Daddy Love

di in: Bazar

Il mondo mi è caduto una mattina. Percorrevo i marciapiedi diretto al lavoro, ma non ho raggiunto nemmeno la fermata dell’autobus. Nei meandri bui oltre i miei timpani qualcosa si dev’essere spostato. Muscoletti e ossicini si accavallano, membrane e cartilagini aderiscono. Prima sento come ovatta nei condotti uditivi, poi un torpore tra tempie e mandibole diventa vertigine, neanche precipitassi dal tetto di questi edifici ai miei lati. E questa strada, che un attimo fa mi si apriva davanti, slitta di fianco, quell’asfalto sui gomiti e in bocca.

Per fortuna quella mattina un passante mi ha sorretto a ritroso, finché ho trovato il portone, il divano. Da allora sono costretto a pregare chi chiede mie notizie per telefono di ripetere più forte. Ma il vero guaio sono i capogiri: un giorno si manifestano una volta sola, senza distinguere se sto in piedi ai fornelli o seduto a leggere, il giorno dopo sembrano finiti, il giorno dopo ancora non lasciano che mi alzi da letto. La lunga degenza mi ha dato tempo – oltre che per la scrittura – per le analisi: equitest, esame del potenziale evocato vestibolare miogeno (Vemps), audiometria tonale, impedenzometria, Tac, misurazione della pressione intracranica, sideremia. Per ogni specialista una diagnosi. Labirintite? Cervicalgia? Sindrome di Ménière? Il mio male non si vede, non si palpa, non si ausculta. Va immaginato. Come? Come possono minuscoli organi dai nomi e forme involuti, annidati dove neanche sembra darsi spazio, dettare legge sull’equilibrio di un corpo intero, di una persona? E come dovrei rappresentare il loro inganno? Quell’inganno riesco soltanto a viverlo, ogni volta che mi sento cadere da sdraiato o che sono costretto a declinare un invito degli amici o a rinunciare a prendere il giornale in edicola.

Mio padre continua a cavarsela senza me.

«Pìcaro, cosa mi racconti? Sempre agli arresti domiciliari?»

«Daddy Love, almeno oggi mi reggo in piedi. E tu dove sei?»

«Sto facendo la spesa.»

Immagino il suo andirivieni tra le corsie del supermercato, il lento slalom tra clienti e carrelli, la stessa disinvoltura di quando partiva per i convegni all’estero. «Beato te…»

«Su su, lavori per lo Stato: la tua malattia è pagata!»

«Be’, come un medico dell’ospedale.»

«Io non mi ammalavo mai… Posso fare qualcosa?»

«Tipo?»

«Visitarti.»

Le proposta zigzaga disinvolta da un nodo all’altro della rete telefonica fino al mio apparecchio.

«Di medici ne ho già visti troppi, ultimamente…»

«Allora pazienza e riposo.»

La fa facile, mio padre. Mica passa il tempo a deglutire nel tentativo di far esplodere quella sensazione di bolla fissa nelle orecchie. Mica i suoi assi corporei si sono confusi al punto di doverli tenere tutti contemporaneamente appoggiati sul materasso. Mica deve preoccuparsi, lui, di quante svolte, angoli, curve, deviazioni, L e punti ciechi gli complicano lo spazio vitale. Mica è arrivato, mio padre, al punto di sognare di abitare in un quartiere costituito da un’unica gigantesca piazza, sgombra e tersa come una pagina non scritta: un quartiere dove ogni luogo sia raggiungibile con un percorso in linea retta, senza ostacoli, animati o inanimati, da scansare.

Un giorno, dopo le prime due settimane di malattia – due settimane di isolamento, fisico e sonoro – mi è presa smania di andare in ufficio. Non che volessi lavorare: nemmeno credevo di riuscirci. Avevo, semmai, bisogno di rivedere i colleghi, manifestarmi ai dirigenti, ricordare a tutti la mia esistenza.

Il tragitto da casa alla fermata dell’autobus non è rettilineo. Implica tre svolte, se percorso da nord, quattro da sud. Pur di non darla vinta al panico, avevo passato ore, in quelle due settimane, a studiare il mio male, ad addestrarmi. Le traiettorie dritte – soprattutto se aperte e arieggiate come quelle della mia zona – in genere non davano problemi: si vede che quel tipo di andatura non infastidiva i miei piccoli, suscettibili sensi dell’orientamento. Difficile era curvare: la minima sterzata avviava un frullato di punti cardinali. La destra passa a sinistra, il sopra smotta sotto, il dentro vomita fuori, la spina dorsale si scollega dagli occhi, l’orizzonte attraversa l’ombelico, niente ha più orbita. E questo sconvolgimento con il tempo si radica tanto a fondo che scardina i pensieri. Mi bastava dover aggirare un ostacolo qualunque – una scarpa sul pavimento, una cacca di cane sul marciapiede – per sentire dentro – o forse era fuori – i violenti rimbalzi di chi pativa da troppo quella situazione. Non c’è voluto molto perché cominciassi a parlare di me anche in seconda e terza persona. Io ero quello che aspettava di guarire. Tu il malato. Lui quello che un tempo era sano. A me era venuta voglia dell’ufficio, quel giorno, perché lui aveva l’abitudine di andarci, anche se tu avresti fatto meglio a riguardarti in casa.

