruzione. Ecco: credo e spero che il buon contagio del fantasticare derivatomi dalla lettura del libro abbia afferrato anche me, dal momento che il genere saggistico cui si ascriverebbe  l’opera fin dal suo titolo dispiega qui tutte le sue peculiarità di arte, artigianato, affabulazione, flânerie intellettuale, fantasia, ironia. 

Infatti nel primo saggio, intitolato non a caso La scuola sulle rovine, Enrico racconta della sua esperienza di insegnante (ruolo che richiede grande umanità, tolleranza e comprensione) e di come abbia cominciato, nelle cosiddette “ore buche” a scuola, a prendere appunti e a porre per iscritto le sue riflessioni sullo Zibaldone leopardiano.

Lo Zibaldone mi dava l'(…..) impressione come di un’enciclopedia delle meraviglie, dove si passa da una riflessione all’altra, da una scienza all’altra, da uno stato d’animo all’altro, con una vaghezza singolare, ma senza alcuna superficialità o ansia, e soprattutto sempre in sereno e perfetto equilibrio (pag. 10). È questo l’atteggiamento che sottende tutto il libro, materiato di giocosa libertà del pensiero e di serissima attitudine critica, di puro piacere intellettuale e di totale partecipazione umana. E infatti leggendo i Saggi inventati si capisce molto dello spirito di Zibaldoni, la rivista online che Enrico cura con amore artigianale (e, lo si sarà ormai compreso, quest’aggettivo è da considerarsi titolo di merito) assieme ad un gruppo d’intellettuali e scrittori totalmente allergici ai giochi di potere che si consumano all’interno dello spesso provinciale ed asfittico mondo culturale italiano. Zibaldoni possiede infatti la versatilità, il gusto per il serissimo giuoco del pensiero, l’apertura alle proposte più diverse (purché convincenti e meditate) che sono tre assi portanti lungo i quali si muove anche il libro, la cui bellezza risiede anche nella sua anti-accademicità (credo non programmata, ma che scaturisce tuttavia spontanea e al contempo logica), nel suo scegliersi saggi talvolta inventati. Veniamo così a spiegare il titolo, cosa che Enrico fa nella Premessa: il termine saggio può riferirsi e ad una persona e ad un genere specifico di scrittura; inventato è poi, di volta in volta, il saggio in quanto persona scelta da De Vivo (quindi inventato a se stesso) come riferimento o motore per avviare una riflessione, oppure il testo scritto che vale in quanto inventio, recuperando così il piacere del testo che cerca e trova l’equilibrio tra le pulsioni della fantasia ed il rigore critico. In tal senso trovo originale la lunga citazione da Roberto De Simone, maestro della musica e del teatro mai abbastanza apprezzato in Italia. Le riflessioni di un suo personaggio sulla miseria “artistica” di Napoli e su quella “vera” avviano il saggio Letteratura come imbroglio, perché anche la “napoletanità” è ormai mercificata e distorta, artefatta, congegnata in una serie di clichés da vendere ai turisti e a tutti coloro che accettano passivamente una certa immagine della città.

La narrativa di Gianni Celati, in particolare la trilogia Costumi degli Italiani, sottentra poi a far da stimolo alla riflessione sul narrare e sul fantasticare, risultando proprio Celati una delle guide sapienti dei saggi non inventati da Enrico, ma che hanno inventato Enrico, com’è detto nella già citata  Premessa, dal momento che, coerentemente con un habitus mentale che rifiuta dogmatismi e professoralità più o meno conclamate, ognuno di noi inventa persone e situazioni e nello stesso tempo viene inventato da persone e situazioni.

In questo senso, De Vivo sviluppa la sua critica nei confronti dell’atteggiamento largamente diffuso nella nostra società di voler conoscere “la verità”, a scapito dell'”arte dell’imbroglio” e della “memoria truffaldina”, là dove tali concetti non hanno alcuna implicazione moralistica, ma definiscono atti ed atteggiamenti tesi a cogliere le molteplici dimensioni della realtà, a rendersi protagonisti di quella stessa realtà, mentre  il voler conoscere ad ogni costo la “verità” (sull’11 settembre, sul successo politico di Berlusconi e simili) e la relativa massiccia produzione saggistica o pseudosaggistica vogliono imporre un’unidimensionalità delle prospettive che ha l’obiettivo di controllare le opinioni e le coscienze. È in questo senso che De Vivo scrive che Gomorra di Roberto Saviano ed Il signore degli anelli non incantano per niente il lettore, piuttosto lo stordiscono come una droga sintetica, al fine di risucchiarlo in un dispositivo di controllo della sua mente e della sua vita, previsto ed organizzato da tutt’altri che dallo scrittore medesimo (pag. 26).

