Presiden arsitek/ 15

di in: Presiden arsitek

a Luigi Grazioli

 

“Sarahs, Sarahs, come carta che fruscia… si chiamava così…”.

 

***

 

E sempre insieme entriamo, passando per un ingresso privato, in un negozio di giocattoli e souvenir. È un ingresso cosiddetto notturno, risalente secondo il padrone del negozio al medioevo ma in realtà di epoca assai più tarda (ma non meno oscura, trattandosi di Riva del Garda); al padrone, un ragazzo di poco più di vent’anni, entrando diciamo tutti quanti “condoglianze” come fosse una vecchia battuta o una parola d’ordine; quando lo dico anch’io abbassa lo sguardo. Forse, dato che sono entrata con lui ha pensato che sono la donna dell’architetto. Una delle donne. “E sempre insieme entriamo…” le parole con cui descriverei la scena se la dovessi per esempio scrivere (o leggere, è uguale) in una lettera sembrano riflettersi negli occhi abbassati del ragazzo, “E sempre insieme entriamo…”: quasi un’insegna al neon che mi fa sentire come una pozzanghera di piscio di gatto. E sempre insieme. Sono talmente abituata a chiamarlo l’architetto che a volte devo fare mente locale per ricordare qual è il suo nome. Perché questo mi eccita così tanto? Perché mi sento più sua, completamente abbandonata a lui quando non riesco a ricordare il suo nome? Perché ogni grande architetto è meno di un essere umano, mi risponderebbe immediatamente lui con quella sua risata da donnina giapponese, ogni grande architetto è come i luoghi che disegna, spazi attraversati da esseri viventi che progressivamente si stancano e si spengono, si stancano e si spengono, sono le sue parole preferite, quasi si mette a cantarle a furia di ripeterle,

Si stancano e si spengono

gli alberi di Natale…

Le persone si stancano e si spengono, me lo dice sempre, come dei luoghi, uno degli obiettivi della vera grande architettura è far uscire le persone da qui, la vera grande architettura non fa altro, sì, io non gli dico nemmeno più che usa un po’ troppe volte la parola “grande” parlando di sé, far entrare le persone, stancarle e spegnerle e farle uscire da qui, farle tremare per il desiderio di abbandonare il luogo disegnato dall’architetto, farlo diventare un ricordo, un sogno, o peggio… ma anche questo non glielo dico più, e alla fine quando un architetto padroneggia completamente la sua arte anche la sua intera persona è così, e le persone ci entrano e si stancano e si spengono, solo che qui lui ci infilerebbe una delle sue cretine battute pornografiche che non fanno mai ridere nessuno, anche perché con quei suoi strilli giapponesi risucchia in un gorgo squittente qualsiasi minima possibilità di risata, e dopo ogni risata resta sempre lì come una bambola morta, dondolando come una bambola morta e a quel punto io dimentico completamente qual è il suo nome e mi sento per sempre sua, per sempre, come nelle più terrificanti fiabe dell’antico nord. Vivo per questi momenti, direi se stessi scrivendo da qualche parte, una frase da povera rincoglionita perché anche a scrivere si finisce per disgustarsi e voler fuggire da qui. Ecco tutto il sugo dell’arte.

Trasformare una persona in angoscia, come mi dice sempre lui: trasformare ogni persona in angoscia e ridursi completamente inermi di fronte a lei, prostrati, prosternati.

