Una lenta ripresa

Lo so. Me lo sarei dovuto ripetere che lo sconcerto nasce dai dettagli insignificanti, che è imprevedibile. Ci sono circostanze in cui un semplice dovere quotidiano, come la promessa di portare fuori la spazzatura, si traduce in un esame di coscienza che rischia di  rivelarsi senza ritorno. Poi, sì, devo aggiungere che la situazione al lavoro si è un po’ complicata. Tutto era cominciato con una breve e precisa sequenza di gesti: Linda aveva appoggiato la pentola con la zuppa di cervo di sua madre nella mia macchina, sistemandola con cura dietro il sedile del passeggero.

«Sì, certo, grazie. Anzi, non sai il favore che ci fai. Lo mangeremo a cena».

E invece.

Per tutto il percorso verso casa sua aveva parlato al telefono con Sandra, poi ci eravamo messi d’accordo su un paio di impegni che ci avrebbero diviso, non tanto sulla cena – era stata invitata a casa di un’amica, aveva mentito – ma sul modo in cui l’indomani avrebbe preso l’aereo e soprattutto sull’ora in cui sarei andato ad accoglierla all’aeroporto tre giorni dopo.

«La carne gliel’ha data Ada. Non sono mica sicura che sia sana» aveva detto poco prima, quasi a manifestarmi un’intenzione tutt’altro che latente. Poi avevamo ascoltato un paio di canzoni alla radio. «Ad ogni modo, non preoccuparti, tornerò presto». Mi aveva dato un bacio ed era corsa leggera lungo il vialetto di casa che trovava così incredibilmente americano, per quanto fosse piantato nel cuore delle Alpi. Era davvero il tipo di donna cui l’incoerenza regalava un meraviglioso vantaggio competitivo. Pericolo, grazia, eccitazione: per quanto possa sembrare strano, dopo il mio secondo esaurimento nervoso mi ero indotto a pensare che non avrei potuto chiedere di meglio. In effetti, benché avessi considerato per un anno e tre mesi che sarebbe stato più opportuno restarmene al riparo dalle emozioni forti, visto che questa prudenza non aveva prodotto nessuno dei risultati sperati (ero rimasto al riparo dal pericolo, sì, ma ero soprattutto rimasto chiuso in casa) da qualche tempo avevo deciso di rilanciarmi. E lei era perfetta per il rilancio.

Avevo guidato fino al mio appartamento preparandomi a una serata da passare sul divano davanti a vecchie puntate di telefilm americani (ne avevo varie serie sul portatile), ma poi ero finito più stancamente a girare da un canale all’altro della tv. Mentre scorrevano le immagini di un documentario sugli animali del deserto californiano, mi ero dato a rimettere a posto alcune cose, asciugamani, la borsa della piscina che lei aveva gettato sul tavolo e qualche capo della sua biancheria, che aveva il vizio di lasciare in giro «per aggiungere un tocco femminile a questo luogo abbandonato». Fu più o meno in quel punto che dall’armadio presi in mano le mie vecchie scarpe da tennis, indeciso se considerarle o meno il risultato di una sconfitta. Mi rividi giovane al termine del mio primo incarico importante, sfinito, in piedi sotto la pioggia alla fermata dell’autobus, con l’acqua che pian piano cominciava a entrarmi nelle scarpe: le braccia strette sotto l’ombrello, ondeggiavo per contrastare il freddo. In quel momento avevo sentito con emozione crescente che anch’io – come gli altri, come loro in modo irripetibile e anzi forse in modo un po’ più irripetibile di loro – ambivo a qualcosa che speravo si sarebbe presto profilato davanti a me non tanto a indicarmi la via, quanto a confermare che quella che avevo imboccato, la mia, era quella giusta. Osservando la punta delle scarpe che cominciava a scurirsi pensavo a quanto il domani potesse invadere i pensieri, come l’acqua di un lavello che trabocca e allaga la cucina. Così era andata, in effetti; il fatto è che poi aveva allagato tutta la casa. Per sette anni avevo lavorato duro all’ente fiera, ottenendo risultati, mi ero trovato bene al punto di credere di essere benvoluto. Invece le cose avevano preso un’altra piega. Sedendosi alla scrivania per comunicarmi che la direzione non mi avrebbe restituito la chiavetta usb con i miei lavori il mio capo di allora mi aveva detto che gli dispiaceva, ma mi aveva anche assicurato che si sarebbero abituati in fretta a fare a meno di me. Era stata dura, davvero. Ad ogni modo, benché avessi impiegato del tempo a riprendermi, alla fine mi ero ripreso. Stavo meglio. E avevo qualcosa da fare. Misi le scarpe in un sacchetto di stoffa e spostai la borsa dal tavolo. Dovevo rileggere la seconda parte del rapporto sulle strutture sportive municipali del territorio (intendo, la parte inerente la zona di mia competenza) perché l’indomani avrei dovuto parlarne. Spostai un paio di giornali. Lì accanto, arrotolati, erano rimasti i suoi slip color prugna.