Ma tu sapevi che procedendo dritto, con tutta calma e nessuna esitazione, saresti stato bene. Al contempo non ignoravi che, scegliendo il percorso da nord, ti aspettavano al massimo tre svolte ad andare e tre a tornare. La prima, l’angolo di una casa: l’edificio rosso a tre piani che chiude l’isolato. La seconda svolta arriva a circa trecento metri dalla precedente, segnata da una siepe di lentaggine. La terza, di nuovo una casa – un’orrenda palazzina anni settanta affacciata sul corso principale – precede la fermata di pochi passi. Le avresti sapute affrontare. Non erano troppe né incognite. Lo avresti fatto per gradi, appoggiandoti al muro. Il palmo destro si allontana dal fianco in cerca della parete, brancola fino a toccare la superficie granulosa, allora il piede destro lo imita, seguito pian piano da spalla, anca, guancia. Il marciapiede come una cengia rocciosa, tu uno scalatore inesperto. I passanti avrebbero commiserato quella T umana strisciante da una faccia all’altra dello spigolo murario, qualcuno avrebbe offerto assistenza. In caso d’insuccesso, un aiuto l’avresti rimediato: nel nostro quartiere vive tanta brava gente.

Così hai afferrato chiavi, telefonino e portafoglio dallo svuotatasche e via.

Erano quasi le nove di una mattina fresca di metà settembre. Hai sceso le scale non senza fatica, confortato dall’avere comprato un appartamento al primo piano: dopo due rampe e mezzo aggrappato al corrimano, eccoti al portone. Hai pigiato il pulsante dell’apertura automatica. Uno scatto attutito, come previsto. Hai spalancato il battente. Dal cortile è entrato nelle narici l’odore dell’estate consumata. Ti aspettavi anche questo. Hai chiuso gli occhi, per rilassarti e concentrarti. In testa avevi la mappa del percorso e pregustavi la piccola avventura che ti attendeva. Varcando la soglia del palazzo hai compiuto il tuo primo passo in cortile, verso il cancelletto che dà sulla strada. Ma proprio in quel modo hai commesso il tuo unico, ultimo errore. Non avevi calcolato che il cancelletto si trova a sinistra del portone. Raggiungerlo dalla soglia significa girare su se stessi di novanta gradi prima di avviare la brevissima camminata che copre la distanza. Forse perché non avevi programmato quell’ulteriore, preliminare svolta, o perché non eri ancora pronto, o perché si è presentata troppo presto: sei caduto. Sensazione di precipitare in avvitamento dentro se stessi, dalla calotta cranica alla cassa toracica agli stinchi. Vorticare dentro qualcosa che vortica dentro. Chi è il mondo? Dov’è chi? E quando?

In passato non era così. Il passato ha le sembianze di un uomo normale, né brutto né bello, né alto né basso, né povero né ricco, né fortunato né sfortunato. Ma sano. Con un lavoro. Con degli amici. Qualche storia sentimentale. Ogni tanto un treno, un aereo, una vacanza. Un uomo che nel quartiere e sul pianeta sapeva dove andare, andava dove voleva. E da bambino sapeva scappare, scartare di lato, seminando adulti e coetanei.

Vorrei incontrare quell’uomo sano. Vorrei imbattermi in lui nel reticolo di strade del quartiere. Sarebbe bello scontrarsi a un incrocio. Ci diremmo delle cose. Ce ne andremmo affiancati.

Invece incontro mio padre. Succede quando sono malato da più di due mesi. Un pomeriggio esco di casa se no impazzisco. L’umidità autunnale rende scivoloso il marciapiede, il muro del palazzo e ogni altro appoggio. Barcollo senza meta lungo la strada di casa quando scorgo una mano grinzosa spuntare dallo spigolo dell’edificio rosso che chiude l’isolato. I vecchi polpastrelli tastano l’intonaco finché emerge l’intero braccio. Qualche secondo ancora e riconosco la faccia, puntellata contro la parete. Appoggia la guancia contro lo spigolo mentre muove a piccoli scatti il resto del corpo.

Reggendomi alla stessa parete gli vado incontro. «Daddy Love, sei malato anche tu!»

Le sue labbra si muovono, la sua voce sembra scesa dal tetto.

«Che dici? Parla più forte!»

«Ho detto che stavo venendo a trovarti per dirtelo!»

Per un po’ chiacchieriamo sul marciapiede, entrambi con un braccio contro la casa rossa, tremolanti.

«Non dai l’impressione di stare tanto male.»

«L’ho buscato in forma meno acuta. Tu cosa mi dici?»

«Niente di nuovo…»

«Sei troppo solo. Troppo. Cos’avrai mai paura di trovare, girato l’angolo?»

«Eh? Io! E tu?»