Si prostrano e prosternano

gli alberi…

L’ingresso notturno del negozio di souvenir contiene alcuni cimeli “Non in vendita”, dice il ragazzo senza guardarmi ma parlando a nessun altro che a me, e addirittura alza un braccio tra i miei fianchi e i suoi giocattoli neanche avessi già infilato una mano nella borsetta che non ho per tirare fuori un libretto degli assegni, ma è naturale dato che sono entrata insieme all’architetto, dato che sono una delle donne dell’architetto o più precisamente una donna dell’architetto non posso che essere appassionata di souvenir e vecchie bambole, non posso che provare venerazione per i souvenir custoditi nell’ingresso notturno, souvenir il più famoso dei quali è una spessa e irregolare lastra di corallo rosso di barsàla nella quale sono incastonati barocchi gioielli niellati d’oro (insetti, creature marine, monili, crocifissi). Il frammento di corallo ha una forma grosso modo rettangolare e una targhetta, senza specificarne l’autore, recita il titolo dell’opera: qualcosa che lui mi spiega e che ha a che fare con una qualche oscura toponimia utopica. Non voglio nemmeno pensare a come hanno fatto a metterla insieme. L’architetto vorrebbe bisbigliarmi qualcosa all’orecchio, avvicina la sua bocca profumata di liquore. Mi tiro via di scatto. Il frammento è enorme, più o meno come un volume di enciclopedia (anche se la prima cosa che mi fa venire in mente è un tagliere per la polenta o un dolce tirolese, ma l’impressione più forte è appunto quella di un inverosimilmente prezioso tagliere per la polenta, e in un parossismo allucinatorio mi pare persino di vedere pezzetti di roba gialla incastrati tra i gioielli e il corallo) e dicono abbia poteri allucinogeni o afrodisiaci o più in generale tossici, poteri che tutti sembrano conoscere molto bene, a giudicare dalle battute che rivolgono all’oggetto quasi fosse una persona in carne ed ossa. Il mio scatto ha frenato la bocca dell’architetto. Niente battute. Ho fermato la bambola. Questo pensiero mi rende più calda. Oltre ad articoli non in vendita, nell’ingresso notturno (che sembra quasi essere ancora più grande del negozio stesso, tali sono l’accumulo e la varietà dei pezzi che vi sono stipati) si trovano anche piccoli oggetti in riparazione. Noto dei calendarietti di latta, rotondi, di quelli che grazie a un sistema di dischi e datari possono valere per tutti gli anni. Vorrei infilare una mano nella tasca del suo cappotto.

I calendarietti sono delle specie di rotelline concentriche sulle quali sono disegnate le pale di un mulino, ruote panoramiche, ciclisti in corsa. Le rotelle vanno inserite in delle specie di buste di plastica rigida che contengono l’ambiente circostante (la Mancha, il Prater, il Tour de France), e le cifre per calcolare i giorni e le stagioni dell’anno prescelto. Con un gesto complesso con il quale indica e nello stesso tempo proibisce in via cautelativa l’accesso, il padrone del negozio mi indica alcune ruote più complesse ammassate nel cassetto quadrato di un tavolaccio da lavoro, ruote che servono per eseguire complessi (“e inutili” soggiunge il padrone del negozio) calcoli zodiacali. Poi noto delle bambole messicane con la testa traballante, e nel momento in cui mi avvicino alle bambole mi rendo conto che una parte di me per tutto il tempo non ha fatto altro che pensare a una ragazza di nome Sarahs, e a quel punto il nome Sarahs inizia a divincolarsi in su e in giù come un serpentello greco, le sei lettere quasi sei morbide ma affilatissime lame che perquisiscono le mie carni con un sospiro di cicala, e solo a quel punto il serpente si divincola fino quasi a uscirmi dal petto e il ricordo di essere io la ragazza di nome Sarahs mi risveglia.

-10 C°; vento gelido da nord; foschia fittissima e immobile come un corpo stellare lontano anni luce da qui.

Quando mi risveglio mi ritrovo su un treno in corsa. Devo pagare una multa al bigliettaio. “18 Euros”, mi dice. Dice proprio Euros. Gli do la banconota. Ritrae una vecchia rovina cinese, i colori prevalenti sono marrone e viola. Le pagode sono coperte di muschio, sembrano gusci di vuov– di uova rotte. Mentre porgo la banconota al bigliettaio (indossa occhiali con lenti nere: è un uomo dell’architetto?), mi viene in mente quanto mi piacessero le banconote da 18 euro quando ero una bambina, e come mi attirasse la rovina cinese immersa nel muschio, e quanto fosse difficile e interessante cercare di capire quale fosse il punto esatto in cui la rovina finiva e iniziava la foresta, e in ogni banconota sembrava che quel confine fosse in un punto differente, come se per stampare le banconote da 18 avessero usato una tecnica litocinematografica, per così dire, ritraente il processo di inforestazione delle pagode, in modo che se una persona avesse avuto tutte le banconote e le avesse fatte scorrere con il pollice avrebbe visto le rovine cinesi lentamente inghiottite dalla vegetazione, e in effetti ora che ci penso per riconoscere una banconota falsa occorreva appunto trovarne due uguali e non una differente da tutte le altre, il principio era stato invertito, non era la differenza ma l’uguaglianza il segno della falsità, il che mi sembra un criterio più conforme all’ordine delle cose, vale a dire che quando due cose sono identiche, per forza una deve essere la copia dell’altra, una delle due deve essere falsa. Vuova, mi diceva l’architetto la mattina spalancando la a con la faccia in su come una rana, ma non lo vedrò più così. L’uguaglianza tra due cose è un segno certissimo della falsità di una delle due…

