Bestiario novecentesco

di in: Captaplano

Gli esseri fantastici giungono a noi, vividi nell’immaginazione di precoci letture scolastiche e pure un po’ consunti pel viaggio nel tempo, dalla mitologia e dalla letteratura classiche. Passano attraverso il Medioevo – “corpolentissimo” altrettanto per fantasia e ignoranza – fissandosi nei bestiari e talvolta trasformandosi come il Cerbero, i Centauri, la Medusa e altre creature molto spesso indiavolate nell’interpretazione di Dante. Poi l’Ottocento, sensibile al fantastico moderno, dove la duplicità e la ferinità dell’uomo assumono nuovi corpi, inventerà i propri mostri come il Vampiro. Ed anche il Novecento, in piegatura minoritaria e sotterranea rispetto alla rappresentazione letteraria della società e all’approfondimento psicologico dei personaggi, darà un buon contributo. Borges, nel suo Manuale di zoologia fantastica ricorda gli animali sognati da Kafka e da C.S. Lewis.

 

Esseri già serviti dalla tradizione: allora il greco Savinio. Il narratore di Derby reale (Achille innamorato, 1938) non si fida della primavera, né del cielo disteso sopra alla vettura che lo contiene insieme all’amica e che “nasconde qualcosa di spaventoso”. È un racconto di presagi, che si direbbero da appena prima di una guerra: il dirigibile corazzato sospeso nell’azzurro tra “l’insidiosa squadriglia delle nuvole”. Quindi si accenna al padre, morto venti anni prima, che passeggia davanti al caffè dove tranquillamente ognuno beve e fuma in un’atmosfera traslucida e come retrodatata. E addirittura nella camera romana, che risospinge alla Grecia d’inizio secolo, dove “dalle persiane socchiuse, si affaccia il viso smunto di un giovane dio con i capelli impolverati, che mi sta a guardare con occhi così supplici, così canini…”. Tante le irruzioni di velieri, di mare e figure statuarie nelle case del Savinio pittore.

 

Intanto, tra le visioni del narratore e la sufficienza della compagna, si continua a filare verso l’ippodromo dei Parioli, nel 1925, al cospetto di Sua Maestà Vittorio Emanuele II.

 

La donna stessa, elegante figuretta con la punta delle scarpette di coppale che arano la ghiaia in superficie, così vicina al cuore, non è forse un portento che ispira timore? Che nell’attrazione “non sia da riconoscere l’effetto della sua antica, favolosa, inguaribile mostruosità.”

 

Quando la gara comincia, corrono le speranze degli sportsmen lungo le sagome dei cavalli, allungate come levrieri impressionisti, delle vecchie dame imbinocolate su Manolita o Fior di Neve.

Ma il silenzio del sacro si spande sul campo di gara allorché si fa avanti, verso il palco, “l’ignoto quadrupede” vincitore e “in dialetto dorico” si fa conoscere come Chirone.

 

Il narratore, afferrata l’amica già disincantata ora stranita per un braccio, la porta al cospetto del Centauro che un poco la palpa e prescrive, da provetto in medicina qual era nel mito, un suo rimedio all’anemia evidente. Propostosi al Re come Aio del Principe, come fu per Achille, viene licenziato con sorridente diniego; sparisce con una visione ripiegata in sé dietro i colli.

 

Una visività di scene leggermente pittata, tersità di stile ellenica che prevede però una nebbiolina da cui si raggruma il nume come per l’insolazione montaliana. Insieme l’ironia e l’intelligenza ed infine, dominante, il velo di “mestizia” sulla faccia di Chirone, “il sentimento della propria inutilità”.

 

Il grande papa del Surrealismo, André Breton, recava ai dioscuri Savinio e De Chirico un insolito omaggio di primazia sul proprio movimento. E collocava il fratello minore, unico italiano, nell’ Antologia dello humour nero con il paradossale Introduzione a una vita di Mercurio.

Chirone e i purosangue delle corse anni Venti, accostamento inusitato per una concrezione surrealista sull’asse del tempo. L’ombrello e la macchina da cucire anticipato dagli spazi metafisici del fratello, dove si accampano frammenti ieratici del mondo classico. Il “senso magico scoperto nella vita quotidiana” teorizzato da Bontempelli. E però insieme a certa numinosa sospensione anche l’ironia magrittiana dovuta all’accostamento d’oggetti eterocliti.

