La prima volta che ho partecipato
a un Mother-Daughter event

di in: Le prime volte

Ero l’unica mamma, all’“Evento mamme e figlie”,  a non avere una figlia con me. L’evento in questione, a cui una signora aveva invitato mezza scuola della sua creatura, era la presentazione del libro di un’amica che parlava di una dodicenne a cui era morta la mamma. Nella bella casa della signora si sfilava dentro l’ingresso elegante a due a due. Molte mamme con accanto le loro ragazzine vestite a festa così come le ragazzine americane, almeno le più piccole, intendono la cosa e cioè con vestitini bamboleschi, scarpe col tacchetto, lustrini, fermagli per capelli, tulle e quant’altro serve per giocare a essersi vestite a festa. Alcune mamme con ragazzine scontrose, magrissime e imbronciate, vestite di un casual triste, altre con ragazzine sportive con l’aria di essere tutte campionesse in qualche disciplina: muscoletti in evidenza e sorrisi sani.

Io, invitata da un’amica ancora non pervenuta all’evento, sono entrata da sola e mi sono chiesta se avrei almeno potuto provarci a proporre di venire con me alla mia dodicenne un po’ pigra e totalmente presa dalle sue quotidiane epopee sull’amicizia. Ho immaginato di aprire la porta della sua cameretta perennemente chiusa, di porle la domanda, di vedere il suo viso sorpreso alzarsi dallo schermo del telefonino. “Evento madri e figlie? Un libro sulla mamma morta?”… Ho richiuso mentalmente quella porta e mi sono fatta coraggio, ho salutato: “mia figlia non è potuta venire, che peccato”, e mi sono accomodata nell’accogliente salotto ad ascoltare la presentazione. La scrittrice, con quell’aria serena e sicura di sé che hanno sempre gli scrittori da queste parti, ha esposto graziosamente e con leggerezza il contenuto del suo libro e le motivazioni per cui l’aveva scritto.

Le mamme e le loro figlie ascoltavano composte e attente, con una leggera vibrazione di tensione nell’aria che non capivo da dove venisse. Che l’argomento fosse interessante era fuor di dubbio. La storia, ambientata fittiziamente nella scuola frequentata realmente dalle ragazzine, parlava di un evento che sarebbe potuto capitare, o era già capitato, ad ognuna di loro: sentirsi rifiutate dall’ambiente circostante. Il fatto che il rifiuto venisse dall’evento a loro estraneo di essere diventate orfane non toglieva appeal alla questione. Anzi. Ma non era solo interesse, quello che percepivo. C’era un movimento mentale che creava onde silenziose e lunghe tutto intorno alla stanza. Non era nemmeno il disagio di essere lì, insieme alla mamma come brave bimbette ammaestrate la causa della tensione. Lo sarebbe stato in Italia, sicuro, ma non lì. Lì ogni ragazzina sembrava consapevole di star svolgendo un’attività già contemplata nella sua esistenza di figlia. Un’attività che, del resto, aveva un suo nome e un suo rituale prestabilito. “Evento madre e figlia”. Non c’è bisogno di porsi domande quando si viene portate a un evento che ha un nome così…

La spiegazione alla tensione mi è venuta alla fine della presentazione, quando la mia amica perennemente in ritardo, con la sua figlia simpatica accanto, sono entrate scusandosi nella stanza. La padrona di casa e la scrittrice le hanno benignamente dispensate dalle scuse e hanno proseguito con la fase successiva dell’evento: le domande del pubblico. Allora ho capito che quella leggera tensione che aleggiava intorno alle parole ben scelte della scrittrice e alle facce interessate del pubblico era una piccola ansia da prestazione: le ragazzine si stavano caricando per sparare le loro domande. E ne avevano, con mia sorpresa, di interessanti e ben esposte. Quasi tutte, a parte quelle coi vestiti tristi che penzolavano dai corpi troppo magri, sferravano gioiosamente le loro domande, con linguaggio appropriato e atteggiamento intelligente e rispettoso. Magari erano domande semplici, che ci stavano bene anche quelle vista l’età delle bimbe. E dopo ogni domanda la madre della ragazza che aveva parlato sorrideva soddisfatta prima ancora che la scrittrice rispondesse. Del resto anche io lo avrei fatto se mia figlia fosse intervenuta nella discussione. Avrei gongolato della sua buona educazione, della sua intelligenza, del suo buon carattere – evidenziato dal fatto stesso di essere lì a fare domande.

Sono rimasta fino alla fine, ovviamente, continuando a osservare il modo tipicamente leggero e scherzoso con cui gli americani riescono a gestire gli eventi, da quelli più impegnativi a quelli più piccoli, e li ho ammirati, come sempre, per come riescono a proceduralizzare tutto in modo che tutto funzioni. Ci sono regole semplici da osservare per non annoiare il pubblico, ci sono piccoli trucchi per farlo divertire. E allo stesso modo ci sono nomi da dare ad ogni attività per renderla più facile ed accettabile.

Attività fra padre e figlio, Silenzio imbarazzante, Occasione per socializzare, Momento di connessione ecc. ecc.

Nomi per tutto, nomi che ti accompagnano, ti mostrano la via, ti fanno anche attraversare la strada. Etichette dentro le quali si accoccola la vita quotidiana e dentro le quali la mente si rilassa e accetta.

Intanto, dopo la presentazione, è seguito un Momento di socializzazione, nel quale davanti ad una generosa merenda le mamme legavano con le altre mamme e le figlie gironzolavano, un po’ perse, mangiando qua e là.

Io ho ceduto come sempre alla tentazione di un muffin e intanto mi chiedevo come sarebbe stata una situazione del genere in Italia. Ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a visualizzarla.

Una stanza piena di mamme con figlie al seguito che si incontravano e commentavano di un libro del quale avevano appena visto la presentazione… Non mi veniva.

Nell’anarchico perseguire ognuno il rapporto con il proprio figlio che abbiamo nel nostro Paese non sono contemplati che pochissimi momenti rituali, situazioni da vivere insieme già prestabilite o comunque inquadrabili. A parte alcuni momenti di passaggio della Chiesa, alcuni compleanni giudicati particolarmente importanti e qualche tifoseria non mi veniva in mente altro. Magari ci sono genitori che sanno condividere un interesse con i propri pargoli, e se sono amanti delle lettere riescono anche ad appassionarsi per l’uscita di un libro. Ma lo fanno da soli, è un loro momento unico e irripetibile di connessione.

Mi sono chiesta se potrebbe valere la pena anche per noi avere un nome per ogni situazione, e una procedura su cui strutturarla. Tutto sarebbe più semplice, meno dispersivo, inquadrabile e quindi percorribile. Sarebbe anche più asettico, però; meno eroico e fantasioso. Perderemmo l’incontenibile capacità di improvvisazione, la tendenza ad elaborare, l’ammaliante simpatia e la furbizia a volte canagliesca che ci caratterizzano sempre. E a volte ci salvano.

Torno a casa senza aver saputo scegliere, nella mia mente confusa, fra le procedure e la fantasia, fra l’ordine e l’inconcludenza.

Trovo la mia ragazza spaparanzata sul letto a leggere un libro, mi siedo accanto a lei e le chiedo cos’è che sta leggendo. Come sempre devo ripetere la mia domanda un paio di volte, per farla rientrare faticosamente dai terreni lontani in cui se ne sono scappate lei e le pagine del libro. Però alla fine lei solleva la testa, mi mostra la copertina e mi risponde sorridendo. “Se vuoi te lo passo, quando l’ho finito”, mi dice. E anche io sorrido, “Perché no?”.