Nel giardino zen del Gobbo Divino.
Con una lettera di Gianni Celati del 2013

Il 5 ottobre è uscito il nuovo libro di Massimo Rizzante, Il geografo e il viaggiatore (Effigie, 2017). In esclusiva per i lettori di Zibaldoni proponiamo la prosa conclusiva che riassume con maestria immaginifica il contenuto saggistico dell'opera, dedicata a Gianni Celati ed Enrico De Vivo, qui nelle vesti insospettate di personaggi del racconto. In coda, una lettera inedita di Gianni Celati.

di in: De librisGianni Celati

Qualche tempo fa, leggendo i saggi immaginari di Enrico De Vivo, a un certo punto ho sognato che Leopardi, il Gobbo Divino, ritornava dal’Ade ai piedi del Vesuvio.

Era intento come un maestro zen a meditare nel suo giardino.

Nel giardino, circondato da un’alta siepe di alloro, non c’erano né rose né ginestre, ma rocce, erbetta, ghiaia e qualche pino marittimo. Ad ammirarlo da dietro la siepe c’era un po’ di gente: i grandi napoletani scomparsi, qualche anziano con in mano un sacchetto della spesa, un gruppo di islandesi in vacanza e alcune belle guaglione scampate alle grinfie dei nuovi melodici del Vomero. C’erano anche Gianni Celati e Italo Calvino.

Ho sognato che io, Enrico e Gianni, lontano dalla peste della cronaca nera, sorprendendo un po’ tutti, ci facevamo largo tra la piccola folla di curiosi, entravamo da una porticina di legno nel giardino e ci sedevamo accanto al maestro, raccontandoci storie che ci aiutavano a vivere e a morire.

Questo gliel’ho scritto a Enrico. Quello che non gli ho detto però è che il Gobbo Divino, dopo pochi minuti, si seccò: «Perché mi disturbate con le vostre chiacchiere? Non vi basta guardare con intensità quello che c’è? Lo sapete o no che non esistono muse naturali?».

Gianni, senza esitare, prese un taccuino e si appuntò l’ultima frase del maestro. Io e Enrico incrociammo per un attimo gli sguardi. Che cosa voleva dire il Gobbo Divino? Che cosa significavano quelle parole: «Non esistono muse naturali»? Forse che la Natura è muta, indifferente? Sì, lo sapevamo. Guardarla con intensità era l’unica cosa che potevamo fare? D’accordo. Era questo il segreto del piacere umano? Lasciar fare alla Natura?

«La legge universale alla quale l’uomo saggio può solo accennare, dato che ogni opposizione si mobilita solo per riaffermare l’eterno divenire, dovrebbe orientarci ogni giorno», continuò il poeta con un certo ardore, vedendoci tutti e tre un po’ perplessi.

«Lo so, all’inizio del nostro modo di pensare non c’è la saggezza, concepita come umile adeguamento a ciò che appare, ma la filosofia, un amore talmente assillante per la conoscenza che ciò che appare deve essere colto in tutta la sua necessità. La nudità del tempo che passa è sempre stata sospetta ai nostri occhi: il fiume delle cose deve essere riportato alla sua fonte, all’Uno, all’Essere, alla Verità, a Dio. Il divenire, insomma, deve essere fermato, ipnotizzato, trasceso, detto. Solo così ci sentiamo meno smarriti, meno prede e più predatori».

Proprio in quel momento Enrico si schiaffeggiò con vigore la collottola in cerca di una zanzara e, avendola mancata, si schiaffeggiò un’altra volta, e poi ancora un’altra, e un’altra ancora, senza mai colpire il bersaglio. Fino a quando il Gobbo Divino, spazientito, gli corse in aiuto e dalla sua relativa altezza gli affibbiò un preciso manrovescio, lasciando sul campo di battaglia della sua nuca un morto e un ferito.

«Se penso all’arte… stavo dicendo, vedo il poema epico, la tragedia, le statue della Grecia classica. Vedo l’Iliade: la storia di un assedio dove uomini e dei si combattono; vedo l’Odissea: la storia di un viaggio e di una grande nostalgia; vedo l’eroe tragico, la sua hybris, la sua sfida agli dei, il suo desiderio di essere come loro, di non seguire il fiume delle cose, di vincere la corrente; vedo i kouroi e la volontà dell’artista di rappresentare il più realisticamente possibile il volto e il corpo dell’uomo».