 

L’avanguardia ha voluto estetizzare il progresso avanzante, i grevi territori positivisti della macchina, ha voluto riprodurre tutte le facce di una complessa realtà esterna e pescare nell’interiorità umana più profonda, colonizzare il sogno, soprattutto ha ritenuto di poter attrarre in sé ogni tipo d’oggetto brutto alonandolo d’aura (Duchamp). A fronte di tale tracotanza, il volto mesto dell’inutile Chirone: l’autunno chiaroscurale dell’avanguardia. Più che il diniego del potere e il ritrarsi del mito, spira la malinconia della letteratura stessa, nella sua forma fantastica, di nuovo incapace di misurarsi con la realtà se non per un lampo.

Rodolfo Wilcock ne Lo stereoscopio dei solitari (1972) fa sfilare un discreto corteo di animali: un ragno, un orso, un enorme riccio di mare custodito in una caverna, i conigli bianchi, rapidissimi nel moltiplicarsi quanto nel distruggere ogni forma di vita vegetale, ma ben visti dalla popolazione perché portano l’illusoria pace di una distesa di neve. C’è poi Èrmeta, una vera e propria immagine di natura, torpida, feconda e protettrice, che solo partorisce e allatta, scrofa dallo splendido “ventre mammellato”. Divenire animali del resto “è un’ adesione al mondo senza residui, è essere il mondo di cui si partecipa” (Cimatti, Filosofia dell’animalità 2013).

 

Anche alcuni animali fantastici si affacciano sulla pagina in scia con quelli di Savinio; tutti in parte umani: il Centauro, Medusa, una Sirena. L’effetto di straniamento è il medesimo e pure l’ironia. Sono anzi figurazioni più inserite nella contemporanea società degli interamente umani rispetto al balenante e vanente Chirone. E di più sono in ogni caso presenze infelici, come la Sirena, allergica alla salsedine, e perciò costretta a vivere in un fiume inquinato da acque reflue e scarichi industriali. “Alloggia sotto il relitto nerastro di una barca affondata, un mucchio di legni marci incastrati nel fango, tra scatole arrugginite, bottiglie, scarpe viscide e pesci piatti con gli occhi sulla schiena, ripugnanti”. Conflittuale il rapporto con chi bazzica il fiume: monelli dispettosi, prete e suore che la vogliono esorcizzare, adulti che “le propongono sconcezze”. Le due estrose paginette concludono il climax con un tocco da commedia all’italiana, cioè l’arrivo d’un impiegato comunale che richiede il versamento di imposte di famiglia e il tentativo di suicidio della sirena con i barbiturici.

 

Dello stesso tenore il racconto sul Centauro Oligor, comparso tra i boschi sulla cresta d’un colle, alle prese con la difficile dieta dei mesi invernali e i rigori del freddo, poiché “ha fatto la prova di girare col cappotto ma la pancia gli rimaneva lo stesso scoperta”. E si disquisisce un bel po’ su cosa infilarsi sopra a maglione e giacca, se una specie di gonnellino di lana scozzese o una mantellina che “non risolverebbe il problema del sotto-petto”.

 

Ex abrupto la svolta del racconto, sempre in chiave umoristica ma diversamente rivelativa: “Nella stalla ha tutto quello che serve per dipingere; sta preparando una mostra. Ha abbandonato l’arte astratta e e ora si è dato alla natura morta, di carattere prevalentemente onirico.”

 

Medusa, non più giovane, spende somme favolose per farsi “spettinare le vipere”, infelice trascorre per il proprio palazzo punteggiato da ragazzi trasformati in marmo dal suo sguardo. Particolare fondamentale: è una poetessa.

Wilcock esplicita insomma quanto era involto nel mito da parte di Savinio, ovvero che ad essere fuori posto e sottoposte al ridicolo sono l’arte e la letteratura. Le creature bizzarre, semiumane, spostate nel tempo s’identificano con il pittore, il poeta. Mostruoso, essere del fantastico incongruo con la realtà, sia essa la periferia della Sirena indagata dal realismo pasoliniano, o siano i salotti letterari chiacchierati da Arbasino negli anni in cui scriveva anche l’argentino Wilcock trapiantato a Roma, alieno pure dai furori ideologici contemporanei. Insieme agli ultimi lampi dell’autore engagé, al nuovo protagonismo di buona parte della neoavanguardia che cercava nuovi strumenti per leggere e catturare le forme dell’Italia in trasformazione, sopravvive una tradizione carsica di apparizioni fantastiche e ripiegate, profondamente ironiche su di sé, che si sentono sempre più bestie fatte di carta e della tenue materia del sogno.