 

2.

Gli incontri di staff per la redazione del rapporto avevano il carattere franco che il mio capo – devo dire, con mia piena approvazione – aveva imposto loro. Erano pochi, brevi e animati da osservazioni dirette da parte di tutti i membri del gruppo, senza spazio per le considerazioni generiche. Bevendo il mio tè del mattino mi dicevo che per quanto pensassi che avrei trascorso una giornata senza poter in alcun modo intervenire sui tempi e modi del mio lavoro, potevo perfino arrivare ad apprezzare ciò che stavo facendo. Avevo fatto esperienza di ricerche molto più complicate. Questa anzi fino a quel momento era andata avanti senza intoppi, sebbene il mio collega Patrick, forse il più preparato dei collaboratori, avesse già cominciato a fare meno della metà di ciò che era tenuto a fare («mi pagano troppo poco per far bene questo lavoro»). Linda era atterrata. Mi aveva inviato un sms in cui mi diceva che era andato tutto bene, corredando la notizia con l’icona di un cuore e una sua foto a figura intera con gli hot pants, in posa di tre quarti, che le avevo scattato io.

Misi una giacca e scesi in garage. Non ero proprio al meglio ma, insomma, poteva andare. D’altra parte, avevo capito che potevo vivere decorosamente solo concentrandomi su qualcosa. Quando un uomo resta solo – diceva un filosofo – resta in compagnia del proprio maiale. Scendendo in garage pensavo di rimettermi a fare qualcosa di buono, di utilizzare il tempo libero dal mio incarico magari per rimettere in ordine l’archivio di un’Associazione per malati di mente dove lavorava Sergio. Era da tempo che non facevo qualcosa per gli altri. Ad ogni modo, lei era davvero perfetta per il rilancio.

Appena entrato in macchina fui colto da un’allucinazione che non aveva a che fare con lei, con l’impronta che il suo corpo aveva lasciato nella tuta abbandonata sul sedile (il solo fatto che lei fosse stata lì mi riempiva di orgoglio), ma con una presenza evidente e sgradevole: la pentola, infatti, era ancora al suo posto.

Misi in moto e uscii dal garage con un po’ di nervosismo. Ero confuso fra ciò che mi riportava a lei – il ricordo del profumo della sua crema da giorno – e la necessità di buttare ciò che era rimasto del cervo. Linda non sarebbe tornata prima di tre giorni e io non avevo intenzione di mangiarlo senza di lei. Mangiavo carne con appetito, ma la selvaggina non mi è mai piaciuta e non mi sembrava ancora il caso di mangiarla per tributarle un sacrificio. Lei stessa non si era detta tanto convinta della zuppa. Avrei dovuto buttare tutto strada facendo, prima di arrivare in ufficio, anche se sentivo che qualche argomento resisteva a questa soluzione. Mi sembrava ci fosse una busta di plastica nel bagagliaio. Forse sarebbe bastata.