Completamente appiattiti sulla pietra dell’angoscia come sulla pietra di una cattedrale di fronte a una nube divina. Non ha forse cinquant’anni e già lo vedo paralizzato (no: lo vedo paralizzarsi: poiché persino la paralisi per un vero architetto è frutto di un progetto, il risultato di un preciso dedicato cantiere, che non significa volontà, questo me lo dice sempre – tutto quello che mi dice me lo dice sempre). L’uguaglianza tra due cose è un segno certissimo della falsità di una delle due. Questo pensiero ne scatena una serie di altri connessi come ami da pesca o rovi, che si sprigionano in modo talmente veloce da rimanere al livello lavico di una sensazione non verbale o meglio preverbale o meglio ancora postverbale, come se io avessi la sensazione di aver appena espresso tutti quei pensieri, un ricordo di un discorso o di un ragionamento svolto e dipanato, ma in breve gli ami e i rovi inghiottono tutto come la vegetazione le pagode quando si fanno scorrere le banconote da 18 euro a grande velocità, e le parole sono intimidite, lente, incerte e incenerite da quei pensieri lavici, e quasi mi viene da pensare che solidificandosi questa lava creerà una nuova aberrante corteccia intorno al mio cervello, imprigionandolo per la seconda volta, e se non li fermerò finiranno per filtrare attraverso le orecchie rendendomi sorda, e bloccheranno i miei occhi trasformandoli in gioielli di corallo nero, forse dopotutto è quello il significato del tagliere di corallo per la polenta che ho visto nell’ingresso notturno del negozio di souvenir con l’architetto, forse i gioielli sono gli occhi delle persone che sono rimaste intrappolate nella vegetazione e nelle pagode, e allora i miei occhi non potranno più traballare liberamente nella pagoda del mio cranio, e a quel punto mi ricordo che le banconote da 18 euro non esistono e che la bambina che io ricordo di essere stata, la bambina che cercava due paesaggi cinesi perfettamente identici per essere sicura che uno dei due era falso, in qualche modo quella bambina anche se ero io non è mai esistita, e poi nessun bigliettaio direbbe mai Euros in un treno per Venezia, perché è a Venezia che sta andando il mio treno, a Venezia, ma prima di svegliarmi del tutto perdo anche questa ultima certezza, e dopotutto non sono più così certa che questo treno sia diretto lì, né del perché io ci stia viaggiando.

Paralizzarsi in inutili fatterelli uno identico all’altro, in “tavole rotonde” una identica all’altra, quasi stesse costruendo intorno a sé un impalpabile e perciò indistruttibile “labirinto”, abbandonato alle formiche del tempo che un bocconcino alla volta lo stanno polverizzando. Nel sogno io e l’architetto – lui è giovanissimo, irriconoscibile dall’uomo che è ora, ma so che è lui – abbiamo prenotato una camera in un albergo, ovvero naturalmente una camera ciascuno. La notte cammino per i corridoi, tutti molto spaziosi e arredati in modo sovrabbondante, tappeti, mobili, armadi ed armadietti ricoperti di chincaglierie. La notte cammino nei corridoi perché vorrei rivederlo, ritrovare la sua stanza e stendermi accanto a lui. È un vecchio e grande albergo pieno di chincaglierie, nel quale mi sento perfettamente estranea. Arrivo a una porta che potrebbe essere la camera dell’architetto, ma non ho il coraggio di aprirla, non ho nemmeno la forza di fermarmi per paura che tutta l’aria mi venga risucchiata istantaneamente dai polmoni e io resti lì piegata sui tappeti del corridoio dell’albergo come un pesciolino rosso sacrificato. Il corridoio prosegue fino ad arrivare all’area naturalistica dell’hotel, anch’essa al limite della fatiscenza ma molto affascinante per le varie specie di piccoli roditori che ancora ospita. L’architetto adora i roditori. Ci sono molte pozzanghere e io sto camminando in calzini, per cui in breve sono tutta inzaccherata. Tra gli alberi balenano delle specie di lepri. Come se le volute del mio cervello si fossero trasformate in insegne al neon, le verdi parole Devo tornare a chiamare l’architetto mi si accendono dentro e restano a galleggiare con la stessa inconsolabile indecifrabilità di un geroglifico azteco.