Un maus in casa Dolcemare ovvero i mostri marini (Casa «La vita», 1943) è un racconto di specchi e di viaggio tra realtà familiare e un fantastico che Savinio ha ormai sganciato dalla mitologia classica. Ciascuno dei due mondi è però in sé doppio. Il capofamiglia, ingegner Visanio, ha l’abitudine di dare soprannomi ad amici e conoscenti, cosicché la realtà domestica incomincia a divenire ambigua, con cartellini fuorvianti per il bambino Nivasio. Il proprio segretario, Messario, viene chiamato mostro marino e certo la sua apparenza giustifica l’appellativo; egli incarna in pieno la duplicità dell’essere fantastico calato nel quotidiano.

 

“[…] era privo di sporgenza nasale e le sue narici perfettamente verticali consentivano di guardarle fino nel fondo umido e rosato. Gli occhi erano rotondi, sforniti di ciglia e di apparenza ossea […] portava sempre appresso un metro a nastro metallico arrotolato dentro una guaina di cuoio, che per la pressione di un bottone schizzava fuori come un serpentello d’acciaio, e una matita coperchiata da un salvapunte di metallo gli sporgeva dalla tasca superiore della giacca.”

 

Messario, spiato dal fanciullo mentre nella sua camera a gennaio metteva la testa in un mastello d’acqua fredda, è la catacresi vivente dei due mondi e nello stesso tempo l’intruso tra gli uomini. Quando in una serata borghesissima in casa Dolcemare si parla insistentemente di tre sorelle che danno scandalo nella comunità, e una vecchia signora esclama “Non è gente de notre monde!”, Messario s’incanta come fulminato. E diventa anche l’essere magico del transito tra i mondi.

Preso per mano il piccolo amico lo trascina fuori nella notte, oltre il centro e il lungomare affollati, verso una spiaggia deserta. Qui c’è il passaggio splendidamente reso da Savinio nella coincidenza tra mare notturno e sogno: si inabissano entrambi, e Messario “chinava a sua volta il capo sotto l’acqua e faceva un gesto come tirarsi il mare – come per tirarsi la coperta sopra la testa per dormire.” L’onda, rimboccata dolcemente, avvolge Nivasio in una seconda dimensione spaziale, dove avanza fluidamente a balzelloni come per l’aria dei sogni, che sostiene mimando il sostegno dei liquidi.

 

Ciò che si trova sotto il mare non è affatto il mondo fantastico dei mostri marini, bensì la famigliola degli òmpisci, del tutto compita e nevrotica come quelle umane di superficie. Per loro i mostri stanno nelle tenebre degli abissi, nessuno li ha mai visti, servono per spaventare i più piccoli.

La lezione di vita e di estetica è puntuale: “Per me i mostri marini non esistono. I mostri sono gli altri, quelli che non sono come noi. O forse i mostri siamo proprio noi, e noi non ce ne accorgiamo, oppure lo sappiamo e diciamo che i mostri stanno laggiù, per stornare i sospetti.”

 

Lasciamo cadere le implicazioni sociali e politiche della citazione, che in piena guerra mondiale scatenata dal nazifascismo avrebbe pure una sua notevole pregnanza ed ha d’altronde valore universale nella storia umana, e vediamo come subito Nivasio, con la sua sovvertitrice immaginazione di fanciullo, la applica al proprio mondo. Tornato a casa, ritrova la scena perfettamente identica; ma il perpetuo demi-monde incomincia a mutare sotto il suo sguardo.

“Vide la contessa Corilopis arrotondarsi a budino, staccarsi dalla sedia e salire lentamente al soffitto. Vide Oscar Dacosta, direttore del gas, buttare fuori una proboscide dal naso e avvilupparcisi dentro come un sonatore di trombone. Vide Mustafà diramare le sue corte braccette in tentacoli occhiuti, che si mossero sopra la tavola come giganteschi pètali malati. Vide monsignor Fuagrà con due occhi di gufo sulle spalle e Antoine Calaroni con due occhi di polpo sul sedere.  Vide sulla pancia impallonata del conte Minciaki aprirsi due labbra vermiglie e mollemente boccheggiare.”

 

Nivasio, con “orrore” e “compiacimento” per la rivelazione, scopre i mostri in casa, distogliendo pudicamente lo sguardo dai genitori. Ciò, a differenza del Savinio maturo artista che eterna le sue dame dai cui vestimenti in lungo spunta un beccuto e occhiuto capino da uccello, dura per pochissimo: un’allucinazione come quella di Chirone apparso al Derby reale, forse un capogiro di nausea. Poi “Il maus di casa Dolcemare era rientrato nella realtà: in ciò che noi chiamiamo realtà.”