Per quanto ci sfiori il sospetto che ogni morte sia priva di senso, in questa circostanza quella del cervo lo si stava rivelando in misura particolare, come inutile nel frangente si rivelava anche la prova ai fornelli della madre di Linda. Perché non la facevo finita, non accettavo il tutto semplicemente come un’altra piccola prova da superare e non mangiavo il cervo? Perché a una certa età il conto delle delusioni comincia a farsi più pesante e l’aspirazione a un comportamento esemplare si fa clamorosamente più fragile. Così, anche se sentivo di dover proseguire a piccoli passi sulla strada dell’umiltà, l’assenza di Linda, la prospettiva di un’altra serata da solo, il leggero ritardo sulla strada per l’incontro di staff mi stavano mettendo a disagio.

Mi fermai a un altro semaforo rosso. Avrei avuto poco tempo per buttare la zuppa. Nonostante tutto il bene che sentivo di poter dire di un lavoro come il mio, mi tornava il ricordo di ciò che ero prima dell’incarico all’ente fiera, ovvero uno che aveva studiato e che aveva perfino coltivato delle ambizioni di carriera. Pensavo alle scarpe da tennis. Era stato dopo quel brusco e immotivato licenziamento – immotivato, oggi posso dirlo senza alcun problema – che le mie azioni erano precipitate in modo inatteso. Avevo dovuto ricominciare, più che altro mi ero dovuto arrangiare come potevo, senza trovarmi più davanti un’opportunità per riprendermi sul serio. E nel frattempo ero invecchiato. Questo lavoro di staff era un’ottima occasione rispetto a quanto mi era toccato nei tre anni precedenti, ma lì dentro non ero il primo – lo sapevo – e dovevo sempre tener conto dei rapporti gerarchici. Prendiamo Sofia, ad esempio, una minuta biondo-rossiccia con la pelle marmorea e un evidente strabismo di Venere: si occupava di grafici e non sembrava avere una grande cognizione del suo lavoro. Avevo capito in fretta che non ne aveva bisogno. Pur avendo cominciato insieme a me, infatti, in tre mesi, al termine di un concorso interno di cui non avevo saputo nulla, aveva guadagnato una posizione a termine che prevedeva una retribuzione quasi doppia rispetto non tanto alla mia, quanto a quella del capo del nostro progetto. Sollevata da ogni incarico relativo al rapporto, Sofia ora presenziava alle riunioni per puro spirito di servizio, manifestando nei suoi interventi la forza di un parere dai riflessi politici imprevedibili, che stava mettendo a dura prova le capacità organizzative del capo. Io facevo il mio con precisione. Il capo era contento. Ogni tanto pensavo ancora che fosse il caso di rimettermi a fare qualcosa per me, ma poi il più delle volte non ne trovavo la forza.

Arrivai al parcheggio. Tolsi dal bagagliaio il sacchetto del supermercato (avevo visto bene) e poi, dopo averlo allargato sul fondo, cominciai a versarvi con cautela il contenuto della pentola. La zuppa scendeva molto lentamente: prima alcuni pezzi di cervo, poi un blocco untuoso e infine quelli che erano rimasti sul fondo, che feci cadere rovesciando la pentola e battendo sul retro col palmo della mano. Avrei avuto bisogno di un mestolo, o un pezzo di legno per finire il lavoro al meglio, ma trovai che nel complesso potesse andare. Presi dunque lo zaino col computer, la mia borsa da lavoro e la borsa del cervo.

Camminavo per Via Petrarca con le due borse, una per parte. Dovevo trovare un bidone al più presto, ma il più vicino era guardato a vista da una piccola folla che mi osservava con ostilità aspettando l’autobus 41. Il fatto è che la borsa del cervo era una di quelle borse in materiale biodegradabile distribuite dai supermercati, poco resistente, che sentivo infatti deformarsi lentamente sotto la spinta dei passi e il peso del cervo. La maggior parte dei pensionati mi scrutava con curiosità mista a riprovazione: com’era possibile che io andassi in giro con una borsa simile? Ero forse uno dei delinquenti che non aveva ancora realizzato il massimo dei punti nella raccolta differenziata e che aveva fatto perdere alla città altre due posizioni? Avevo pensato di cercare un cassonetto per l’organico, ma ormai erano tutti destinati ai residenti e chiusi a chiave. Uno dei pochi cestini dei rifiuti incontrato poco dopo era difeso da una coppia che discuteva. Non potevo perfezionare la cosa: l’odore li avrebbe insospettiti. Esitavo. Insomma, sbarazzarsi di un cadavere non è mai semplice.