Un anziano con il sacchetto della spesa, desiderando vedere più da vicino tutte le meraviglie che il Gobbo Divino stava enumerando, si appoggiò un po’ troppo con il busto al cancelletto di legno e se ne volò al di là con una capriola. Gianni, vedendo un liquido rosso spargersi sulla ghiaia, si preoccupò e aiutò il vecchio a rialzarsi. Non sanguinava: nel sacchetto della spesasi era rotta una bottiglia di Lacryma Christi rosso rubino, talmente vivace e prorompente che sembrava venuto fuori da un corpo martoriato.

«La storia dell’arte occidentale – procedette come se nulla fosse il poeta – è la storia di un assedio in cui l’uomo, lungo il suo viaggio nostalgico per tornare da dove è venuto, invoca le Muse per sfidare gli dei al fine di rappresentare nel modo più perfetto se stesso – proprio come se fosse un dio, proprio se, come un dio, possedesse la perfetta misura della bellezza».

Tutti stavano in silenzio. Perfino le guaglione del Vomero si erano lasciate trasportare dalla brezza delle parole. Si aggiustavano il seno prosperoso, aprivano le borsette, estraevano un lucida-labbra, si scioglievano i capelli. A parte una certa indolenza, non c’era nulla di provocatorio nei loro gesti. Gli anziani con in mano il sacchetto della spesa si erano avvicinati alle ragazze. Ma mantenevano una giusta distanza. Gli islandesi, a torso nudo e completamente rasati, camminando a carponi riuscirono a intrufolarsi nel giardino, così chele loro teste, sotto il sole, spuntavano dalla siepe di alloro come tante monete luccicanti.

Il Gobbo Divino continuò: «Dovremmo imboccare un altro sentiero: quello dell’accettazione di ciò che alle origini anche noi occidentali abbiamo chiamato Natura: il fluire ininterrotto che cancella la frontiera tra soggetto e oggetto. E immaginare l’artista non come un uomo assediato dalla sua sfida con gli dei per la conquista della bellezza, ma come qualcuno che dimora sulla soglia e che si fa strumento sempre duttile, e allo stesso tempo fedele, dell’eterno divenire. Dobbiamo cercare di pensare l’arte come quel sentiero su cui stiamo camminando. Lungo il sentiero si possono incontrare uomini, donne, bambini, essere attratti da un riflesso di luce, incappare in manie, fermarsi a guardare le nuvole, sfidare il pericolo, saltellare presi da un appetito del nostro corpo, ritornare sui nostri passi, sostare sotto un albero, essere costretti a sospendere per un umore del momento le nostre abitudini. La cosa importante è restare disponibili, vulnerabili, né tristi né felici, ma figli della crudeltà e della tenerezza della Natura. Né dobbiamo sentirci assediati, o in guerra, allo scopo di imporre il nostro ordine a ciò che non può essere delimitato. Meglio lasciarci investire da ciò che appare e rispondere ai richiami di quello che vediamo affiorare dal sensibile senza avere la pretesa di fissarlo in un’astrazione o in una metafora. Nella Natura non esistono muse. Non è vero che bisogna erigere un sipario tra noi e la Natura per poterla osservare più in profondità. Non è vero che siamo ciechi o che il nostro sapere è umbratile. E finché non ci libereremo dall’angoscia di decifrare, ovvero di credere che la Natura ci nasconda qualcosa, foss’anche una lingua dimenticata che l’umanità parlava durante la sua infanzia e che dovrebbe a tutti i costi ricordare, non riusciremo a entrare nel regno della gratitudine, dove si dice grazie a ciò che appare e che passa. Per fare questo, mi sono convinto che la nostra civiltà occidentale dovrebbe accettare ciò che Lao Tse ha detto molte volte in modi diversi ma perseguendo sempre il medesimo fine: “La via è qualcosa di assolutamente vago e inafferrabile”. Tutto è vago. Del resto se non ondeggiassimo nel vago non avremmo nessuna possibilità di partecipare al movimento della Natura, che appunto si dà nella sua vaghezza. In Natura tutto è desiderabile perché è vago».

«Come? – chiedevo con un filo di voce a Enrico. La via, ovvero la verità, ciò per cui la stessa vita assume un senso ed è degna di essere vissuta è qualcosa che, per la sua stessa natura vaga, imprendibile, indefinita, ci rimarrà per sempre precluso? Io stesso dunque sono qualcosa di inafferrabile? Ma allora non ci rimane nulla…». Enrico scuoteva il capo. In realtà non capivo se era lui a scuotere il capo o se il suo capo ciondolasse indipendentemente dalla sua volontà. Non so neppure se avesse sentito la mia domanda. Forse non aveva ancora del tutto assorbito il colpo di mano del poeta. Forse il caldo dell’estate partenopea cominciava a infastidirlo. Forse era stata la mia domanda a farlo…

«Sì, è così – ricominciò il Gobbo Divino, come se il suo orecchio assoluto abituato a un silenzio altrettanto assoluto avesse captato con precisione le mie parole. Solo che il nulla di cui parlo non è il deserto del nichilismo occidentale».