 

Si potrebbe considerare questa abissale scoperta della mostruosità dei propri cari, e degli adulti più in generale, come il naturale esito di ogni crescita adolescenziale. Certo è anche la scoperta della propria doppia vista d’artista, che attraversa i mondi, afferra o genera l’orrore. Il fantastico infatti non si dà quale luogo remoto di mostri marini da abitare o visitare, piuttosto l’artista prova il disagio dell’incastro tra realtà e altro, subisce la vertigine epilettica della messa a nudo e del rovesciamento a testa sotto. Nivasio ha ormai impresso lo stigma di una realtà bucata dal fantastico letterario, imperimetrabile e sussultoria; e pure dell’impossibilità a vivere confortevolmente nell’autonoma dimensione artistica. Né va assolutamente dimenticato quell’ammonimento “i mostri siamo noi”, perché non andrà parafrasato soltanto con i grotteschi borghesi che si circondano di convenzioni, bensì proprio come noi stessi. Nivasio ha visto mutare gli altri ma è rimasto muto allo specchio; tuttavia è come se si fosse di già contemplato esercitando i suoi poteri di sguardo. Lui, l’artista, è il primo dei mostri, sospeso tra mondo di carta e presunta realtà.

 

“Potrei parlarVi a lungo, riverito signor Padre, di Chimere e Grifoni, de’ Fauni e dell’Idra, de’ Centauri e de’ lor parenti marini gl’ Ittiocentauri, delle Strigi, dell’Arpie e delle Sfingi, de’ Cenopeni, di Cerbero e del Leucocrota, degli Ippelafi e del Catoblepa, delle Gorgoni, dell’ Arask, de’ Vampiri, delle Sirene, e di Scilla, e del meraviglioso Minotauro, e di quant’altri mai mostri il genere umano cavò dal fondo delle proprie paure […]”.

 

Chi parla così è il Leopardi immaginato da Michele Mari in Io venia pien d’angoscia a rimirarti (1990). Tardegardo è a sua volta direttamente implicato nelle sue dissertazioni: a Recanati nelle notti di luna piena da qualche tempo vengono sgozzate pecore e addirittura un contadino innamorato della giovane Teresa Fattorini – Nerina –; lui stesso è visto dal fratello fare esercizi fisici di straordinaria vigoria nella campagna, talvolta rinchiuso nel buio della cantina.

 

E parlando con il fratello narratore del mito di Adone, sbranato dalle cagne di Diana, allarga il campo ad altri scrittori: “E nel Mistero è un più fondo mistero, per il quale chi riguarda la Luna è la Luna egli stesso, ed è insieme la figlia e la madre, e i suoi cani; e io penso che con quella definizione nocturnis ululatibus horrenda Proserpina Apuleio nel libro suo delle Metamorfosi secretamente significasse se stesso: e forse Teocrito ancora, allor che nel suo celebre idillio scrive di Hecate che a’ pavidi cagnuoli orrore ispira, avea nell’orecchio il ringhiamento di cani che l’avean minacciato…”.

 

L’equazione tra scrittore ed essere fantastico, tendenti entrambi al mostruoso, così ben impostata da Mari nel primo libro che l’ha fatto notare, viene poi ribadita più volte nelle sue opere successive.

In Il patrimonio del popolo tedesco, contenuto in Fantasmagonia (2012), Mari racconta che Jacob e Wilhelm si stanno dirigendo in gran fretta verso il buio palazzo che domina Darenstadt. Una volta arrivati i due fratelli Grimm, padri del folklore tedesco, si rivolgono con molta preoccupazione a un giovane pallido e provato, il terzo fratello Ludwig, per ritirare la quantità voluta di fiabe popolari. Questi consegna e immediatamente gli si impone una nuova consegna a produrre; allora apre un armadio dove si cela una botola, scende numerosi e ripidi scalini, e sul fondo, disserrato con una grossa chiave un “tenebroso stambugio”, si rivolge a un altro, nascosto fratello. A questo Gunther viene intimato: “Affabula, mostro. E il mostro affabulò.”