Trovai infine il bidone giusto poco prima della Facoltà di Sociologia. Buttai la borsa come se fosse un gesto del tutto normale, privo di qualsiasi riprovazione. Pur temendo che il sugo colasse, eseguii l’operazione al meglio. Mi fece anzi particolarmente piacere che un funzionario mi seguisse con tanta attenzione. Non ricambiai, come uno che va di fretta, visto che – senza sottilizzare – andavo davvero di fretta. Un istante dopo vibrò il cellulare. Era un sms di Patrick, non sarebbe venuto alla riunione, mi chiedeva di coprirlo.

 

3.

L’avevo fatto tante volte in precedenza, ma quella mattina non avevo proprio voglia di coprire Patrick. Non stava peggio di me e non vedevo una ragione per cui dovesse restarsene a casa. Avrei detto che mi aveva avvertito della sua assenza, cercando in qualche modo di rendere plausibile una giustificazione in realtà piuttosto evanescente. Tutto qui. Certo, lui non sarebbe venuto perché non aveva tempo da perdere, perché già ci pagavano poco (con le riunioni, poi, niente). Io invece ci andavo per due ragioni: la prima, perché – oggi come allora – sono preso da un’ossessione per cui cerco sempre di fare un lavoro al meglio; la seconda, perché avevo ormai superato la soglia dei quarant’anni, cosa che fra poco sarebbe accaduta anche a Patrick. Questa era la ragione determinante. Nel contesto in cui continuo a lavorare la gavetta degli ex-giovani si protende lungamente oltre i trent’anni, come se la cautela generalizzata di tutti i quadri amministrativi chiedesse all’uomo entrato nella trentina un supplemento di attesa, di maturità – mentre si tratta evidentemente di una richiesta fittizia, che copre a stento una posizione di forza tale da mantenere qualsiasi aspirante a un posto in uno stato di completa subalternità. D’un tratto, ecco improvvisa la rivelazione: superati i quarant’anni si è fatti oggetto di uno sguardo diverso, opposto e complementare al primo, uno sguardo che in sostanza dice che ormai, a quarant’anni, se si fosse davvero qualcuno lo si sarebbe già dimostrato, ci si sarebbe già fatti valere. Perciò, se uno ha superato questa soglia, lo si può sicuramente ignorare come si è fatto in precedenza, ma lo si più ignorare con la coscienza più leggera, sgravata dal timore. È più difficile, infatti, che ora abbia in serbo delle sorprese, pertanto si può finalmente e giustamente guardare avanti e puntare sui giovani.

Ripensai al cervo. Un esemplare adulto, fermo ai margini di una radura. Nel suo arco biologico avrà avuto un’età paragonabile più alla mia o a quella di Patrick? Ripresi in mano il telefono, scrissi un sms al capo e mi fermai di nuovo a osservare la foto di Linda di tre quarti, in posa da vamp.

 

 

4.

Avevo incontrato Linda tre mesi prima a un aperitivo fra colleghi, uno di quei momenti in cui avrei dovuto fare amicizia con altri consulenti che si trovavano più o meno nelle mie stesse condizioni, ossia una di quelle circostanze nella quali non riuscivo ancora a dare il meglio, come invece accadeva un tempo. Era a tre metri da me, a suo agio, disinvolta in un vestito verde molto leggero. Avevamo consegnato la rendicontazione di un lavoro, era andata bene, quindi a fine giornata ci eravamo fermati al bar del Centro per la Pianificazione Territoriale per brindare e lì, mentre scambiavo le mie opinioni con Carlo sopra l’andamento di alcune aziende del settore dell’abbigliamento di montagna, l’avevo vista: accompagnava un’amica che sembrava molto inserita fra i dirigenti del settore Logistica. Dopo un po’, dato che l’amica li aveva riaccompagnati in ufficio, Linda era rimasta per un momento sola a versarsi le arachidi in mano, tenendo il palmo a cucchiaio e portandoselo alla bocca in modo buffo. Mi ero messo a ridere e aveva riso anche lei. Il barista raccontava del suo terzo figlio e della scelta di adottare pannolini riciclabili, che riteneva ecologicamente determinante. Dopo aver fatto più volte naufragio, si capisce meglio che l’incontro gioca sempre un ruolo fondamentale. E quello era stato un incontro.