«Senti. Forse so come possiamo uscirne. Mi sono ricordato un vecchio rimedio. Fammi provare… Tra qualche giorno ti dico!»

Infatti tre giorni dopo, verso sera, mi telefona. «Ci sono riuscito. Ti aspetto da me!»

Quando il taxi posteggia davanti al suo numero civico, mio padre staziona al cancello di fianco a una sedia a rotelle vuota. Mi spinge fino al portone. Gli scalini fino all’ascensore devo salirli a piedi, mentre lui issa la sedia con facilità.

«Daddy Love, sei guarito…»

Non visito casa sua da prima di ammalarmi. La trovo silenziosa e buia. L’unico chiarore viene dal fondo del corridoio, dove si trova la mia vecchia camera. Lo seguo là senza fiatare. Una candela brucia sul comodino. Sul pavimento c’è una scatola da pronto soccorso, aperta, dalla quale deborda materiale simile a gomma-piuma biancastra.

«Tranquillo. È un rimedio che usavo quando lavoravo in ospedale. Non molto scientifico. Scopri il torace e sdraiati sul letto.»

Mentre mio padre mi massaggia la schiena, contemplo la porzione di parete sopra la cassettiera, da dove tutte le foto di famiglia e i poster musicali sono stati rimossi. Vedo solo un riquadro rischiarato dalla luce ondeggiante della candela. La tapparella è abbassata. Io fisso il biancore. Intanto odo mio padre agguantare materiale piumoso da dentro la scatola del pronto soccorso.

«Adesso ti applico questa roba, fissandola con la cera calda.»

«Brucia?»

«No…»

«Funziona?»

«Con me ha funzionato.»

«Scusa, come sei riuscito a impiastrarti la schiena?»

«Tranquillo, lasciami fare…»

Sento le sue mani grinzose spargere gomma-piuma – o qualsiasi altra cosa sia – sulle mie scapole. Provo un piacevole senso di leggerezza.

«Se non funziona neanche così, ti porto via.»

«Un viaggio?»

«Quando eri piccolo ne abbiamo fatti tanti. Spagna, Inghilterra…»

«E adesso dove mi porteresti?»

«Dove non troveresti ostacoli: nel deserto.»

A quelle parole il chiarore nella camera traballa, sulla parete il riflesso luminoso fluttua in linee sghembe e ovali oblunghi: mio padre ha afferrato la candela, ne sta versando le gocce sulla gomma-piuma. Avverto attimi di calore, nessun dolore però. Anzi, le tempie cominciano a svuotarsi.

«Sai che va già meglio?»

Mio padre continua a incerarmi le spalle. I giochi di luce sulla parete danno un’illusione di trasparenza acquatica. E più la fiamma traballa, più mi sento saldo.

«Quando avevi l’influenza da piccolo stavi giorni sdraiato qui. Io mi sedevo accanto a te, come ora, e ti leggevo le storie della mitologia greca.»

«Sono diventato grande, mannaggia…»

«Macché mannaggia. La tua vita non ha guasti o punti ciechi, Pìcaro. Ti sei ammalato perché potevi. Fin da bambino…»

Ma io sono già in piedi e scappo verso la zona giorno.

D’improvviso mi sento bene, rinvigorito e centrato. Le tempie non pulsano più, il silenzio vibra di nuovo di possibili suoni, finalmente dove sono è dove vedo. Allora non sto ad ascoltare mio padre. Lascio la camera da letto e mi butto nel corridoio, misurando ampie falcate lungo la mediana, equidistante dall’attaccapanni a sinistra e lo specchio a destra. Nessun tradimento temo dalla palladiana, nessun agguato dal lampadario. Il mondo ha ripreso a muovere o fermarsi secondo il mio volere. L’impiastro ha funzionato!

Arrivato a fine corridoio, svoltare in salotto sembra un gioco da ragazzi: piede sinistro a terra, perno sulla punta, rotazione del busto mentre il peso si abbandona in avanti, fiducioso nel subentro dell’altro piede… Che invece pesta a vuoto. Scalcio come un puledro accecato. La mia spalla urta la parete, anzi il pavimento tornato verticale. Mi scappa un grido. Sono un pulcino caduto dal nido, un pipistrello senza ultrasuoni. Le orecchie scoppiano. Allaga la testa un dolore insopportabile. Il vomito sgorga non so in quale direzione, cola in fondo al mare del mio dedalo…

Daddy Love è già sopra di me. Sento le sue mani sulle guance, la voce lontanissima.

Perché mai sarò voluto andare in salotto? Desideravo incontrare l’uomo sano, credevo fosse tornato? Magari avremmo acceso l’impianto stereo e ci saremmo seduti sul divano ad ascoltare una musica di quando ero adolescente. O avremmo fatto due salti. Dopo sarei tornato a casa a piedi, serpeggiando tra pedoni, auto e caseggiati. E domattina in ufficio, puntuale.

Il padre trascina il figlio verso il letto. Il suo ansimo piomba dalle altezze, sembra un battito di ali.

È meglio se resti qui buono a scrivere.

 

[Tratto dalla raccolta Svolte, Fernandel 2016]