 

Il fantastico della fiaba, con i suoi orchi e le sue streghe, con i mostri familiari che si svelano all’improvviso ai bambini come al Nivasio di Savinio, scaturisce dunque dai bui recessi di una segreta. La letteratura si stratifica a più livelli: in superficie stanno i due fratelli ufficiali, molto solleciti a portar pagine al loro editore, e mossi da discutibili intenti ideologici. Essi, aridi grammatici e scaltri affaristi, si chiedono come possa Ludwig inventare tutti quei mondi strani, dandosi poi la risposta che l’ispirazione gli viene dal contatto con la follia. Già di per sé stremato e “chiuso come in prigione, isolato come un lebbroso”, il terzo dei fratelli Grimm deve scendere però più nel profondo richiamando quanto è nascosto, censurato, l’indicibile che giace nelle viscere buie della casa e di se stesso.

 

“Promessa o non promessa, in casa mia io percuoto chi m’aggrada, tantopiù chi gitta il suo tempo sulle pergamene ammuffite ed altre siffatte anticaglie, trascurando l’etichetta e le materie più raccomandabili ad un Cristiano timorato di Dio!”. Così, durante la cena, donna Adelaide sbotta per l’ennesima volta contro il figlio primogenito. Ciò ci permette di allungare d’un tratto la catena scrittore-mostro, con il riferimento al passato. Tanto lo scrittore che l’essere fantastico sono creature legate a doppio filo, involtolate nella crisalide del passato.

 

“Ma prendi il Minotauro o le Sfingi, prendi gli amanti di Circe o i Centauri, vedrai che le leggende dell’uomo son piene di mostri mezzo uomini e mezzo animali, d’animali che furono uomini, d’uomini che furo animali. Sai tu donde questo procede? Non d’altro, Orazio mio, che da nostalgia.”

 

Il bestiario mitologico, come già in Savinio, nella riflessione di Tardegardo fa parte del mondo degli antichi, robustissimo eppur sparente nei moderni secoli. Esso ne è vestigio balenante ed insieme commovente.

Gli animali stessi (e l’animalità) sono del resto per il vero Leopardi i residui più vicini alla natura: “Io credo che nell’ordine naturale l’uomo possa anche in questo mondo essere felice, vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi né singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata […] l’istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata dall’arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti” (Zibaldone 56).

 

Il tema del passato è onnipresente nell’opera di Mari, qui ci siamo limitati ad esaminare il legame con lo scrittore; ora con le stesse creature del fantastico non mitologico: i “mostri su mostri” ricordati in sterminato catalogo dentro a Tu, sanguinosa infanzia, dove sono compresi gli “zoomorfi”, e collegati agli indelebili ricordi d’infanzia delle Copertine di Urania. Inoltre nel Mari critico anche un personaggio come Dracula viene difeso: “ci è simpatico perché, come Alien, è solo, e perché, malinconico esteta, difendendo se stesso difende il passato.”

 

L’ultimo e decisivo passaggio, che completa il giro del nostro autore (e non lo inizia come invece avevano pensato molti dei suoi esegeti), riguarda lo stile. Il mostro spesseggia, il mostro è lo scrittore, lo scrittore e il mostro sono prodotti del passato, contestatori involontari dell’oggi, ridicolmente esposti al volgo come esseri fantastici e bizzarri. Nella nota alla seconda edizione a Di bestia in bestia, suo libro d’esordio, Mari sostiene non essere il personaggio il vero mostro, bensì il libro stesso inizialmente enorme per dimensioni, esorbitante nella lingua, scritto e riscritto, che fagocita senza scampo la vita dello scrittore.

 

In più naturalmente la scrittura, perennemente volta all’indietro ed in sé apparizione fuori sesto, monstrum stupefacente, quando mimetica del lessico e del periodare leopardiani, del linguaggio marinaresco altrove o del romanzo ottocentesco. “La mia prassi di scrittore che non riesce a manipolare la lingua, che non può sguazzare nel mare della lingua se non ha stabilito preventivamente, con quel materiale, un rapporto di lutto, di slontanamento. […] La letteratura non dovrebbe avere mai nulla a che fare con l’uso. Può ricorrere talvolta, o anche spesso, a forme d’uso, ma sempre seguendo leggi proprie per cui l’uso stesso – essendo assunto come ingrediente, come possibile ingrediente – diventa letterarietà o vi partecipa” (Il demone della letterarietà).

