Gomorra o il compimento dell’effimero

di in: Captaplano

Compie dieci anni Gomorra di Roberto Saviano, una delle opere più lette e discusse della letteratura italiana del nuovo secolo. Ha dato vita a molta produzione seconda sul suo statuto di genere, sul ruolo di (presunto) testimone del narratore, sullo stile e naturalmente sul valore disvelativo degli argomenti trattati. Tra questi sceglierei di tornare sul concetto di effimero. Per capirne la portata bisogna prima mettere avanti il millenario sfondo politico, religioso, artistico, sociale, che ha fatto della durata il proprio valore e che affronterò per sintesi di epoche progressive.

Cominciamo da Roma e da una lode al cursus. Cicerone ascende al consolato nel 63 a.C.; di nascita equestre, il brillante avvocato di Arpino è giunto al gradino più alto della scala socio-politica della Repubblica romana. Era stato in precedenza questore in Sicilia (76), edile nel 69 e pretore nel 66; dopo il Consolato governerà la Cilicia. Proprio nel mezzo della sua personale riuscita si trova ad affrontare il tentativo di colpo di stato di Catilina, giovane aristocratico spiantato che fa leva sulle ambizioni delle masse impoverite della capitale. L’invettiva che il console rivolge in Senato al suo avversario fa storia, tanto da animare nell’essenza il De coniuratione Catilinae, scritto da Sallustio tra il 43 e il 40. Il ritratto del capo della congiura (cap. V) ne evidenzia la forza fisica e l’astuzia, l’ambigua oratoria, ma soprattutto la smisurata ambizione, che, insieme al desiderio di lusso, lo accende. Ciò che più ci interessa di lui è l’aggettivo “profusus”, nel senso della dissipazione del proprio, nascostamente collegata alle discordie civili, di cui fu protagonista fin da giovane, che disfano la Repubblica, la dissanguano di uomini e mezzi. Lo seguirà tra i nobili chi non ha niente da perdere in una fiammata perché ha già ogni cosa malamente bruciato: la gioventù della nuova Roma corrotta, impaziente di avere tutto e subito, coloro che preferivano “incerta pro certis” (XVII, 6). Nelle molte argomentazioni messegli in bocca da Sallustio, Catilina esorta i sodali a morire da forti nel tentativo piuttosto che continuare una vita oscura (XX, 9). Di fronte a lui abbiamo un Cicerone che appare in secondo piano rispetto alla presa di parola di Cesare e Catone; il console, più tardi autoincensatosi con la caratteristica e fastidiosa retorica, viene qui ridotto a funzionario: riferisce al Senato, prende le misure necessarie. Il confronto è allora tra l’effimero, il tentativo indebito del “o la va o la spacca”, che comunque tende a tutto spaccare, e la continuità rappresentata dal funzionario capace che ha percorso la giusta carriera.

Proprio il cursus honorum si rivela la spina dorsale del sistema: gradualità, controllo, selezione meritocratica che fa avanzare l’homo novus, garanzia dell’equilibrio sociale. Le tre fondamentali magistrature, a cui accede anche Cicerone, vengono ricoperte in successione prima secondo il diritto consuetudinario e poi secondo precise leggi quali la Lex Villia annalis (180 a.C.) che fissa l’età d’ingresso alle cariche. Tale antico ordinamento venne mantenuto da Augusto, seppure con sostanziali possibilità di manipolazione da parte dell’Imperatore, come tappe pedagogiche ed iniziatiche della vita civile, e pure dalle dinastie nei secoli della crisi, transitando in parte nei regni romano-barbarici. I momenti ordinati di passaggio, nella loro forma ideale, stabiliscono la saldezza delle istituzioni e la concordia hordinum contrapposta all’episodico tentare manu armata dell’uomo solo. Certo non si tratta di un sistema innocente perché se mai riformato può irrigidire l’esistente e convivere anche con l’assolutismo affermato (non però con l’anarchia degli scontri perpetui), ma pare comunque argine democratico all’ideologia dell’effimero.

 

L’eternità del Medioevo è insieme compatto. Per Dante, “sano reazionario”, argine alle perpetue lotte civili diviene l’Impero, riflesso terreno delle giuste ed ordinate gerarchie oltremondane che va illustrando nel suo viaggio. Un’ossessione sistematizzatrice pervade il pensiero medievale e più l’italiano esiliato che vede la patria fiorentina, nazionale, universale, fatta “bordello”, da intendersi modestamente come soqquadro e gran casino. Se la teologia spiega quanto tutto sarà al proprio posto nell’aldilà, e tale è l’orizzonte schiacciante al quale tendere per ogni redenzione, Dante non s’accontenta: vuole la promessa farsi di nuovo carne, e istituzioni. Certo nel Medioevo il tempo dell’uomo è niente in confronto all’eterno e dunque il debole raggio di luce proiettato dall’esistenza individuale stinge sull’orizzonte celeste in una concezione profondamente ripugnante l’effimero. Ovvero la vita umana è del tutto effimera, ma solo un poeta giocoso, letterariamente maledetto e marginale, può cantare il qui ed ora dell’effimero: sesso, vino, gioco, tutto il degrado che serve più che altro a scandalizzare. Per Dante dunque Catilina sarebbe solo uno dei tanti “Marcel che parteggiando viene” ad insidiare i diritti dell’Aquila.