«No, no, certo…», bofonchiai colpevolmente.

«Non è il punto finale della metafisica… ma il punto di inizio da cui si parte per entrare in sintonia con la Natura, o se si vuole con quello che una volta abbiamo chiamato Cosmo. Ma ancora: io non parlo del Cosmo come spiegazione del Caos, come volontà di imporre una forma a ciò che è vago e inafferrabile. Aristotele, come prima di lui Platone, sapeva che il Cosmo è figlio del Caos e che a quest’ultimo avrebbe fatto ritorno. Solo che per il greco, come poi per l’uomo occidentale, tale consapevolezza ha sempre ceduto al desiderio di dare forma, all’hybris infinita di offrire un ordine, per quanto precario, alla molteplicità degli elementi eterogenei sospesi nel Caos. Per Lao Tse, invece, “la più grande immagine non ha forma”. Questo permette alla nostra più grande facoltà, l’immaginazione, di liberarsi da quel vincolo ridicolo: l’esprimersi. Che cosa significa “espressione” per qualcuno per il quale è irrilevante il territorio dell’ego e per il quale non c’è nulla di così reale come il compenetrarsi di ogni essere vivente con il mutare infinito delle cose? Non c’è assedio, non c’è guerra, nessuna Iliade, nessuna Odissea, nessun viaggio nella nostalgia, nessuna tragedia, nessun atteggiamento di sfida nei confronti degli dei nel processo di creazione di chi guarda con intensità la Natura che passa. Di più: non c’è neppure creazione, nel senso che noi occidentali di solito diamo a questa parola. Creare significherebbe agire, commettere in altre parole un’azione contraria al divenire, mentre compito dell’artista, come di qualsiasi altro uomo, è quello di assecondarlo. Solo così il sentiero su cui stiamo camminando non avrà fine».

Dopo queste parole, la presenza del Gobbo Divino nel giardino zen alle falde del Vesuvio e di tutta la compagnia di morti imperlati di sudore cominciò a dissolversi, confondendosi in un battito di ali con i vapori acquei sprigionati dal vulcano.

Quel che nel mio sogno il Gobbo Divino aveva detto, rimettendo in gioco le ombre degli antichi pensatori, dell’Arso Vivo, del Giambattista Furioso e di tutti noi, aveva un senso. Ma ora non me lo ricordo.

Quel che ricordo è che qualcuno, forse Italo Calvino, che era rimasto per tutto il tempo in disparte rispetto agli altri spettatori, disse, incespicando un po’ nelle parole: «La prima volta non esiste… La prima volta è la vita… La seconda volta è la letteratura». E, infiammatosi per un istante nell’aria come un lapillo, si spense precipitando su una roccia.

Gianni ed Enrico se ne erano andati. Li vedevo inerpicarsi in lontananza: due esseri senza protezione, vaganti, immersi nel flusso dei loro pensieri e dei loro umori, uno magro e alto, l’altro più grosso e con la testa ciondolante, che alzava ogni tanto un bastone da montagna in segno di saluto. Avanzavano lentamente. Avevano preso il sentiero per il Gran Cono, che li avrebbe portati ad attraversare la Valle dell’Inferno e, se tutto fosse andato bene, a ridiscendere verso Ottaviano, attraverso la Valle delle Delizie. Lasciamoli fare, lasciamo fare alla Natura!

Ritornando verso Angri, pensavo alla prima volta che avevo fatto l’amore con una ragazza che poi, diventata donna, era morta di cancro. Pensavo al cancro dell’innamoramento, al cancro del sesso, malattie lunghe e inguaribili, e al fatto che per quanto vogliamo prendere con umorismo i nostri modi di stare al mondo, questi sono tutti incatenati alla prima volta, alla prima irripetibile discesa nel magma ribollente di un corpo estraneo. Eppure Calvino, o quel lapillo infuocato, aveva detto che «la prima volta non esiste». Sì, ora forse capivo quel che aveva voluto dire.