Le lepri procedono ad alti balzi e sono talmente numerose da apparire come una serie di palle di pelo che rimbalzano nel bosco. Questo farà letteralmente impazzire l’architetto. Ma perché non sono tornata a chiamarlo. Mentre mi inoltro nell’area naturalistica dell’hotel incontro gli altri. Anche loro si sono persi. Non sanno che io e l’architetto siamo venuti qui insieme. Ma perché non sono tornata. Insieme. Come ogni volta, nel momento in cui penso questa parola qualcosa in me si scioglie in un rivolo di piscio di gatto. Non è possibile fare niente insieme all’architetto. Nessuno può. Lo permetterei? Me lo permetterei?

Stanno cercando l’automobile per tornare a casa. Meglio. Non è facile trovare la strada perché il paese in cui si trova l’hotel è fuori mano, e qui tutti parlano un dialetto incomprensibile. Cammino con loro. Sono sicuri di aver lasciato l’auto vicino al lago. Vedo un sentiero tra i pini marittimi e lo imbocco. Noto vecchi fortini mimetizzati e semisepolti dagli aghi di pino. Gli altri si sono fermati in una casa, cercando di venire a capo delle indicazioni degli abitanti. Meglio. Li lascio lì. Arrivo al lago. Nessuno si ferma mai qui. La scogliera lungo la strada è popolata da piccoli gruppi di ragazzini, zingari, figli di turisti che i turisti hanno smarrito o semplicemente abbandonato, bambini rapiti, figli dei bambini più grandicelli, vestiti con pigiami, indumenti da adulti; ne vedo due con delle tutine da hockey, altri hanno gonne, camicie, pantaloni, tutti sono vestiti indifferentemente da uomo o da donna.

Sono tutti puliti perché è estate e nel lago si può nuotare, e sono molto forti perché continuano a andare su e giù per la scogliera. Mi parlano in un loro dialetto ancora più incomprensibile. Non sono una comunità, ma una serie di bande isolate e nemiche di fratelli che conducono una vita rapace. Cammino rapidamente, se mi fermo, lo so, sono morta. Hanno desideri oscuri e crudeli, che loro stessi seguono ovvero eseguono in modo confuso, come un gatto che giocherella con qualcosa prima di capire se è una preda o no. Vogliono giocare, ma all’improvviso vogliono ucciderti. Man mano che passo da una zona all’altra la banda di turno cerca di bloccarmi. Immagino che la distribuzione delle zone sia determinata dalla conformazione della costa in fondo alla scogliera, invisibile dalla strada.

Alcuni dei bambini della scogliera sono più pacifici. Un ragazzino biondo soffia in uno strumento che è un insieme di pezzi di clarinetti e tubi di ferro. C’è un altro adulto, un uomo. Forse una volta era uno di loro? Parla la mia lingua e sembra molto nervoso. Ha uno zaino di tela e la barba rada sulla faccia tonda. Chi ha la faccia tonda ha la barba rada. Facciamo un po’ di strada insieme. I bambini ci tirano piccoli sassi sulla testa. Dopo un po’ l’uomo si ferma per lottare con i bambini. Meglio. Io continuo a camminare. Un bambino mi si attacca al vestito. Indosso, lo noto solo ora, una specie di tunica gialla a pois arancioni. Sono circondata. Apro gli occhi. “I miei ragazzini”, mi dice l’architetto. “Ti hanno catturata? Ti hanno circondata? Sarai loro prigioniera? Lo sarai? Sarai loro prigioniera per me?”. Non ho idea di come sono capitata qui. “Chiudi gli occhi. Ecco. Ecco…” Ecco, sì. Sì. Non ho idea di come sono capitata qui.