Passando dal piano più strettamente politico a quello economico, s’incrocia la tendenza araldica della classe nobiliare alla liberalità. Essa tuttavia non sempre fa da sinonimo alla follia; anzi l’avo Cacciaguida racconta al discendente di una virtuosa nobiltà antica, attenta alla modestia e al risparmio (Paradiso XV). Una certa taccagneria che va di pari passo con la diffidenza con nuove fortune e il commercio (“[…] lo puzzo / del villan d’Aguglion, di quel da Signa, / che già per barattare ha l’occhio aguzzo!” XVI, vv. 55-7), nonché verso il rimescolamento dei ceti e delle provenienze che “principio fu del mal della cittade” (XVI, v. 68): resta sempre al nobile avveduto ma non grifagno la durata della terra e delle case, gli immobili. Una felice sintesi di questa nobiltà, di razza ed animo, pronta al bel gesto, anche eccessivo, ma pure a mettere giudizio sfumando nella borghesia in via d’affermazione, la si trova, come noto, nella novella Federigo degli Alberighi di Boccaccio: il giovane innamorato che sacrifica per la donna amata ogni bene materiale, salvo con questo garantirsi poi matrimonio e cospicua dote e diventare allora “buon massaio”. Viene per contro messo in burla tra “le nuove genti” il credulo dipintore Calandrino, pronto a farsi strada con spregiudicatezza. L’elitropia, favolosa pietra che rende invisibili, gli permetterà la svolta: “Noi la troverem per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avremo noi a fare altro se non mettercela nella scarsella ed andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà: e così potremo arricchirci subitamente senza avere tutto da schiccherare le mura a modo che fa la lumaca”.

 

È consuetudine storico-culturale considerare l’età moderna, nata con l’Umanesimo, quale presa di campo dell’uomo nella sua dimensione terrena e dunque finita. Di sicuro il tempo va accorciandosi, ma una vita può essere lunga, piena di eventi da progettare; la formazione viene così esaltata secondo nuovi principi e modelli. Il produttore e mercante che gestisce un’impresa capace di reggere la concorrenza, fare investimenti, aprire nuovi canali commerciali, va di pari passo con l’artista che diviene intellettuale studiando secondo leggi scientifiche la propria opera, fino alle complesse ed ardite volumetrie degli architetti rinascimentali; Machiavelli fornisce quindi strumenti all’arte politica desunti dalla storia e proiettati nel futuro di un nucleo d’Italia unitaria. La sua attenzione, come sappiamo, è rivolta sì all’acquisto dello Stato, ma soprattutto alla sua conservazione. Tra le tipologie dei principati, distinte a seconda del modo di acquisirli, Machiavelli inclina chiaramente verso quella dei “principati tutti nuovi”, conquistati con armi e virtù proprie; qui infatti si dispiegano al meglio le qualità dei condottieri – “o virtù o fortezza” -, non solo nell’acquisizione, ma soprattutto nel mantenimento. L’ossessione di Machiavelli per il “mantenere” contro il “ruinare” attraversa tutta la batteria di esempi storici e di consigli nell’uso delle milizie, delle fortezze, delle qualità personali (liberalità e parsimonia, timore ed odio ispirati, fedeltà e tradimento, forza e astuzia), a testimoniare appunto quanto l’orizzonte temporale voglia e debba allungarsi oltre l’effimero.