 

“Nell’aria c’era odore pesante d’avanzi di lavatura di piatti e di insetti domestici, tutti si disposero il meglio che poterono, il bambino s’istallò sulle ginocchia di sua madre prorompendo in acute strida prive d’ogni luce spirituale; lo zio riprese la pipa e a sputacchiare, prima d’aver tratta una sola boccata, una saliva liquida; la zia colla bocca arrotondata e la sua perenne aria di compassione (che era un modo per esprimere tenero affetto); il cugino, vestito con ricercatezza provinciale, accavallò dignitoso le gambe disponendosi a dare una spolverata al sua incerto italiano. […] (Per quanto giocasse a colpo sicuro Giovancarlo sceglieva accuratamente le parole e le espressioni più adatte, di tipo strettamente familiare, pidocchiale diremmo).”

 

“Egli si ripromise anzi d’attendere con tranquillità l’istante che la fanciulla, alzandosi, avrebbe dovuto per forza mostrare le sue zampe, e s’andava preparando a ciò che sarebbe seguito; come quando, svegliandosi sotto l’incubo dello sguardo serpentino il dormiente, o volgendosi la vittima nel suo inconscio orrore, la muta tensione screpa in fragorosa esplosione.”

 

Sono due brani de La pietra lunare (1939) di Tommaso Landolfi da leggere in antitesi dialettica. Il protagonista si trova nella casa dello zio e il linguaggio rispecchia programmaticamente gli anodini rapporti sociali di una piccola borghesia di provincia. Per contro la sintassi si snoda splendidamente come muscolatura guizzante e il lessico crepita per la lucidatura della patina anticata; ciò con la descrizione di Gurù, l’essere fantastico metà donna metà capra nella parte inferiore del corpo.

Essa/ella s’era già manifestata per forza di dettaglio, mostrando da fuori, come prodotti della notte, “due occhi neri, dilatati e selvaggi”: quindi, invitata dai padroni di casa, aveva allungato sotto il tavolo “due piedi forcuti di capra, di linea elegante”.

 

Elementi di già considerati ricorrenti: l’arcaismo dell’essere fantastico, il suo venir colto solo dallo scrittore (Giovancarlo, il narratore e giovane poeta, mentre i parenti sembrano non avere idea della duplicità di Gurù), che crea una saldatura tra loro e con il linguaggio stesso. Dal tinello insomma, “traverso un’inquietudine intensa”, si giunge nei capitoli successivi ad “un’altra dimensione” (Bontempelli).

 

“Il procedimento essenziale del fantastico è l’apparizione; ciò che non può accadere e che invece succede, in un punto e in un istante preciso, nel cuore di un universo perfettamente individuato e da cui si riteneva a torto che il mistero fosse ormai eternamente bandito” (Caillois).

Non l’essere meridiano della mitologia di Savinio però, mostruoso e indifeso come Messario (e le tante vittime dell’uomo dal vecchio facocero fino alla mamma drago di Buzzati), caricaturato in Wilcock e con pena in Mari; piuttosto diabolico e collocato sulla linea gotica del fantastico.

 

Landolfi ne Il mar delle blatte mette in scena un verme parlante e seduttore, due licantropi che sequestrano la luna; ne La spada il monologo ammonitore di una piattola, specie di deiezione del Gallo silvestre, poi un mondo sotterraneo e capovolto sede dell’animalità: “un senato d’elefanti, una corte di camaleonti […] E le volpi sono ambasciatori, i corvi esecutori testamentari, i montoni o capri grammatici, i cavalli consoli.” (La tenia mistica).

“Di che poco momento, lettore, è quanto si trova e avviene sulla terrestre crosta, appetto a quanto si trova e avviene nel profondo!” E naturalmente nella notte.

 

Il vieto mondo domestico non è più così facilmente leggibile: i parenti fingono per ipocrisia di non accorgersi della natura di Gurù o effettivamente non se ne accorgono pur essendo da lungo tempo loro intima? Si tratta forse di un’allucinazione del soggetto? Quando Giovancarlo denuncia la sua subita scoperta, da prima garbatamente di seguito con disperazione e violenza perché nessuna gli dà retta, sembra di dibattersi nell’impossibilità del sogno. E quindi si entra nell’area del segreto e della complicità. Dove comincia ad esercitarsi la volontà di conoscenza, spesso frustrata dal mistero, l’analisi e la morbosità: “dove precisamente, cioè in quale punto del suo corpo, cessava la fanciulla d’esser donna per mutarsi in capra?”

 

L’essere mostruoso vuole portare con sé l’eletto, che recalcitra. Lungo la linea gotica, tipicamente landolfiana, all’avvicinamento erotico s’accompagna in passo doppio lo scarto del ribrezzo. Gurù richiama Giovancarlo fuori dalla casa, nelle tenebre “coi vasti occhi in cui ora correvano riflessi d’un giallo cupo e infinitamente profondo, in uno sguardo smarrito eppure di selvaggia minaccia”; il giovane reagisce al richiamo “con un misto di curiosità d’attrazione vertiginosa e di repulsione”.

