La letteratura è un dialogo infinito

Massimo Rizzante, poeta, saggista, traduttore, docente di Letterature comparate e Letteratura italiana contemporanea all’Università di Trento, dal 1992 al 1997 ha fatto parte del "Seminario sul Romanzo Europeo" diretto a Parigi da Milan Kundera (di cui è traduttore per Adelphi), da cui è nato il "Seminario Internazionale sul Romanzo" che lui stesso dirige a Trento.

Le conversazioni con gli scrittori presenti nel tuo libro, Un dialogo infinito (Effigie 2015), non sono interviste ma dialoghi. Qual è la differenza?

Il dialogo è un genere letterario antico. L’intervista un intrattenimento giornalistico moderno. Il giornalista ha un compito: quello di sciogliere dai ceppi dell’anonimato gli schiavi della caverna. Solo una volta intervistati gli schiavi si sentiranno di nuovo vivi, solo confessandosi accederanno alla “Realtà”, che oggi è la realtà del rumore, del pettegolezzo, del narcisismo. In un dialogo letterario al centro c’è l’opera. In un’intervista giornalistica al centro c’è la biografia dell’autore.

 

Tu sostieni che un romanzo per essere letto e compreso non ha bisogno di specialisti, questo legittima i blog letterari, dove analisi e recensioni sono spesso fatte da persone qualunque?

Tutti i romanzi, come tutte le opere d’arte, possono letti e compresi da qualsiasi persona. Negli ultimi trent’anni la specializzazione dell’intelligenza è diventata più capillare, si è burocratizzata, si è tecnologizzata. Le immagini del mondo si sono perciò moltiplicate. Compito del romanziere (come del critico letterario) è perseguire in modo ancora più radicale “una via mediana alla coscienza” in grado di sintetizzare in una totalità le molteplici immagini del mondo. Quanto alla miriade di recensioni che si possono trovare nei blog, la questione è semplicemente saper distinguere tra una meditazione individuale su un’opera e il desiderio grafomane di scrivere per essere presenti.

 

Ma anche la critica letteraria può sbagliarsi e infatti molte volte si sbaglia.

Certo, la critica letteraria non è una scienza, non si fonda sul progresso scientifico delle scoperte, per cui una nuova formula fisica cancella la precedente. Le scoperte della critica letteraria sono sempre utili, anche quelle che sembrano superate dal tempo. In realtà il tempo della critica letteraria (come quello delle opere) non è il tempo cronologico. Certo, sapere che l’opera poetica di Baudelaire è venuta prima di quella di Apollinaire è necessario. Ma alla domanda: chi è più moderno, Baudelaire o Apollinaire, non c’è una risposta giusta e una sbagliata.

 

Citando Hermann Broch, tu scrivi che un artista può essere un farabutto, mentre il critico deve essere onesto.

Cito spesso questa frase di Broch, perché, scrivendo poesia e prosa e dedicandomi anche al saggio, conosco le due sponde entro cui scorre il fiume della letteratura. So che, come diceva una grande poetessa russa, molti versi poetici sono raccolti in mezzo alla spazzatura, o, come affermava Montale, che ogni grande poeta è un ladro matricolato. L’artista si fa meno scrupoli del critico letterario. Il paradosso sta che l’onestà del critico è continuamente messa a dura prova dall’artificio dell’opera letteraria, un regno dove convivono saggezza e cialtroneria.

 

A tuo parere la critica ha subito tre attacchi mortali: la burocratizzazione universitaria, la sudditanza mediatica e il narcisismo. Come si può rimediare?

Non si può rimediare. Si può cercare di vivere dando un esempio diverso. Si può essere professori universitari senza dimenticare che l’opera letteraria, anche quella di secoli fa, è un organismo vivente che si rigenera se è sfiorata da mani viventi. Si può scrivere sui giornali o sui blog mantenendo una posizione verticale. Si può essere scrittori e critici, mantenendo una certa distanza da se stessi. Quegli scrittori che se ne vanno in tour sbandierando i loro libri come se fossero il prodotto assoluto della loro anima, dovrebbero scendere di qualche gradino del loro ego.

 

Uno dei mali che individui nell’arte di oggi è sintetizzato dalla formula “tutto è uguale a tutto”, un sonetto di Shakespeare è uguale ad una ballata dei Pink Floyd.

Non sopporto, soprattutto in arte, l’assenza di gerarchie, ovvero l’assenza di valori, lo trovo immorale e sciocco. Trovo sciocco anche il fatto che Shakespeare e i Pink Floyd non possano coesistere. Trovo francamente immorale porli sullo stesso piano, in nome di quella che a partire dagli anni Novanta si è affermata come una specie di religione, parlo di quel presunto abbattimento della frontiera tra “alto” e “basso”, che è un altro modo di dire tra quello che ha valore e quello che non ce l’ha, o che ha un valore minore.

 

In uno dei dialoghi presenti nel libro lo scrittore Goytisolo afferma che ogni lingua e ogni letteratura è sempre ibrida.

Goytisolo incarna lo scrittore europeo che, sradicatosi dal suo paese, è andato alle radici della sua cultura spagnola ed europea e vi ha trovato altre radici: ha scoperto un Cervantes influenzato dalla cultura ebrea e araba, che in Spagna, più che altrove, si è fusa con quella cattolica. Ma ha scoperto molto di più: che ogni letteratura è sempre la somma complessa e sempre variabile di molte letterature. Non esiste una letteratura vergine.

 

Dunque non esistono, almeno in letteratura, le identità nazionali?

Salman Rushdie ha detto una volta che chi si è deliberatamente sradicato dal proprio paese vede il mondo come soltanto un’intelligenza libera può fare, perché rifiuta le strette barriere che lo escludono. C’è una grande perdita e una grande nostalgia in un simile sradicamento. Ma anche un guadagno: la nazione senza confini non è per lui un fantasma. Come dice Milan Kundera, la patria dello scrittore non è necessariamente il suo paese o la sua lingua, quanto i suoi temi e le sue ossessioni, che sebbene nati in un preciso contesto geografico e storico, non hanno frontiere geografiche e storiche.