Sibber

di in: De libris

È uscito da pochi giorni presso l’editore Effigie di Milano un romanzo scritto da uno dei nostri redattori. Si tratta di Sibber di Walter Nardon. Riprendiamo parte del risvolto di copertina: “Il narratore, un uomo ’che si butta via’, frequenta un’associazione culturale. Nel corso di una riunione chiede un favore a un socio di mezza età di nome Sibber: dovrà camminare davanti a lui portando una valigia. […] Sulle prime diffidente, Sibber infine accetta la proposta e il trasporto della valigia attraverso la piazza principale della città ha luogo in un momento memorabile, sotto gli occhi di altri soci. Il narratore si chiede quindi come sia possibile ricompensare l’uomo che lo ha messo in mezzo al segreto della materia e affronta così una serie di avventure nel tentativo di trovare il modo giusto di ringraziare Sibber, sempre più convinto che alcuni gesti e alcune abitudini di quest’uomo riescano a garantire la realtà di ciò che altrimenti sembrerebbe sul punto di risultare sconcertante.”

Anticipiamo un breve brano da Sibber di Walter Nardon (N. d. R.)

 

 

III.

 

Arrivato al bar in cui dovevamo vederci, lo dissi subito a Helga. Devo confessare che mi piaceva l’idea di noi due a braccetto dietro Sibber che camminava con la valigia, ma nel contempo, non so per quale motivo (forse per farlo sentire a suo agio), mi sembrava chiaro che avrei dovuto portare qualcosa anch’io. Avevo bisogno di mandarlo avanti da solo, di capire la portata dell’esperimento, mentre io e Helga ce ne saremmo rimasti al caldo, stretti ad osservarlo. Lei era molto contenta della mia idea. Devo dire che è davvero la compagna ideale per le grandi avventure. Dopo i primi due nostri incontri in un bar – solo per prendere un caffè –  avevo capito che potevo entrare in una relazione davvero intima con lei. A vederla, mi sembrava portasse addosso l’immagine della salute, tanto che spesso al suo solo apparire mi sentivo meglio, e non sto parlando dell’umore, ma proprio del mio corpo. In un certo senso, stare con lei mi arricchiva fisicamente. E’ quel tipo di donna che in fondo, per ciò che porta dentro di sé – oltre all’apparenza eloquente – non ci si può impedire di sognare. Custodisce in sé i segreti di un’intimità sbalorditiva. Se non la vedevo, dopo il lavoro impiegatizio in cui mi ero temporaneamente impegnato, me ne andavo un po’ in giro per la città fino al parco, dove restavo  a guardare gli uccelli o a cercare un profilo nel cielo. Non che non avessi altro da fare, ma era un’altra tappa, un altro modo per buttarmi via. Ci vedevamo due, tre volte in settimana.

A pensarci, era da un bel po’ che non mi dedicavo ad uno studio serio come quello di Sibber. E’ proprio su casi come questi che i ricercatori dovrebbero scrivere, è qui che si avverte maggiormente una lacuna negli studi. Invece, per quanto uno si guardi attorno, non trova niente. C’era, in lui, sepolta sotto le sue abitudini difensive, un’indubbia vitalità pronta a rivelarsi. Il suo riferimento ai sicari e al cinema americano la annunciava, lasciando trasparire una questione che andava senz’altro sviluppata. Purtroppo, però, non è che potessi dedicarci molto tempo, preso com’ero dal lavoro (la mia posizione di segretario a tempo determinato non era dovuta ad una circostanza fortuita, era nata proprio in ragione di un’esigenza improvvisa dell’azienda), ma sapevo che non dovevo mollare la presa.

La seduta successiva dell’associazione, dopo le relazioni sull’andamento dell’attività, cercai attentamente di non urtarlo in alcun modo. Gli rivolsi solo un saluto ed alcune considerazioni di circostanza, badando bene, però, a lasciarlo con un accenno al nostro accordo al quale lui rispose con un’espressione che mostrava fiducia, percorsa però da una sottile inquietudine che avrei voluto placare. Sibber era impagabile.

In quei giorni Helga aveva organizzato un pic-nic in un’area verde fuori città, in una zona peraltro di solito molto ventosa. Non ero tanto in vena di passeggiate, ma non avevo fatto alcuna obiezione, anzi, mi piaceva questa comunanza con la natura (io ed Helga sulla tovaglia a fiori a rotolarci nell’erba). In fondo, si trattava di un’esperienza sempre appagante, la celebrazione di un accordo segreto con l’ambiente montano. Dopo essere rimasti per un bel po’ sdraiati a prendere il sole, ci stavamo preparando per tornare in città quando, d’un tratto, sul viottolo in fondo al prato, vedemmo spuntare la moglie di Sibber che portava a spasso il cane. Eravamo ancora lontani, e – mi dissi – non troppo riconoscibili, per cui cercammo di fare come niente fosse, affrettando però i nostri preparativi per il rientro per osservare i due prima che scomparissero dal nostro sguardo. Il cane di Sibber, un bassotto, aveva un’andatura che in più punti ricordava quella del padrone. Certo, era meno rivelatrice, ma consentiva di comprendere lo sforzo quotidiano dell’andare avanti come poche altre immagini. Aveva anzi una tale dignità onesta e dimessa che lo faceva apparire nobile, più della sua padrona, sempre intenta a mostrarsi all’altezza della situazione. Per lui, come per Sibber, non esisteva una “situazione”, ma solo il progressivo venire in luce di una materia oscura che si animava.

 

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