Quando andiamo in giro, all’aperto, o siamo occupati in una stanza a fare qualcosa, a essere qualcuno, viviamo tutti nell’oblio di noi stessi. Spesso non ci ricordiamo neppure l’età che abbiamo. Ogni situazione ci impone di agire in un modo o in un altro, ci spinge a trovare sempre nuove soluzioni, a calcolare in fretta i vantaggi e gli svantaggi, a sfuggire alle trappole. Se però vogliamo non solo vivere o essere toccati dall’eccitazione del vivere, ma vedere la vita, se vogliamo passare da una cecità dimentica di sé a una cecità produttiva, non abbiamo altra scelta che la seconda volta dell’immaginazione. La letteratura è questa riflessione immaginaria che ci rivela quello che altrimenti, quando viviamo, non possiamo esplorare, e che ci permette di trascendere le singole situazioni in cui siamo prigionieri e di cui, quando viviamo, non comprendiamo non dico il senso, ma neppure la concatenazione. E la seconda volta, a differenza della prima, ha bisogno dei suoi cerimoniali, del suo tempo, dei suoi artifici.

Creare, e qui misuravo tutta la distanza tra il Gobbo Divino nel suo giardino zen e le parole del lapillo infuocato, è commettere un’azione contraria al divenire. Non è assecondandolo, non è partecipando al suo ininterrotto fluire che riusciremo a sentirci meno smarriti, ma solo facendo un passo di lato.

Tuttavia, questo piccolo passo che ci conduce alla creazione è tutto fuorché frutto della volontà. Forse perfino l’anima di Italo Calvino era cosciente di quanto qualsiasi opera di qualsiasi uomo fosse debitrice all’estro, all’istinto, a quegli incontrollabili umori che non si sa da dove vengano e dove fuggano.

Tutti noi, mi dicevo, quando ormai mi stavo avvicinando alle prime case di Angri, scrittori, anziani con il sacchetto della spesa, turisti islandesi in vacanza, giovani guaglione del Vomero in cerca di marito, viviamo sotto un vulcano e non sappiamo quando le esplosioni dell’immaginazione cominceranno né quando finiranno. Quel che possiamo fare è essere grati se qualche immagine ci piove in testa e, invece di stordirci, ci fa bruciare come un lapillo infuocato, non importa se per un attimo o un secolo.

«L’immaginazione – aveva detto il Gobbo Divino, prima che tutta la compagnia evaporasse – è la più feconda e meravigliosa rinnovatrice dei rapporti e delle armonie più nascoste».

Lo sento ancora, con la sua voce stridula, infantile, così simile a quella di Fellini, ripeterlo ad alta voce, mentre curvo come un ramo livella con un piccolo rastrello la ghiaia del giardino.

 

*

 

Brighton, 26 giugno 2013

 

Caro Massimo,

ora sono qui con la mia lettera (ora la nostra) e ti seguo con piacere di qua e di là. So che sei a Tokyo da molti mesi e che stai lavorando con i tuoi amici e i tuoi studenti alla traduzione dei miei Narratori delle pianure. A te e a loro voglio dire alcune cose.

Io sono cresciuto in una famiglia dove si leggevano molti libri, tra mio padre,mio fratello e me. Ognuno aveva gusti speciali. Mio padre era un appassionato di autori classici, particolarmente di Dante e di Ariosto e sapeva recitare a memoria lunghi passi dei loro poemi. Mio fratello a soli quindici, sedici anni era già appassionato di autori moderni, realisti, che irritavano mio padre e creavano diverbi.

Io ero il più giovane e ho imparato il gusto della lettura verso i sedici anni, spinto da mio fratello, ma con una scelta di libri del tutto diversi. Mi piacevano i poeti moderni, e mi piaceva tradurre in italiano quelli francesi e inglesi. Ma i poeti che mi hanno più attirato sono quelli giapponesi e cinesi. Tra i libri cinesi ne conservo uno, che continuo a leggere da quarant’anni, ed è un libretto di un autore di nome Wang Wei, delicato poeta che parla di incontri e viaggi, attento a tutti gli aspetti della vita. Un altro poeta cinese (tradotto in francese) si chiama Yang Wan Li, nato verso l’anno mille. Io continuo a leggerlo da trent’anni, per la sua attenzione ai fenomeni atmosferici, tra cui la pioggia, evocata con poesie che mi attirano sempre.

Quando sono andato all’università, ho raccolto vari libri di poesie giapponesi,

e in particolare raccolte di haikai, oppure le poesie che si trovano nei diari delle dame dell’antico Giappone. Poi mi appassionavano le vite dei poeti giapponesi, come ad esempio la vita di Basho – il più importante poeta di haikai – e i suoi viaggi in luoghi sconosciuti dell’antico Giappone.