 

“Fuori della finestra chiusa” il paesaggio notturno è anch’esso contraddittorio, illuminato da un onnipresente luna, alta e in movimento magnetico, sotto cui “succedono cose strane”.

 

Segue un periodo nel quale la fanciulla torna del tutto umana, con anzi un poco d’attenzione “materna”, e vive con il giovane orfano nell’antico maniero tra effusioni amorose e osservazione dei personaggi e delle feste paesane. Almeno fino al riaffacciarsi beffardo della luna. I due salgono allora al monte verso il paese abbandonato, lei si trasforma di nuovo in capra; s’intanano con strane ombre di briganti del passato sotterra per sbucare nel sabba delle altre Gurù e delle Madri.

Giovancarlo però a fine estate se ne va, verso la città e gli studi; chiosa Landolfi nell’appendice (Dal giudizio del signor Giacomo Leopardi sulla presente opera), che oggi in arte “non c’è quasi più niente di spontaneo […] s’è perduto il linguaggio della natura, e questo sentimentale non è altro che l’invecchiamento dell’animo nostro”. La puerizia, vicina al sentire degli antichi, “in cui tutto è singolare e meraviglioso, in cui l’immaginazione par che non abbia confini”, si è ormai perduta, l’arte razionale ha divorziato dalla natura: Gurù resta irrimediabilmente indietro nel paesello arcaico.

 

“Si vedevano contadini come i nostri, dal viso adusto e dalla fronte pallida, vestiti di nero, colla giacca e il panciotto e la catena dell’orologio sul ventre; ragazze a piedi o in bicicletta, vestite quasi come da noi, che si sarebbero potute scambiare per venete o abruzzesi. Capre, pecore, vacche, maiali, galline: ma, freno ad ogni precoce illusione casalinga, ecco fermo a un passaggio a livello un cammello, a ricacciarci nell’altrove: un cammello consunto, grigio, lanoso, carico di sacchi, spirante alterigia e solennità sciocca dal preistorico muso leporino.”

Chi parla è Levi nel pieno della sua odissea di ritorno (La tregua 1963), allorché, lasciati i paesaggi infiniti e desolati della steppa, si misura con “uno scenario sorprendentemente domestico” di uomini e animali della verdeggiante Moldavia. Eppure è proprio l’apparizione dell’animale a dire dell’altrove, geografico e temporale.

 

“Lo vedevo contro il sole, contro il sole più civico, più domestico: apparizione ributtante nella cui forma era un segno diabolicamente sovvertito della mia forma, confuso agli avanzi e alle rovine d’ epoche condannate.” Si tratta di un semplice canguro, visto da Cecchi allo zoo, e descritto in Pesci rossi (1920), che fa da punto di partenza per una serie di riflessioni sulla civiltà umana. Saliente la distinzione tra gli antichi che effigiano gli animali, nonché “i mostri senz’età e senza nome”, con le pietre e con il marmo, a sostenere pergami, colonne, candelabri e bacili, e i moderni che li radunano dal vivo nei giardini, nel cuore della città, a mostrare un trionfo che è però segno di regresso spirituale.

 

L’animale porta con sé un’epifania che ripiomba l’uomo nel proprio atavismo, di mondo e di interiorità profonda. Qualcosa di ormai perduto che rimbalza agli occhi e ai sensi come riconoscimento, minaccia, buffa differenza o assurdo. Specie se, come in Tessa (De là del mur 1947), si offre in un fuori contesto urbano che dissesta la percezione consueta della realtà.

“Rivi… ghe sont… e lì,

scolta mo, cossa vedi!

Matta puttana! vedi

on struzz a porta Volta!

 

Reclam del Trader-horn

del Film-miracol, chì

tra duu tram, incazzii

troeuvi on struzz… t’ee capii?!

 

Sotta a on barocc-reclam

gh’è on struzz

viv, che me guarda!!”

 

Nella tradizionale visione umana “l’animale è un segno, non un’entità autonoma” (Cimatti), che l’uomo legge, o addirittura immagina o scrive. Così Un Re di Manganelli (Agli dèi ulteriori 1972) è forse l’uomo, sovrano del creato, che pensandoli fa vivere gli animali. Perché “ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico”. L’animale dunque prende vita attraverso la facoltà prettamente umana, la parola; è un segno, ma secondo l’ottica astraente e nobilmente arcaica di Manganelli non un segno di scambio, bensì un emblema.