La scogliera ci impedisce di tuffarci, le rocce sono troppo vicine o troppo basse o tutt’e due. Ma alcuni si tuffano lo stesso. Sono arrivata alla spiaggia seguendo uno dei canali intermittenti di Venezia, i canali segreti che riemergono a cicli di 110 anni; questo è particolarmente lungo, forse costruito per scopi militari, e mi ha portato fin quasi in Friuli. Gli scogli scendono in acqua troppo inclinati perché ci si possa tuffare, e sono disposti su livelli tanto differenti e dislocati da dare l’illusione che il mare stesso abbia differenti altezze. Milos (il suo nome non lo dimentico mai) ne sceglie uno che si sporge nel mare più degli altri e si avvicina al punto più sporgente con una rincorsa infantile, fermandosi prima di ogni balzo; a un certo punto deve persino fermarsi e arrampicarsi un po’. Conscia dell’irrealtà di ciò che sto guardando, penso che in ogni caso potremmo tutti gettarci da lì dove ci troviamo, e non cambierebbe nulla. Però non mi butto. Un’altra bambina dietro di me, avendo forse pensato la stessa cosa o per averlo già fatto prima, senza troppo pensarci su si lascia praticamente cadere dalla scogliera più arretrata e inclinata, e cade molto sotto di noi, sparendo nella boscaglia. Nessuno se ne preoccupa. Ad un certo punto la madre della bambina, seduta poco dietro con altre bagnanti, dice ridendo che dovrebbe alzarsi e controllare quello che ha fatto sua figlia. Guardo tra i rami, e in basso vedo palpitare il mare. Quello che impediva a Milos era un largo scoglio proprio davanti a noi, ma forse la bambina sapeva di una pozza. Milos scende tra gli alberi. Quando gli ho detto che la sua grafia era identica a quella del padre di Mozart quasi si metteva a piangere. Piangeva di gioia, lo so. Mi avvicino. Oltre al costume da bagno indossa una giacca impermeabile blu scuro. Attraversiamo un recinto con una baracca e un gatto morto appeso, poi camminiamo lungo un molo naturale e Milos si volta verso la nebbia e io vedo profilarsi una città industriale o forse una nave e comincio a sentire brividi di terrore e di colpo diventa assolutamente vitale riuscire a vedere la sua faccia prima di svegliarmi, ma Milos è sempre girato dall’altra parte.

Comincio ormai ad avvertire in modo quasi fisico il momento in cui le persone che sono “vicine” all’architetto vengono tutte prima o poi infettate dal vuoto che orbita intorno a lui; l’occhio diventa più nero, il volto freddo al limite dell’ostilità. Lui non vede nulla, bambola paralizzantesi, perde di significato, il suo amore non si attacca, non trova un supporto collaborativo, e gli occhi di chi gli è intorno hanno ormai preso un’opacità preistorica di granchio o di insetto. L’architetto perde di significato e non sa trovare altra vicinanza che nello spionaggio, ma così non fa che alzare nuovi ponti levatoi tra sé e il suo amore.

Dalla strada in fondovalle ogni notte saliva una nebbia fosforescente e gelida, che si snodava come un serpente senza testa, un verme bianco tagliato in due. Il verme interrompeva la mole delle montagne, dando loro l’apparenza di una lunga striscia di carta giapponese striata di nero. Il bosco era pieno di animali, come un brulichio di corazze, lontana fanfara di nacchere. Era la Terra senza Occhi delle fiabe del nord. La risata dell’architetto come un rumore di nacchere nel ricordo o, che ormai è lo stesso, nella Terra senza Occhi. Nella Terra senza Occhi movimenti di molluschi nel fango si confondono con i tremori delle proprie viscere. Eppure di quei molluschi ci si nutre; una cosa davvero strana mangiare quei molluschi: continuamente, mentre li si succhia e li si inghiotte, si ha la sensazione che quelli a propria volta ci succhino e ci bevano dall’interno come piccole ventose.

 

***

 

“La Terra senza Occhi è stata descritta per la prima volta da Sarahs. Sì. Io la conoscevo già, e così quel che ho visto (ma non lo si può vedere, capite, e comunque l’ho già spiegato, non è come vedere, si tratta di una cosa più come dire linguistica ovvero antecedente o se tra voi c’è qualche appassionato di paroloni trascendente la percezione, sì, solo che in qualche modo qui si trascende all’ingiù, si trascende nella carne…) si sovrappone e confonde con quel che ho letto, e tutto è come un incubo di febbre… Ma io non l’avevo descritta… Sarahs…”

 

***

 

Dentro una vasca da bagno con l’architetto, siamo nudi e lui mi bacia e nello stesso tempo mi sputa in bocca, un fiotto sottile, come una pistola ad acqua o un rubinetto scolpito. Guardo il bordo della vasca e vedo che è pieno di gocce di sangue, ed è solo allora che mi rendo conto che anche la sua bocca è piena di sangue. “Ti ho sputato sangue in bocca per essere certo… di…”. Poi rimango sola nella vasca. Infettarmi.

