Il cimitero

Un racconto di Georg Gehlhoff tradotto per ZIBALDONI da Stefano Zangrando.

di in: Bazar

Opera di ADRIÁN VILLAR ROJAS

La visita annuale al cimitero il 20 maggio, anniversario della morte di sua madre, che quest’anno cadeva di domenica, era per lui un dovere molesto. Era già sera e non aveva più molto tempo. La sua macchina era l’unica nel parcheggio. In mano aveva un mazzo di fiori. Glielo aveva procurato Hannelore, sua moglie.

Quando ebbe trovato la tomba di sua madre, dovette tornare un pezzo indietro fino alla fontana, perché aveva dimenticato di portare con sé uno dei vasi del cimitero. Vi mise dentro il mazzo di fiori, congiunse le mani incerto, come a voler pregare, e puntò lo sguardo svagato sulla lapide. Gli vennero in mente storie che a sua madre non erano mai interessate. Dopo qualche minuto mormorò: “Ciao.”

 

Guardò l’orologio. Erano le sette e mezza. Tra due ore partiva l’aereo. Lo aspettava una settimana faticosa. Si accese una sigaretta e vagò per un po’ fra le testimonianze mute di persone a lui ignote. Da siepi e alti alberi giungeva il cinguettio degli uccelli, un merlo gli saltellò davanti sul sentiero, un fruscio attraversò le foglie nuove dei faggi. Lui era abituato al chiasso della grande città.

Un’altra occhiata all’orologio, un regalo di sua madre, lo indusse a fare presto. Percorse uno stretto sentiero, convinto che da un momento all’altro avrebbe intravisto la propria automobile rossa. Di certo l’uscita era a sinistra. Girò e poi svoltò di nuovo a destra. Il sentiero tracciava una curva verso sinistra.

Guardò di nuovo l’orologio. A quell’ora ormai avrebbe dovuto recarsi direttamente all’aeroporto. Passò davanti a tombe che si era già lasciato alle spalle in precedenza. Nessuno udì le sue grida d’aiuto. Il cellulare lo aveva lasciato in macchina.

Si era fatto buio. L’aereo era ormai decollato. La fretta e l’irritazione non gli avevano fatto venire l’idea di proseguire dritto fino al muro di cinta del cimitero e costeggiarlo fino all’uscita. Adesso si orientava con l’aiuto dell’accendino e camminava incespicando, ma sempre fiducioso nella stessa direzione, finché effettivamente non s’imbatté in un muro. Era troppo alto per poterlo scavalcare. Rifletté su quale fosse la strada più breve per raggiungere l’uscita e si mosse lungo il muro, un passo dopo l’altro. Inciampò in una radice d’albero. Dovette tastare il terreno in ginocchio per ritrovare l’accendino. Gli doleva il piede destro. Finalmente raggiunse l’alto cancello di ferro. Era chiuso a chiave. Dal parcheggio udì un’auto. Gridò. Il rombo del motore si perse nella notte. Scrollò invano la serratura. Si immaginava già il piacere maligno dei colleghi quando il giorno dopo sarebbero venuti a sapere il motivo del suo ritardo. Hannelore pensava sicuramente che avesse preso l’aereo prima, così da poter sbrigare qualcosa di urgente in ufficio.

 

Le nuvole si dispersero e il cielo si rasserenò. Servendosi della luce residua e tremolante dell’accendino nella notte senza luna, trovò una panchina. Un gufo bubbolò non lontano. Il venerdì, quando rientrava tardi, Hannelore guardava film di paura. Lui non voleva sedersi con lei, perché temeva di non riuscire poi ad addormentarsi, a volte però Hannelore gli accarezzava la mano, come aveva fatto anche sua madre, e guardavano insieme il resto del film. Spirava una brezza leggera. Le ombre degli alberi dondolanti avevano qualcosa di rassicurante, di primordiale. Se fosse stato lui il custode del cimitero, avrebbe fatto un giro ogni sera, prima che il cimitero chiudesse. A quel pensiero di una vita nuova e più tranquilla si addormentò.

 

Fu svegliato da un esile raggio di sole. Tossì. Il cancello era ancora chiuso. Zoppicò fino alla tomba della madre e si ricordò di quando lo andava a prendere all’asilo, e lui le correva incontro per nascondere il viso nella sua soffice pelliccia.