La prima volta che ho partecipato a una graduation

di in: Le prime volte

Ero direttamente coinvolta perché sul palco delle onorificenze, da lì a poco, sarebbe salita mia figlia.

“Dio, una noia mortale…”, mi aveva detto qualcuno di tutta la cerimonia. E io avevo pensato: Ma come! È la fine di un ciclo, se mia figlia fosse alla scuola americana sarebbe il suo ultimo anno, poi andrebbe a un college, lontano da casa e comincerebbe la sua vita adulta. A sedici anni. È un momento topico, un passaggio, un rito di trasformazione che sancisce il lasciarsi alle spalle lo stato di prima e che ti avanza verso quello di poi, altro che noia mortale!”.

E quindi me ne stavo buona buona, persa in una delle file centrali della grande sala azzurrognola dove si svolgeva la cerimonia. Avevo in mano una macchina fotografica e scattavo intorno, a caso, per prendere le facce di quelli che, anche loro, erano lì a testimoniare e condividere questo passaggio.

Certo, per me non era proprio così netto. Mia figlia, facendo una scuola internazionale, aveva ancora un altro anno, in realtà. Ma in qualche modo sentivo anche io l’importanza dell’evento e partecipavo pienamente agli occhi accesi, le facce ansiose, il busto che si divincolava sulla sedia degli altri genitori. E parenti. E amici. Molti dei ragazzi che sarebbero saliti sul palco avevano una vera e propria claque a fare il tifo, nella platea, e io ho pensato che avrei dovuto battere le mani almeno per dieci, per festeggiare degnamente la mia prole.

Poi sono arrivati i discorsi. Un ragazzo simpatico ha introdotto la serata, andando a braccio, lo sguardo deciso, un po’ di commenti per far rilassare la platea, un paio di ricordi per farla commuovere, una battuta scaltra per stupire, poi un finale esaltante per elevarla e farla essere fiera di essere lì, quella sera, a quell’evento. Il ragazzo era francese, credo, ma lo stile oratorio era tipicamente, efficacemente, americano.

I discorsi a seguire avevano più o meno la stessa struttura ma con esiti vari, a seconda dello speaker; ce n’è stato uno formale e lungo, poi uno vivace e breve, poi uno pedante e infinito, poi uno serioso e soporifero, poi uno patriottico e roboante e poi di nuovo quello del maestro di cerimonie simpatico.

Stavo per chiamare le mie amiche per scusarmi: “avete ragione, perdono per aver criticato mentalmente il vostro sfogo… è davvero una noia mortale. Voglio suicidarmi… aiuto!”

Poi sono entrati i candidati. Tutti avvolti nelle loro toghe azzurre si sono accomodati un po’ frementi e ridacchianti in un vasto angolo della sala destinato a loro. E sono iniziate le premiazioni. I signori che avevano fatto i discorsi si sono alternati nel recitare lunghi elenchi di meriti, chi si era distinto in questo e chi si era distinto in quello, e poi hanno cominciato a chiamare i ragazzi sul palco per ricevere il premio del merito che gli era stato attribuito. “Oddio, ma non finiremo più!”, ho pensato io. Credevo si trattasse di ricevere un “complimenti, ragazzi!” dal rettore, lanciare il cappello in aria e tornare a casa… e invece qui rischia che ci schiacciamo tutta la serata!

Quando, con mia grande sorpresa, il nome di mia figlia si è alzato attraverso il microfono su tutta la sala. Una volta, due volte, tre volte, quattro volte… ma per quante cose si era distinta? E io che non ne sapevo niente…

“Deve essere così fiera di lei…”, mi ha detto il mio vicino di poltrona, voltandosi verso di me, e io ho sentito una vampa di calore stringersi intorno ai sentimenti e ai ricordi, avvilupparsi su ogni idea e fuoriuscire in un banale “sì, lo sono” che attraverso il rossore delle guance vibrava convinto.

I più bravi in storia, i più bravi in matematica, i più bravi in informatica, i più coinvolti nel servizio per la comunità, quelli che avevano inventato la radio della scuola, quelli che avevano fondato un club di discussione politica, quelli che facevano volontariato all’estero… tutti quelli che erano menzionati, via via, salivano sul palco e ricevevano dei diplomi, poi tornavano nell’angolo di sala con gli altri a schernirsi e scherzare.