L’ambiente è un parco. Vengono verso di me gli uomini dell’architetto, ragazzi che lui ha conosciuto quando era giovane e che sono disposti ad uccidere per lui. Il loro capo è piccoletto e flaccido, e per uccidere usa un laccio delle scarpe cui ha legato dei pesi da palestra. Non pare uno strumento efficace, però in qualche modo è appunto la sua inefficacia a spaventarmi. Mentre si avvicinano a me, ho il tempo di pensare, in parole distinte: “O Signore allontana da me questo calice o fammelo vuotare tutto d’un fiato”, neanche fossi ancora nel Pio Istituto insieme a suor Giuseppina e a don Giorgio Giorgio. Poi quando gli occhi traballanti del primo ragazzo dell’architetto (sembra quasi una trasmissione televisiva di bassa lega, I ragazzi dell’architetto) mi sono sopra io mi risveglio e sono seduta in una delle file di un aeroplano. Qualcosa è andato storto con il cibo. Sento un puzzo schifoso, da bettola orientale. Ci viene detto che l’aereo sta precipitando, perciò anche da sveglia sto rischiando di morire, ma trovo preferibile morire così che per mano dei Ragazzi di Sarahs (non sono i ragazzi di Sarahs, Sarahs sono io, l’architetto non si chiama Sarahs e loro sono i Ragazzi dell’architetto, una delle sue stupide mai realizzate trasmissioni televisive) e davanti a mezza Oceania incollata al televisore. Ci dicono di sistemarci in fila vicino all’ingresso. È una procedura inusuale per casi come questo, perciò non tutti eseguono l’ordine, né la cosa sembra preoccupare più di tanto il personale di bordo. Io mi alzo e vado docilmente all’ingresso. Finisco in un ambiente molto spazioso, ci sta ovvero ci starebbe praticamente tutto il gruppo dei passeggeri e anche quello dell’equipaggio. Ci viene detto di sederci a terra. Le pareti sono di plastica, il pavimento di moquette verde e marroncina. Mi siedo contro la parete. Pian piano arrivano anche gli altri passeggeri. Non sembrano preoccupati. Due di loro sono nudi, grassocci. Si sistemano in mezzo al grande ambiente dell’uscita, appiccicandosi di peluzzi di moquette per via del sudore. Hanno l’aria di chi ha già fatto tutto questo. Si parla di ammaraggio.

L’aeroplano inizia a scendere. Mi tengo stretta a Milos, che però mi allontana dicendo che lo sto schiacciando. Guardo fuori dal finestrino e vedo l’acqua vicinissima, ed è in quel momento che divento certa che sopravvivremo. Tutti applaudono il pilota, che tra l’altro è una donna al suo primo giorno di lavoro. Siamo atterrati in una città che sembra Venezia ma non lo è. Una città portuale albanese o jugoslava. L’atterraggio ha l’apparenza di un gioco di prestigio: come un motoscafo, l’aereo si è infilato tra gli stretti canali del porticciolo-città albanese; è persino riuscito a passare sotto un ponte. I passeggeri si sparpagliano, fanno shopping, entrano nei ristoranti. Ce n’è uno proprio su uno dei canali più stretti. L’acqua dei canali è profonda, limpida, azzurra, tutto il contrario che a Venezia, o se è per questo in qualsiasi altro canale di qualsiasi altra città. Tra i camerieri del ristorantino noto un amico, un violinista. È il violinista dell’architetto, il violinista con gli occhiali neri.

