Su Michele Mari

di in: Captaplano

La parabola letteraria di Michele Mari data ormai a un quarto di secolo ed ha al suo centro, a nostro giudizio anche quale acme di riuscita, libri come Euridice aveva un cane, Tu, sanguinosa infanzia, Rondini sul filo, mentre gli esordi potrebbero ricollegarsi a quest’ultimo Roderick Duddle (Einaudi 2014). Allora la ripresa, sentimentale e solo in parte parodica, dei grandi romanzi ottocenteschi di genere gotico e di mare, ora di quello d’avventura. L’orfano, riconoscibile per un medaglione, che patisce ed eredita dopo mille raggiri legali e che, come si faceva un tempo, dà il titolo all’opera, è stato subito sgamato come dickensiano, ma anche i personaggi minori – Pip, Bones, Jack, Jones, Lennie – hanno nomi evocanti ed omaggianti Melville, Stevenson, Fielding, Faulkner. La trama poi, tutta intreccio, divagazioni e ripetuti colpi di scena, chiusa in un fazzoletto di terra britannica continuamente arato dai personaggi e simile a una scacchiera, fa venire alla mente la geografia applicata alla letteratura di Franco Moretti, che qui potrebbe impazzire a furia di frecce e grafici.

A contendersi il piccolo bastardo, figlio di figlia illegittima finita prostituta ma legittimo erede, sono due poteri rivali e conniventi, incarnati dalla Badessa e dal taverniere, dal convento e dal lupanare. Si tratta di un incessante scambiarsi di colpi, reso in capitoletti che troncano e incitano il fiato del lettore (spesso aiutato con brevi ricapitolazioni e direttamente apostrofato), nel quale una folla di comprimari via via si va diradando attraverso numerose, fantasiose quanto macabre morti. Siamo qui del tutto in gara con il più truculento del thriller americani. Il gioco regge splendidamente nella prima parte del romanzo, un po’ stanca nella seconda e l’autore deve introdurre il diversivo di nuovi personaggi e nuovi doppi (il vagheggino La Fayette, anch’egli illegittimo ma ugualmente titolato a incamerare la proprietà Pemberton) ed anche forare la claustrofobia terrestre per una grande apertura d’orizzonti con parentesi d’imbarco sull’oceano.

I personaggi non hanno però lo spessore che nel migliore ottocento stava insieme alla trama di fughe e inseguimenti, piani e contropiani; sono vere funzioni dell’intreccio, mossi, come pedine, dalla mano omicida dell’autore e dalle loro divoranti pulsioni: l’avidità, la supremazia, la lussuria. “Jones, dunque, sapeva chi aveva il medaglione, ma non aveva la minima idea dei motivi che lo rendevano così prezioso agli occhi della Badessa; la Badessa, per contro, conosceva esattamente il valore di quell’oggetto, ma non sapeva chi lo avesse; entrambi, in ogni caso, ignoravano dove si trovasse il suo possessore.” (p. 35). In questo senso retrocediamo al romanzo del settecento, al genere, al rifacimento (come nel penultimo Fantasmagonia) o  alla moralità; tutto ciò ovviamente per scelta, dato che i pochi affondi offrono una misura alternativa: “Interessante, pensò Havelock, per la semplice ragione che non ad altro tendeva il suo maniacale ed agonistico rapporto con le scartoffie se non a intuire, sfiorandola, la vita” (p. 211); “lei aveva bisogno di qualcosa di forte, aveva bisogno di sconvolgere la vita altrui con la violenza di una valanga e l’ardore di un incendio. Questo era il potere: vederne i segni, misurarlo sulla base dell’eccitazione o del raccapriccio delle sue vittime, declinarlo nella propria carne come scandalo” (p. 440). Semmai si stagliano un poco più, prendendo campo, i minorati fisici (il doppio muto di Roderick) o mentali (il gigantesco Lennie) e soprattutto i cari mostri di cui i romanzi di Mari sono disseminati: il micidiale sicario detto il Probo – “Cosa avesse prodotto la sua anomalia non era dato sapere: sta di fatto che la levatrice, inorridita, si trovò tra le braccia un esserino la cui faccia ricordava molto da vicino quella di un elefante in miniatura” (p. 88) -; l’intellettuale lasciva suor Allison, un irresistibile ermafrodito, “un abominevole mostro di natura” (p. 149).

Quanto alla scrittura, sempre elegante, ha abbandonato ormai da diverse prove, l’oltranza linguistica, ripulendo in gran parte il lessico dagli arcaismi. Resta traccia dell’antico amore per gli elenchi (“stoviglie, indumenti, avanzi di cibo, canapi, lame, lenze, galleggianti, ami, reti, barattoli di pece, cavicchi, mazzuoli, legnetti incatramati” p. 42) e si dichiara la nobiltà del tecnicismo (“l’amorevolezza tecnica” p. 275), dimostrato con orgoglio in ambito marinaresco: “Tecnicamente non poteva essere considerato né una goletta né un brigantino: aveva infatti solo due alberi, anche se uno sguardo distratto ne esibiva tre. L’illusione si doveva al fatto che il trinchetto, più basso del normale, non era propriamente un trinchetto, fungendo solo da caposagola e da testa di leva per l’alaggio e il tonneggio, mentre il fiocco, incredibilmente, partiva dal primo pennone dell’albero maestro” (p. 270). Del Mari, a cui i lettori sono affezionati si ritrova anche nei personaggi più abbietti la mania della dispositio: “Così Salamoia aveva fatto di necessità virtù, e sfruttando la notevole quantità di scarafaggi si era inventato quel gioco: gioco invero miserrimo e disgustoso, ma, in quanto portatore di un principio d’ordine nell’insensato caos della vita, non del tutto esente da ciò che potremmo definire come edificazione.” (p. 182). Partire ed ordinare è una pulsione incessante quasi masochistica, condivisa dai due giovani protagonisti, il vero Roderick (“aveva messo a punto una specie di gioco, consistente nel dividere gli uomini dell’equipaggio in gruppi sempre cangianti. Poteva ripartirli secondo l’età, o la parlata, o questa o quella caratteristica fisica; o in base al numero medio di bestemmie giornaliere, al numero di cicatrici o di tatuaggi o di orecchini; o inventarsi qualsiasi altro criterio.” p. 328) ed il sostituto inventato dalla Badessa: “Rimasto solo, Peabody si guardò intorno. Una stanza maledettamente ordinata. Gli ricordava la sua, quando passava le giornate ad allineare le proprie cose in modo maniacale, perché tutto fosse all’altezza di quella che sua padre chiamava l’ispezione.” (p. 98). Così pur in un’opera decisamente costruita, nella quale, come mai prima in Mari, regna il plot accumulatorio e divagante, centro occulto è ancora l’autore da fanciullo, che apre e chiude il romanzo, da prima sprofondandovi suo malgrado, per non volerne infine più uscire. Lascito fondamentale di uno tra i più liberi e integralmente consustanziati di letteratura tra i nostri scrittori.