Sappiamo quanto nell’Umanesimo il ruolo sociale degli artisti cambi: fattisi colti divengono maestri e non più semplici artigiani, capaci di contrattare quasi alla pari con i più illustri committenti. Poche battute di Leon Battista Alberti ci chiariscono che ciò è stato possibile grazie all’affondare nelle radici del bello antico, cosicché il fiato dei quattro-cinquecentisti diventa lungo; l’avidità di architettura lo porta a impadronirsi del passato e gli consente di avviare grandi cantieri aperti per anni: “Non era cosa alcuna in alcun luogo delle opere antiche che vi risplendesse alcuna lode, che io subito non andassi investigando se io da essa potessi imparare cosa alcuna. Andava adunque investigando, considerando, misurando, e disegnando con pittura ogni cosa, non ne lasciando alcuna indietro in alcun luogo, fino a tanto che io havessi conosciuto interamente e posseduto tutto quello che da qualunque ingegno o arte in si fatti edifitii fusse stato messo in opera”. Una minima collazione dei molti aneddoti di Vasari sui nuovi scultori e pittori ci manifesta la centralità maniacale che l’arte occupava nella loro vita. Soltanto essa avrebbe permesso di far risuonare il loro nome nei secoli, cosa che di fatto avvenne. E tra le nuove acquisizioni spicca certo la prospettiva a cui si applicano con metodo e di cui si deliziano senza fine. Si capisce che questa, il più costruttivo tra gli strumenti, capace di rendere spaziale il tempo e di conferire spessore non effimero alle scene della vita, sia oggetto di piena realizzazione personale, come nel caso di Paolo Uccello: “fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che, avendo fisso tutto l’animo e la volontà alle cose dell’arte sola, si curava poco di sé e manco d’altrui. Lasciò una figliuola e la moglie; la qual soleva dire che tutta la notte Paolo stava nello scrittoio per trovar i termini della prospettiva, e che quando ella lo chiamava a dormire, egli le diceva: – Oh che dolce cosa è questa prospettiva! -”

 

È l’età contemporanea, segnata al suo nascere dalle rivoluzioni, a creare le prime crepe in un edificio politico, sociale, economico millenario dove comincia ad insinuarsi l’effimero. “I due secoli l’un contro l’altro armati” portano un attacco simmetrico alla lunga durata visibile sulla direttrice dell’istituzione familiare: il libertino del secolo dei lumi, teorizzatore di dissoluzioni, retore e commediante, e l’innamorato romantico in preda alla passione mettono in discussione il cardine matrimoniale. Lo stadio estetico descritto da Kierkegaard, incarnato da chi sceglie di non scegliere e dissipa se stesso nel molteplice e nel transeunte, ben descrive la figura mitica di un Casanova. L’avventura sempre ripetuta, l’istante, il godimento rapido, violento e fuggevole disegnano un diagramma a zigzag che si rifiuta alla linearità costruttiva. Quando ama, Casanova sfiora il matrimonio, ma afferma nelle sue memorie che ogni volta il caso lo ha preservato. Anzi spesso possiede con particolare gusto le donne in prossimità delle nozze, facendo schiantare in anticipo la consuetudine del rito attraverso l’assoluta libertà della natura atemporale.

Denis de Rougemont si chiede: “Senza l’adulterio che ne sarebbe di tutte le nostre letterature?”. E afferma perentorio: “Esse vivono nella crisi del matrimonio”. Certo è il caso dell’amore romantico che, uguale e contrario alle seduzioni programmate di un Laclos, comporta un massimo di fanatica fusionalità. Il risultato è comunque sempre il trionfo della brevità. In questo caso una sola, tragica volta. Per altro i tormentati amanti dell’Ottocento e le languide eroine sono eversori pieni di attrazione sui loro creatori e sul pubblico, ma restano infine relegati, quando l’attentato portato alle istituzioni diventa palese, nella necessaria sconfitta e nella marginalità. L’Ottocento è in fondo il secolo della borghesia che in Italia per esempio nasce letterariamente con i solidi mercanti di Goldoni, capaci nel loro meglio di contemperare affari di borsa e di cuore, e termina con Mastro don Gesualdo, tutto impegnato a far roba e a dare un orizzonte ereditario al suo nome. Di sicuro a fine secolo si registra uno scacco per cui il capitalista sacrifica gli affetti all’affermazione economica e il suo sforzo titanico, si pensi al Borkman di Ibsen, spesso viene mostrato in una parabola prima ascendente poi rovinosa. E tuttavia i dissipatori di sé su carta – suicidi e morti scioccamente in duello -, o nella vita – dandy, bohémien, trafficanti di schiavi -, non mutano affatto il quadro ideologico del secolo, che sull’accumulo del capitale e la sua trasmissione attraverso la filiazione legittima continua a fare decisamente asse.