Mi avvicino per salutarlo e penso, la presenza del violinista con gli occhiali neri, il violinista dell’architetto e cioè come ogni persona che lavora per l’architetto un “violinista”, qualcuno che si vede tenere in mano correttamente un violino in prima fila nelle migliori filarmoniche di mezza Oceania come dice sempre lui hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi, ma si tratta di un uomo ovvero di un “Ragazzo” dell’architetto, qualcuno che di fatto non sa nulla della cosiddetta arte del violino ovvero usa l’arte del violino non per la musica ma per obbedire a una qualche oscura direttiva sperimentale dell’architetto, ogni azione dell’architetto non è che un esperimento, “Fa esperimenti persino quando se ne va a cagare”, ho sentito dire una volta da sua moglie, e così ogni incarico non è che un esperimento del quale non è escluso che l’incaricato stesso sia la cavia, e perciò la presenza del “violinista” con gli occhiali neri, qui in questo ristorantino albanese deve avere un significato simbolico, o per lo meno un significato sperimentale, e solo a quel punto mi rendo conto di essere ancora dentro un sogno. Milos mi indica i piatti esposti dal ristorantino ma io mi ritraggo e gli dico addio, come sempre, gli dico sempre addio qualunque cosa gli stia o non gli stia dicendo, non voglio mangiare niente lì, è tutto finito, gli dico, un sogno, capisci? un sogno… addio, io non ti conosco ovvero ti conosco troppo, non dimentico mai il tuo nome, mai, poi contraggo gli occhi ed è un sollievo sentire che intorno a me il villaggio albanese va in frantumi, e la mia posizione che da eretta si rivela orizzontale, i primi ad andarsene sono i rumori delle voci di alcuni clienti di un bar, disturbati dall’irruzione dei due passeggeri polacchi nudi e, con ogni evidenza, ubriachi. “Molta gente ci dà dentro con i cicchetti prima di volare per paura di volare”, dico ad alta voce quando sono ormai sveglia.

38 C° all’ombra; lente creature marine si divincolano sull’asfalto rovente; ininterrotto e importuno rumore di mosche.

L’architetto me lo chiede– me lo aveva chiesto solo per eccitarmi, come le anime del Paradiso che riescono a leggerti nel pensiero prima ancora che tu apra la bocca. Ma io avevo già deciso prima di incontrarlo, anzi non serviva nemmeno decidere: lo ero già, lo ero già prima di aprire la bocca. Era questo a eccitarmi.

Poi la mattina avevo trovato la mia maestra di pianoforte, l’avevo proprio trovata come se fosse rimasta ad aspettarmi tutto quel tempo davanti al Petrof; suonava Non so più cosa son cosa faccio tenendo i polsi molto alti, come dicevano facesse Liszt…

Parlo d’amor vegliando,

parlo d’amor sognando…

(Dopo, con l’architetto è sempre così: ogni cosa e ogni strada e ogni persona mi appaiono come trovate, come se mi fosse piovuta dentro i nervi e il cervello una qualche malattia degenerativa. L’architetto mangia la mia memoria con occhi traballanti di bambola messicana. L’architetto mangia il suo nome e il mio e così io divento sua e ogni cosa si fa trovata, ma questo succede dopo. È comunque certa almeno una cosa, che io queste parole le sto pensando se non persino scrivendo, ma, dato che spesso mi ritrovo in posti in cui sono già stata in sogni precedenti, per essere sicura che anche queste parole non facciano parte di una catena di sogni, che non siano parte della gabbia, ci vorrebbe qualcuno a leggerle, così sarei certa che almeno nel momento in cui penso se non persino scrivo queste parole sono sveglia. Sed tantum lege verbo… Ma l’unica a pensarle ovvero a leggerle sono io, e dopotutto cosa mi impedisce di pensare che anche un eventuale lettore non sarebbe parte del mio sogno, una delle sbarre della gabbia?)

…e se non ho chi m’oda

parlo d’amor con me…

La mia maestra di pianoforte (minuscola e sempre lieta, piccoli occhi da porcellino lieto e due seni enormi che sentivo contro la schiena quando mi si appoggiava contro per correggermi come due morbidi cuscini bavaresi) aveva una piccola parrucca (come capelli di paglia sulla sua pelle giallina), probabilmente per via della chemioterapia. Si era ammalata di cancro un giorno che uno dei suoi alunni l’aveva morsicata poco sopra un seno mentre lei lo teneva in braccio. Un morso cancerogeno, come quello dei ragni arabi di cui mi ha parlato l’architetto la prima volta che l’ho incontrato, i ragni arabi che corrono all’assalto del fuoco. La cosa ci era stata raccontata da una suora. Suor Giuseppina del pio istituto di San Satiro. Io prego sempre Suor Giuseppina, e lei fa i miracoli per me. Nessuno sa che è diventata una santa, ma è vero, adesso Suor Giuseppina è santa, ma lo so solo io, e se lo raccontassi nessuno mi crederebbe. E dato che nessuno lo sa la suora fa miracoli di tipo terrificante: aborti spontanei, mutazioni, tumori al cervello che provocano illuminazioni mistiche. Quando suor Giuseppina è morta, nei suoi cassetti hanno trovato il nastro della Truut e hanno tutti pensato che la Truut fosse lei, la Truut che la notte dorme appesa per la bocca a un grosso chiodo di ferro conficcato nel muro. Giuseppina poi non è il suo vero nome, il suo vero nome l’ha perso quando ha preso il velo. Davanti a Dio il nome sparisce, così dev’essere e non potrebbe essere altrimenti.