 

Programmaticamente il Re immagina animali regali a partire dall’aquila. Quindi si trastulla a scolpire in parola l’araldica del leone.

“Il suo modo di sfamarsi è disastroso, io penso che sia possibile nella mia regalità inventare un leone che abbia fauci apocalittiche, una galassia leone, che della sua urina, del suo afrore, del suo rugghio sgomenti e battezzi il mondo, e di fame e fauci vaste abbastanza per straziarlo e divorarlo.”

 

L’animale veridico, già in precedenza rivestito del colore “scorticato dall’interno del sole”, si è ormai ingigantito, inchiodato come figura ed essenza nel cielo; è divenuto proiezione cosmica di uno zodiaco metafisico.

 

Il processo di retorica che scarnifica il reale dell’animale, portandolo al concetto attraverso una metamorfosi fantastica e cosmologica si ripete per il serpente: “Il serpente è un lungo gelo taciturno e pieghevole; la sua tendenza plastica è di essere lungo come il mondo, e se il mondo è rotondo, di arrivare a mordersi la coda, saldando così tutto quanto il mondo al centro del suo cerchio.”

 

Manganelli, nella sua naturale predisposizione a fare del mondo un linguaggio, va anche oltre, introducendo la similitudine tra il rettile zodiacale ed il segno del disegnatore, e il disegnatore stesso: “come costellazione è mutevole, e può simulare tutte le geometrie, e tracciare anche il profilo di diversi animali o uomini illustri; egli è la sua propria matita.”

 

Il serpente dunque scontorna e finge (in tutta l’estensione del vocabolo) gli altri animali, quasi doppio un po’ demoniaco del creatore. Può far di sé diverse forme (“gioiello, armilla o profilo”), come in effetti avviene nell’iconografia di molti popoli, e “può inventare inedite silhouettes”; silenzioso si trasforma e crea “ma qualcosa conserva, di essere una linea.”

Amato dal Re perché sua più riuscita trasposizione, animale simbolico del linguaggio, e più, grazie alla sua sottigliezza (anche in questo caso conservando la duplicità del termine), “simula il niente”. Manganelli giunge qui a portare sull’abisso la cattedrale del suo regale linguaggio: la creazione del mondo e della letteratura viene dal nulla e nel nulla precipita. Parole e frasi mettono in scena una dinoccolata e sonora danza macabra. Il racconto stesso Un Re del resto precipita sempre più la voce delirante nel vuoto del proprio palazzo, nella “notte interminabile”.

 

“Un giorno le sue scaglie sono tatuate di indicazioni di scrittura, tutte le scritture assieme, dentro e attorno l’una all’altra; allora il percorso si fa saputo ed ermetico come un viale ellenistico in rovina, una serie di reliquie significanti e scostanti.”

La scrittura sulla pelle del serpente, o meglio il serpente che è la scrittura, appare tanto un geroglifico del passato, come già visto in Savinio Wilcock Mari Landolfi, tanto un vuoto labirinto borghesiano. Gli animali della natura, aquila leone serpente, per esplicita via letteraria vengono mutati in esseri fantastici. Gli uni e gli altri (che hanno inglobato i primi) sono condotti poi al dubbio radicale dell’inesistenza. Tale la vendetta degli anni sessanta panlinguistici sulla realtà che aveva marginalizzato il fantastico letterario. Il serpente intossica e demistifica il paradiso terrestre dove le cose si identificano con le parole: non si può più vivere vestiti di tale apparenza ed incoscienza, si è nudi sulla fenditura del nulla tra quelli che si dicevano allora il significato e il significante.

 

La letteratura, dopo aver postulato la realtà quale suo specchio e sua creazione (in senso opposto a tutti i realismi), tenta forse per l’ultima volta il titanico risucchio del serpente. Nella linea nera che striscia una riga dopo l’altra dall’inizio bianco si dà, soltanto a tempo determinato, il mondo, fino alla chiusa bianca. L’animale fantastico non s’inchina più, discreto come il Chirone di Savinio, allontanandosi sconfitto come i mostri di Mari, ma prova il rovesciamento di stato.

 

“È da notare come egli ingoi la preda sedotta e persuasa, e la trasformi in se stesso; sì che se io riuscissi a pensare un serpente di bastevole grandezza, destino del tondo cosmo sarebbe di risolversi nella sterminata digestione del serpente”.