Squillò il telefono. Era il capo.

«Sei già in sede?»

«No, sto arrivando, perché?»

«Perché forse è meglio che rimandiamo la riunione». Nella voce si sentiva una lieve irritazione, sia pure trattenuta. «Patrick non viene, vero?»

«Mi ha mandato un messaggio»

«Appena ha saputo che Patrick non sarebbe venuto, Sofia è andata di testa, dicendo che anche a seguito dei suoi molti precedenti l’incontro deve essere rinviato perché è l’unico modo di dimostrare a Patrick che il suo lavoro è in stretta connessione con il nostro e che quindi con questo suo comportamento nuoce non solo a se stesso, ma al lavoro di équipe. In sostanza, vorrebbe dargli l’ultimo avvertimento. Le ho già fatto presente che queste prerogative competono a me, al che lei ha risposto che, pur nel rispetto delle mie funzioni, non vede perché questo tipo di comportamento – e la mia eventuale tolleranza per questo tipo di comportamento – non debbano essere rese note anche ai piani alti. Così per questa volta forse è meglio lasciar perdere. Tu il capitolo nell’ultima versione me l’hai già inviato, mi pare».

«Te l’ho spedito ieri mattina».

«Sì, benissimo. Mi occuperò io di parlare con i piani alti, con o senza Sofia; non è il caso di creare ulteriori allarmismi. So benissimo come trattare Patrick. Il fatto è che forse non ha ancora capito che con queste cazzate sta cominciando a mettermi nei casini. E io non amo molto mettermi nei casini, a meno che non sia io stesso a sceglierlo. Se questo incarico salta siamo tutti col culo per terra, chi più e chi meno. Io probabilmente meno, ma Patrick forse non se ne è ancora fatto un’idea».

«Vuoi che faccia qualcosa?»

«No, basta che tu dia un’occhiata alle varie parti del rapporto. Magari te lo mando questo pomeriggio. Se hai qualche osservazione, scrivimela. Al resto ci penso io. Non è che sia davvero preoccupato, ma la nostra situazione comincia a darmi qualche fastidio».

Mi fermai a osservare la tettoia di un’altra fermata del bus. Comunicazioni come queste potevano portare indifferentemente a un nulla di fatto o a un passo dalla fine. Non c’erano procedure formalizzate per l’espulsione di un membro dal gruppo: e non era previsto alcun soccorso per chi rimaneva indietro. Guardai l’orologio e decisi di proseguire. Avrei fatto un giro, tanto per farmi vedere in ufficio e poi sarei tornato a casa. Era quasi incredibile la fatica che avevo messo in campo nel corso degli anni per arrivare puntuale agli appuntamenti. Del resto, in questo lavoro i rinvii per motivi politici sono quasi normali. Tutto ciò che nel contesto pubblico viene svolto per decisione politica è strutturalmente pro tempore: le decisioni cambiano in fretta, e così vecchi progetti abbandonati possono essere d’un tratto e inopinatamente ripresi, a scapito di quelli in esecuzione. Accompagnando questi progetti dobbiamo seguire le decisioni assecondandone il corso, pronti a non restare troppo delusi se, a causa di un improvviso mutamento di assetto, il risultato finale viene ignorato. Da un certo punto di vista avrei potuto anche capirle, ma queste prese di posizione di Patrick mi sembravano sostanzialmente fuori luogo. Dalla firma del contratto in poi le condizioni del nostro incarico non erano cambiate in alcun modo, perciò non si capiva per quale ragione accampasse pretese di lavorare meno, di essere trattato meglio, secondo un modello ideale che, per quanto fosse dettagliato, non per questo si rivelava meno dolorosamente anacronistico. Povero Patrick. Chissà, forse stava lottando per un riconoscimento da portare in dono a sua moglie.