Trascendere all’ingiù.

Perde significato finché anche la parola architetto non vuole dire più nulla, come un soma saussuriano, un segno amputato del pensiero. Inerzia completa di bambola morta, una specie di perpetuo post-coito che stende per sempre un velo sugli occhi delle persone, rendendoli opachi. I più “vicini”, i più infernalmente vicini all’architetto come per esempio il “violinista” hanno se non altro il tatto di coprirsi gli occhi con delle lenti scure. Quasi l’architetto fosse già morto e noi per parlargli non potessimo fare altro che diventare simili alle fotografie sulle lapidi. E nulla, per quanto lui si sforzi, ci può più convincere del fatto che l’architetto sia ancora vivo. Lo osserviamo e parlottiamo tra noi già da lontano, al limite accusandolo bonariamente di non essere più ormai nient’altro che un ricordo. Peggio: un souvenir di ciò che in un primo momento avevamo scambiato per l’architetto… Ed è in realtà quello il momento in cui lui finalmente si mette a nudo per noi, perché questo è ciò che lui è, nient’altro che il ricordo di qualcos’altro, un fantasma precario tremante del suo stesso freddo; una febbre; un lieve mal di testa del quale ben poco altro si riesce a dire se non “Speriamo che passi presto”; e per poter essere vicini a lui non ci resta che diventare a nostra volta ombre.

La luce del sole schermata dalle foglie dei tre alberi e riflessa dal prato in pendio fa tirare al verde quasi ogni cosa. Le libellule si curvano sulla pietra come gamberi alieni. Il vento ha portato le foglie e i pollini fino al largo, e nuotando si possono vedere le api cadute in acqua, le zampine che tentano il cielo come quelle di scarafaggi ribaltati. Qui al lago di Schwarzschwarz la gente arriva ancora con solo l’asciugamano, ma dall’altra parte del lago ci sono gli ombrelloni e la musica. A volte si sentono fin qui. Stridore di copertoni sulla ghiaia. Essere convinti della propria invisibilità quando si assiste ad una scena. La bellezza dell’arte è anche in questo: nell’essere lì senza veramente esserci, protetti e indistruttibili, e questo è il motivo per cui l’arte davvero astratta, la letteratura non avventurosa, quelle cioè da cui essere assenti non serve a niente, quelle in cui non fa differenza esserci o non esserci, godono di meno favore. Richiede un certo sforzo o un certo bernoccolo riuscire a trarre piacere dalla propria invisibilità in un gruppo di rovine. Ma nel mezzo di una battaglia? In una camera da letto davanti a due amanti? È bello aspettarlo qui quasi acquattata tra i fili d’erba e le formiche, proprio come una lepre che ogni volta non sa se la mano che si sta avvicinando vuole ghermirla o offrirle del cibo. Due vecchi come statuine giocattolo attraversano il lago su un povero scafo arancione a motore. Vicino al muretto della riva nuotano delle bisce dello stesso colore dei sassi sott’acqua. Gli occhi dell’architetto come fango quasi del tutto terso in cui entrano le bisce. Arriverà coi suoi occhi di bambola e entro stasera io sarò morta.

 

***

 

“Sarahs, Sarahs, come carta che fruscia… si chiamava così… Sarahs, Sarahs, mentre mia moglie… mia moglie ecco lei è semplicemente mia moglie… era… (pausa; maschera malinconica o perplessa: non è facile capirlo; energico repulisti della mano destra contro la faccia a restaurare l’usuale remoto sorriso; sospiro di sollievo; poi, canticchiando) Non so più cosa son… Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”.

 

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[continua]

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