Si respira così una libertà in questo libro rara, dono anche di un pensiero che si rifà alla grande tradizione partenopea e meridionale, a quella stessa cultura che negli ultimi decenni è andata malauguratamente ridimensionandosi e che perdura tenace nelle letture e nelle riflessioni di persone come Enrico De Vivo. Ma attenzione: non è da intendersi tale appartenenza quale un rinchiudersi in un recinto da contrapporre a quello, diciamo, milanese-lombardo (sarebbe cosa triste, ottusa, passatista e provincialissima), ma quale fedeltà ad una storia, ad una tradizione di ricerca e di studi, ad un’eredità che ha radici e ragioni ben precise. Mi rende allora felice constatare che Enrico citi Bruno, Basile e Vico, discutendone la sapienza affabulatoria ed inventiva, capace cioè di invenire (trovare) immagini, favole, racconti che sanno spiegare noi e il nostro passato, che non hanno nulla della fredda e rigida razionalità filosofica mitteleuropea (e protestante?), ma che partecipano della teatralità e del fantasticare mediterranei.

Così mi abbandono alla meraviglia di attraversare il saggio dedicato ad Averroè (Pensare nelle immagini) e il successivo a Vico (Creare i miti per spiegare i miti) che mi sembrano due chiavi di volta originalissime dell’intero libro. Parlo di meraviglia, ma aggiungo anche felicità, perché queste pagine sono liberatorie e libertarie, propugnano l’idea (sulla scia di Averroè) di un intelletto non individuale, ma trascendente l’individuo, quindi capace di creare un luogo all’interno del quale ognuno di noi abita ed ha diritto di cittadinanza, dove viene dispiegata l’umanità del singolo che si riconosce appartenente ad una comunità e all’interno della quale sempre il singolo impiega il suo personale fantasticare per attuare quel pensiero che lo trascende e che lo accomuna a tutti i suoi simili. Il fantasticare, che trova poi in Vico e di nuovo nella narrativa di Gianni Celati ulteriore forza conoscitiva e creativa, non ha nulla d’improvvisato o di approssimativo, ma rompe il cerchio concentrazionario che anche la cultura apparentemente democratica del capitalismo ha costruito e pervicacemente consolida. Nel mondo odierno la fantasia è sminuita e ridicolizzata, controllata, relativa per lo più all’infanzia che gli adulti hanno in mente, fatta quindi di creatività ragionata, indirizzata, produttiva, ecc., è un triste ghetto nel quale, come perfetti turisti, anche gli adulti possono rifugiarsi quando occorre, cioè per passatempo o per evasione dalla realtà (pag. 52): Vico e Celati e, nel saggio Se Dio non è morto, Agamben (che riflette sul concetto di profanazione nel mondo contemporaneo) concettualizzano e danno ragione proprio di questo émpito che, traverso il fantasticare, conduce all’emancipazione dell’individuo e alla sua liberazione. Elevandosi infatti a religione, l’unica e vera al di là delle varie petizioni di principio, il capitalismo ha istituito l’Improfanabile quale proprio rito celebrativo (l’Improfanabile è, ad esempio, il fenomeno del turismo di massa, l’esposizione alle telecamere del corpo di Papa Wojtila, il sorriso di certi politici che deve e vuole nascondere il dolore, è il mito inviolabile della produttività, dello sviluppo economico illimitato, tutti momenti nei quali viene attuato un cupo, vorace controllo delle coscienze, escludendo il gioco e lo sberleffo, diffondendo e rafforzando il senso di colpa, sottraendo all’individuo il dominio sul proprio tempo personale). Ecco allora che figure mitologiche (la vecchia Baubò del mito di Demetra) o l’angelo Damiel del Cielo sopra Berlino o intellettuali come Walter Benjamin, Robert Walser, Arno Schmidt, Massimo Rizzante e, ovviamente, Leopardi vengono chiamati in causa da De Vivo per mutuare da loro i mezzi con i quali scardinare l’onnipresente e pervasivo dominio del capitale, rifiutare la letteratura che si allontana dall’idea della morte (pag. 123) e l’invasione massificante dei libri scritti in un angoscioso e anodino bianco e nero (pag. 126).