Un altro aspetto giapponese che ha segnato il mio gusto è il cinema. Sono sempre stato un appassionato di cinema, ed ero molto giovane quando ho visto per la prima volta un film giapponese del grande regista Kurosawa, intitolato Rashomon. Era un film dove pioveva sempre, e suggeriva un mondo esterno molto diverso da quello dei film consueti. Per anni l’ho rivisto cercando di capire il suo significato. Poi ho visto altri film di Kurosawa e gli straordinari film di Kengi Misoguchi, i film di una modernità sorprendente di Ozu, che hanno contribuito a trasformare l’intero cinema europeo – almeno per quanto riguarda i nostri film d’avanguardia.

Vengo ora a parlare del mio libro Narratori delle pianure del 1985. Avevo già scritto tre libri, e questo è stato una prova per me, siccome è scritto in un modo molto insolito. Il direttore della mia casa editrice diceva che avevo scritto frasi troppo sommarie e dovevo cambiare tutto, dovevo spiegare meglio la psicologia dei personaggi. Avevo amici che mi chiedevano: «Perché hai scritto così? Nessuno scrive in questo modo». Poi ho vinto un premio abbastanza importante e questo ha trasformato l’opinione di molti.

È un libro fatto con trenta racconti molto brevi, dove tutto è detto con il minimo di parole, senza modi di scrivere romanzeschi. I libri che trovate nelle librerie sono soprattutto romanzi, cioè un genere letterario ormai mondiale e che produce il massimo successo. Io invece mi sono aggrappato alla tradizione della novella italiana, che non interessa a molti e che produce pochissimi libri di successo. Ma questa è stata la svolta del mio modo di scrivere, perché mi interessava recuperare un genere letterario lasciato in abbandono.

Tra il 1983 e il 1984 ho passato mesi nelle osterie di campagna per vedere come sono raccontate le storie quotidiane, che sono le eredi della novella. Tradizionalmente la novella è un racconto breve, basato su fatti di cui si è sentito parlare, senza psicologia dei personaggi, dove le storie sono raccontate come si fa in famiglia, o tra amici, in poche parole, senza significati profondi. Italo Calvino mi ha detto «sono racconti di superficie». Voleva dire che non approfondivo gli argomenti trattati. Li lasciavo in superficie, come si faceva con le novelle. La cosa più importante era il paesaggio quotidiano, le cose, gli incontri, le persone, i luoghi, il clima di ogni giorno.

Ora, vi sembrerà strano, ma tutto questo che ho detto per spiegare le mie novelle, ha qualcosa in comune con le poesie giapponesi, i racconti giapponesi e i film giapponesi. Ed è l’importanza dell’ambiente, dell’atmosfera, dei fenomeni esterni, più che la psicologia dei personaggi. Questa è una caratteristica che il cinema italiano del dopoguerra ha condiviso con il cinema giapponese – ad esempio i film di De Sica e di Zavattini, come Ladri di biciclette, o i film di Fellini come La strada e I vitelloni. In questi film l’aspetto esterno è più importante di quello interno dei personaggi. E i fenomeni dell’ambiente e dell’atmosfera sono gli aspetti più importanti per dare un senso al mondo – come la pioggia battente in Rashomon, o come in un altro film giapponese (non ricordo il titolo) dove c’è una donna in un mare di sabbia, e la sabbia è ciò che dà senso al mondo. I romanzi tendono a penetrare nei segreti dei personaggi. Invece in questo modo di pensare, di fare film o di scrivere novelle (penso alle mie novelle), la cosa importante è l’atmosfera esterna, gli effetti del luogo. Per meglio dire: un modo di guardare dove non c’è separazione tra il pensiero dell’individuo e il mondo che lo circonda.

Non so se mi sono spiegato bene, ma a te, Massimo, e ai tuoi studenti vorrei dire infine una cosa per me fondamentale. Noi non siamo mai veramente separati dagli altri, né separati da ciò che riguarda l’atmosfera e i fenomeni esterni. Noi siamo tutti collegati l’uno con l’altro, anche se tu adesso sei a Tokyo e io qui nella campagna inglese, anche se adesso tu parli giapponese e io non riesco più a parlare inglese. Io mi comporto in certi modi e ho parlato a te e ai tuoi studenti in un modo, per mostrarvi un possibile collegamento tra me e voi.

 

Gianni

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