Linda ritornava ciclicamente nei miei pensieri. Non avevo ancora fatto l’abitudine alla sua presenza, anzi continuavo a stupirmene. D’altra parte, anche lei era piena di sorprese. Due domeniche prima, ad esempio, mentre eravamo in un rifugio in alta montagna, aveva preteso il suo milk-shake alla fragola come se fosse un bene indispensabile in quel contesto, in grado di illuminare l’ambiente «come un profumo esotico», aveva specificato. Naturalmente, era  consapevole dell’incongruenza della sua richiesta. Lo aveva fatto apposta, di fronte alla decina di donne di mezza età impegnate in una passeggiata elementare, bardate da capo a piedi come se dovessero percorrere un sentiero himalayano.

Sì, avrei dovuto fare qualcosa per me, ma continuava a mancarmene la forza.

 

5.

Arrivato in sede, salutai un funzionario che ripartiva in macchina per la filiale. Feci un cenno al portinaio. Vestito di tutto punto, con lo zaino porta computer e la mia borsa da lavoro mi sembrava di essere splendidamente in parte. Salite le scale, stavo per entrare in ufficio quando sul corridoio mi venne incontro il capo, sempre elegante, ma con una lieve increspatura nell’espressione.

«Patrick è fuori. Mi dispiace, ma non posso farci niente», disse, senza alterare il tono della voce.

Guardai un po’ i fogli disposti sul tavolo.

Poi il capo riassunse la cosa. Patrick era un consulente capace, una brava persona. Ma esagerava. E questa volta aveva assunto una posizione indifendibile. Glielo avevamo ripetuto più volte che in questo contesto avrebbe dovuto essere puntuale, che non poteva fare sempre di testa sua, che non poteva presumere troppo dalla comprensione dei funzionari, invece lui aveva continuato a tirare la corda, pretendendo di saperla lunga, dicendo che dovevamo farci rispettare, che forse, davanti a una nostra richiesta sarebbero stati ben disposti, che in fondo non potevamo per principio pensare così male dei nostri interlocutori. Il fatto era che, raggiunti certi limiti di età, anche l’ingenuità – se di questo realmente si trattava, nel caso di Patrick – diventava una colpa. «Vuole che gli portino il cocktail a letto, questo è il punto, ma qui è abbastanza se gli tirano dietro un osso. Vorrei essere chiaro: qui fra poco non ci sarà più niente da mangiare, neanche qualcosa di vagamente commestibile».

Nelle mie prime esperienze di consulente in circostanze di questo tipo ero intervenuto in modo brillante, esibendomi in impegnativi esercizi retorici, ma col passare degli anni avevo preso a restare più sulle mie, a rimanere quasi in silenzio. Il clima era cambiato, non c’era più una minima fiducia, gettarsi nell’ignoto non era più un’avventura: soprattutto, pochi ormai erano disposti a concederti queste tirate argomentative (la direzione le considerava ininfluenti). Col capo ero d’accordo, era bastato un cenno. D’altra parte, le voci dei consulenti che recitavano che la perdita di un impiego andava interpretata come un’opportunità di rilanciarsi erano sparite nel nulla assieme a loro. Dissi che avrei sentito Patrick, che avrei cercato di valutare con lui il da farsi. Qualcosa avremmo trovato. Ci poteva contare. Certo, nel lavoro era richiesto un rigore crescente. Non si poteva sgarrare, certe cazzate un tempo ammissibili ora erano state messe definitivamente al bando. Lo spazio per la contrattazione si era ridotto al minimo. La prima volta che ero uscito con Linda ero andato a una festa in cui avevamo fatto tardi. C’erano forse trenta persone, tante per i miei gusti, luci un po’ troppo bianche, musica noiosa. Lei si era guardata allo specchio, mi aveva portato in un angolo e recitando senza convinzione mi aveva detto in un orecchio: «Perché facciamo tutto questo?» Io osservavo gli invitati. Ci eravamo messi a ridere. Stava così bene con quel vestito rosso.

Dal corridoio avvertimmo un distinto rumore di tacchi. Sofia bussò ed entrò dalla porta dell’ufficio con espressione decisa.

«Beh, manca solo Carlo, no? Visto che ci siamo quasi tutti, perché non cominciamo la riunione?»