La prosa di Robert Walser, esaltata nel saggio Accalorarsi in silenzio, capace di restituire con naturalezza aspetti minimi o inapparenti della realtà, irraggiante la gioia incandescente dello scrivere pur entro un raccolto silenzio, dentro una concentrazione che vuol cogliere le mille sfaccettature della realtà, questa prosa, dicevo, risulta esemplare di una ricerca sia intellettuale che artistica al di fuori delle mode e dell’appiattimento globale.

Se Massimo Rizzante invita ad un salutare isolamento per poter meglio cogliere nella propria scrittura la profondità del reale, Arno Schmidt offre abbondantissima materia per uno studio dell’ipertrofia letteraria, della maniacalità scrittoria, ancora Celati porta a riflettere sulla necessaria e in larga misura perduta gratuità dello scrivere.

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Ma è il piacere, forse, uno dei temi fondanti del libro di De Vivo, il piacere liberatorio, non quello soggetto alle leggi del mercato, non quello prefabbricato e confezionato per masse sterminate, ma il piacere anche eversivo dell’immaginare, del fantasticare, il piacere dello sberleffo e quello dell’osceno in quanto profanatorio (se esiste la possibilità di profanare esiste anche il sacro, quindi la potenza dell’Improfanabile di cui si parlava in precedenza elimina il sacro, istituendo una religione totalitaria e totalizzante, appiattente e lugubre, una religione senza il sacro). Questo tipo di  piacere può essere presente anche nel lavoro degli insegnanti e dei loro allievi (molte e bellissime le riflessioni dedicate alla scuola), là dove, tra le mura di un’aula, la parola e l’immaginazione liberano l’umanità comune di cui tutti siamo partecipi (straordinario trovo il concetto di comunità esaltato da Enrico nel suo libro, di appartenenza ad una comunità e di partecipazione alla vita della comunità, e affermo questo a ragion veduta in un momento storico e in un Paese che sembra aver perso il concetto e il valore di vita comune e quello di individuo che gratuitamente mette a disposizione di tutti la propria sofìa che può essere di volta in volta l’esperienza di persona, i saperi artigianali, la cultura). In una linea ininterrotta di filiazione greca, italica, araba, medioevale, rinascimentale, barocca, illuminista (e penserei qui, soprattutto, al cosiddetto illuminismo napoletano), leopardiana, risorgimentale, il fare scuola e cultura ha il suo epicentro in questa consapevolezza di contribuire al progresso comune, di attuare una saggezza capace di nutrirsi della vita della strada e del quartiere, della città e della campagna, non dimentica del passato, cosciente del dolore e della morte consustanziali all’esistere stesso, capace di ironia, in grado di scorgere anche il lato ridicolo delle questioni più serie, rigorosa e giocosa nello stesso tempo, non seriosa e non ammantata di accademismo, capace di dare gioia, piacere, appunto.

Inizia con un’esperienza scolastica e finisce con un nuovo riferimento alla scuola il libro e più precisamente con la trascrizione di note in condotta dai registri di classe di alcune scuole campane. L’autore spiega a chiare lettere che l’esperienza sottesa alla trascrizione di tali note è liberatoria, le note stesse testimoniano di una scuola non teorica, non ingabbiata, come la si vorrebbe, da un’astratta sapienza tecnopedagogica (pag. 131), ma fatta di corpi e di menti agenti, insofferenti, sia per quanto riguarda gli allievi che gli insegnanti, alle mille costrizioni e alla soffocante burocrazia che cercano di conculcare il desiderio di libertà espresso, magari in maniera disordinata o impulsiva, dagli alunni più “indisciplinati”.

Ed anch’io, caro Enrico, seguendo la geniale idea di Massimo Rizzante nella lettera premessa al tuo volume, ho immaginato il Gobbo Divino e l’Arso Vivo e il Giambattista Furioso accoglierci nel bel giardino sul fianco del Vesuvio e stavolta c’erano anche Pietro Giannone ed Eleonora Fonseca Pimentel, Mario Pagano e Renato Caccioppoli, Carlo Cafiero, Vittore Fiore e Fabrizia Ramondino; con me avevo portato almeno un paio di libri di Ermanno Rea e di Franco Arminio e qualche cd di Daniele Sepe. E continuo ad immaginare che altri amici si uniscano alla compagnia, portando ognuno con sé dei libri, dei dischi, magari giochi di quand’era bambino e facendosi accompagnare da persone care defunte che, gioiose e vivaci, gli abitano la mente, permettendogli a sua volta di venire inventato attimo dopo attimo, ricordo dopo ricordo, pagina dopo pagina, respiro dopo respiro.

  • [Questo testo è stato pubblicato in versione leggermente diversa su VIA LEPSIUS]