Io, gongolante sulla mia sedia, pensavo “ma come… già finito?” e non avevo più voglia di andare via.

Poi il rettore, o non ricordo più chi, ha detto che noi avevamo celebrato i ragazzi e che adesso era il loro turno di mostrare il loro apprezzamento per coloro che avevano reso possibile questo momento: noi genitori. I ragazzi si sono alzati tutti insieme, si sono voltati verso di noi sono partiti con un fragoroso applauso.

Sarà stato il caldo della vampa, sarà stata l’attesa, l’azzurro intenso delle pareti, le facce sorridenti dei ragazzi o la consapevolezza improvvisa di tutti gli anni di sforzi che ci avevano portati a quel momento (compresa la tortura dei discorsi di poco prima), ma mi sono commossa davvero.

Il rettore, o chiunque fosse, ha poi chiamato a gran voce i ragazzi e gli ha detto che adesso avevano il diritto a spostare la nappa del loro cappello da un lato all’altro, a simbolo della conclusione del loro primo ciclo di studi. I ragazzi lo hanno fatto, lui li ha dichiarati “diplomati” e a quel punto, tutti insieme, i ragazzi hanno lanciato i cappelli in aria con un grande, liberatorio boato.

Io tremavo e urlavo dentro, con loro. Avrei voluto abbracciarli tutti, abbracciare tutti i genitori nella sala, e anche il rettore, i docenti pallosi, il ragazzo simpatico, tutti. I cappelli sono ricaduti in giro, sparpagliati. I ragazzi, ridendo, li hanno raccolti a casaccio, scambiandoli, e poi hanno cominciato a sciamare via.

“Arrivederci, e congratulazioni”, ho detto al mio vicino di sedia, che se ne stava andando insieme alla sua famiglia.

E poi sono andata a riprendere mia figlia.

E mentre camminavo ha cominciato a svaporarmi la commozione e ho iniziato ad analizzare la mia soddisfazione. Pensavo a com’è perfetto, a com’è ben congegnato il meccanismo dell’incitamento qui in America. A quanto si celebra sempre, in ogni campo, chi si è distinto, anche solo un pochino.

Ho ripensato alla mentalità in mezzo alla quale ero cresciuta io: la modestia come virtù, l’understatement, gli ultimi saranno i primi, la compassione per chi non ce la fa, il sei politico, se sei bello ti tirano le pietre…

Sempre schivi a fare bene nell’ombra, dovevamo stare, sperando almeno di non essere bersaglio di chi nell’ombra faceva addirittura il male.

E qui… tutto celebrato, festeggiato, messo in luce e portato in alto. Il primato, l’obiettivo raggiunto, la superiorità sugli altri.

Mi era più chiaro tutto, sentivo di aver messo a fuoco come la mentalità meritocratica ma anche spietata degli Stati Uniti si originava dal basso, nel piccolo, fin dai tempi della scuola. L’idea che essere vincenti è un bene assoluto. Chiunque ce la può fare, è solo questione di impegno. Il che magari non è vero al 100%, perché anche qui ci sono sacche di povertà e ignoranza, scuole che non funzionano, bambini che fanno fatica a seguire le lezioni perché hanno il vuoto dentro dello stomaco che gli risucchia l’attenzione. Ma lo spirito del paese, quello che la gente si racconta ad ogni occasione è la storia del successo, del chi ce l’ha fatta e perché. E la meritocrazia è sicuramente un meccanismo che gira infinitamente più libero che da noi.

Mentre camminavo nella hall mi sentivo un po’ stordita da queste considerazioni, come sempre mi accade quando i contrasti fra i due Paesi mi tirano l’anima un po’ in qua e un po’ in là. Li sentivo litigare nella mia testa, per tentare di dimostrare l’uno all’altro la giustezza del loro sistema.

Poi ho visto mia figlia, ho detto ai due Paesi di non rompere le scatole e sono andata ad abbracciarla.