 

Nel Novecento assistiamo a una sostanziale continuità nel dominio dell’idea di durata. I nuovi organismi politici totalitari si proiettano in un futuro di eternità (il reich ipoteticamente millenario di Hitler), attingendo una legittimazione altrettanto antica (il fascismo erede della Grande guerra, del Risorgimento e soprattutto della romanità). Le forze rivoluzionarie prospettano l’abbattimento dell’età di predominio borghese per un ordine proletario stabile che meglio interpreti i rapporti di forza nel presente e in un indefinito futuro. Il singolo individuo annulla se stesso nella coincidenza con il popolo e lo Stato, superando così i propri limiti biologici. Nel frattempo, specie in area comunista, l’operaio si alfabetizza e si forma politicamente, investendo sulla massima espressione di sé nel tempo finito di una vita e sul futuro della propria classe. Quanto alle democrazie liberali, sono in grado di accostare il sogno americano del self made man alla più robusta e connotata struttura sociale del conservatorismo britannico. Nella parte terminale del secolo tutto sembra cambiare: viene a maturazione il processo di scristianizzazione, di minorità sociale, non di rado autocompiaciuta, delle espressioni della grande arte, la politica rattrappisce i propri orizzonti e nel contempo perde di memoria, i legami sociali si fanno liquidi. La sintesi è brutale, ma il fenomeno ben noto. E con ciò torniamo a noi. Gomorra certifica l’accamparsi dispiegato dell’ideologia dell’effimero. Il capitolo d’apertura s’intitola Il porto ed imposta subito la visione della circolazione fluida, massiccia ed ininterrotta delle merci. Con l’apertura mondiale dei mercati alla poltiglia degli individui, ci hanno detto infatti i sociologi, resta soltanto il consumo, rapido ed effimero; il minuetto della Moda e della Morte già intuito centocinquanta anni prima da Leopardi. Nel frattempo il mondo del lavoro tiene il passo con la dinamica vincente dell’effimero proponendo i valori della mobilità e della flessibilità: “liquido” e “reversibile” sono aggettivi sinonimi di effimero applicabili ai più diversi ambiti sociali. Il “sistema” camorrista spiegato da Saviano diviene quindi specchio, più fedele che deformato, dei meccanismi produttivi del capitalismo globalizzato di fine secolo: rapidità, ombra, finanziarizzazione immateriale; fabbriche costruite e sbaraccate nelle periferie dell’Europa, del meridione, del mondo; lavoratori che vanno e vengono clandestinamente, arrivano invisibili e spariscono secondo il bisogno; compravendite di titoli che mirano all’arricchimento esponenziale ed accelerato fino ai crolli speculativi dove, si dice in tivù, sono stati bruciati migliaia di miliardi in pochi istanti. Ed ora, a conferma, nel PIL d’un qualsiasi paese europeo andranno calcolati, secondo le direttive dell’Unione, i profitti criminali e del sommerso.

Tale esaltazione dell’effimero a base economica coinvolge i produttori e i consumatori, sempre più presi dal vortice dell’ultimo accaparramento da usare e accantonare, come è tipico per esempio dei prodotti tecnologici. L’ideologia dell’effimero era propria un tempo di chi, senza arte né parte, tentava, spesso fuori dalla legge, il colpo; oggi, all’interno dell’effimero di massa, l’ostentazione di Walter Schiavone, fratello del più noto boss dei Casalesi Francesco detto Sandokan, va semplicemente un po’ sopra le righe quando vuol farsi costruire “una villa identica a quella del gangster cubano di Miami, Tony Montana, in Scarface”. Al Pacino, che dal nulla arriva alle stelle d’un impero criminale di cose (armi, arredi, oggetti personali, corpi di donne), e muore “cascando dall’alto nel suo salone d’entrata crivellato dai proiettili” diventa il modello da imitare: siamo di fronte al sintomo di una drammatica crisi generale. Non c’è solo il trash nell’effimero individuale dei personaggi di Saviano, ma un’infinita foga che trascina nel nulla ogni cosa che li circonda fino alle più tragiche conseguenze. Si ricordi una delle scene più pregnanti della versione cinematografica di Garrone, nella quale Servillo, dapprima accetta l’omaggio dei frutti della terra di un contadino, per scaricarli poco più avanti sulla strada perché infetti; questo lo stigma più allarmante dell’effimero e uno dei lasciti più significativi del libro di Saviano a dieci anni dalla pubblicazione:

I boss non hanno avuto alcun tipo di remora a foderare di veleni i propri paesi, a lasciar marcire le terre che circoscrivono le proprie ville e i propri domini. La vita di un boss è breve, il potere di un clan tra faide, arresti, massacri ed ergastoli non può durare a lungo. Ingolfare di rifiuti tossici un territorio, circoscrivere i propri paesi di catene montuose di veleni può risultare un problema solo per chi possiede una dimensione di potere a lungo termine e con responsabilità sociale. Nel tempo immediato dell’affare c’è invece solo il margine di profitto elevato e nessuna controindicazione.

Un commento su “Gomorra o il compimento dell’effimero

  1. carlo carlucci

    Le poche righe frutto dell’acume dell’autore (molto del libercolo consono a un gusto degenerato di un certo pubblico) sono la quintessenza dell’ovvio, dello scontato, del piattume senz’anima….Provate a scomporre le singole frasi….Ma tant’é…