Sui sogni, la divinazione
e Poche parole che non ricordo più.
Conversazione con Enrico De Vivo

"Poche parole che non ricordo più è come un sogno inafferrabile. Il lago attorno a cui si svolge la narrazione ha evocato in me l'immagine della pozza d’acqua, di un verde misterioso e abissale, che mi fu rivelata dall'indovino Ambakene del villaggio dogon di Yendumma, acqua protetta e segreta, nascosta tra le rocce nel cuore del villaggio, sacra perché in essa era tutto il sapere del tempo antico, passato e presente" [B. F.]

di in: ConversazioniDe libris

Non si sa se Poche parole che non ricordo più (Exòrma 2017) di Enrico De Vivo sia il libro di una vita o il libro di un istante, se si stia leggendo poesia o filosofia, fiaba o etnografia. Oppure se sia il racconto di un sogno. Mi viene da pensare così: che a volte, sognando, sembra di fare sogni infinitamente lunghi, addirittura di aver ripreso sogni del passato, come se si sognasse a episodi concatenati, che sono storie piene di particolari, di parole, precise sensazioni, sentimenti il cui effetto continua a farsi sentire a lungo. Ma questo deriva dalla natura del sogno, non tutti i sogni infatti sono uguali. Questo è un “sogno necessario”. Che significa? Che non è un sogno come gli altri e chissà perché poi li chiamiamo tutti con lo stesso termine dal momento che possono essere così intrinsecamente diversi, per loro natura e per ciò che li ha provocati.

Il “sogno necessario” per me nasce dalla sensazione di limite raggiunto, in uno stato di bisogno, è come il ricorso alla divinazione, che è segno di una condizione di interna immobilità, della saturazione di qualsiasi percorso mentale. È allora che si ricorre alla parola dell’indovino, dal momento che come si legge nel Filottete di Sofocle, “nella vita degli uomini, la lingua e non l’azione governa ogni cosa”. Per effetto del linguaggio della divinazione, così come di quello onirico, le immagini si sovrappongono, le cose divengono diverse da se stesse eppure riconoscibili, ciò che del proprio firmamento interno era invisibile torna ad essere visibile, permettendo di accedere a quanto di noi non sapevamo neppure più vi fosse, o avevamo dimenticato, o avevamo prudentemente nascosto dal momento che come è noto solo i folli e i visionari vi attingono liberamente e senza prudenza.

E allora, venendo al libro di Enrico De Vivo, è così che lo vedo, come un “sogno necessario”.  Immagino il narratore, seduto davanti alla finestra che guarda verso l’albero del suo cortile, scivolare per qualche istante in un lieve torpore, e in quel suo essersi assentato da quanto lo circonda, sognare.

Che cosa sogna? Sogna allo stesso tempo se stesso, la sua vita, il suo passato, il suo presente, le sue idee, le sue letture, i suoi sguardi sul mondo, le sue insofferenze, il suo senso dell’umorismo, le cose che odia e quelle da cui si lascia carezzare, sogna i miti, i bestiari medievali, le etnografie vere e inventate da lui e da altri, la geografia, sogna i pazzi e i dimenticati, che sono poi i personaggi delle fiabe dal momento che tutte le fiabe parlano di dimenticati che vogliono arrivare a non esserlo più, sogna la scrittura e la morte finalmente della scrittura e degli scrittori, sogna le mappe geografiche che invitano a spostarsi in altri mondi lontani da questo, sogna amabili personaggi, una maga e le sue parole che non ricorda, un cane che parla, un deserto piatto e sconosciuto e un’oscurità trasparente nella quale tranquillo avanza, sogna la poesia quale dovrebbe essere, e sogna le rose… [B. F.]

 

1 . ESPERIENZA, CASO E PREVEGGENZA

 

Barbara Fiore

Poche parole che non ricordo più è come un sogno inafferrabile. Il lago attorno a cui si svolge la narrazione ha evocato in me l’immagine della pozza d’acqua, di un verde misterioso e abissale, che mi fu rivelata dall’indovino Ambakene del villaggio dogon di Yendumma, acqua protetta e segreta, nascosta tra le rocce nel cuore del villaggio, sacra perché in essa era tutto il sapere del tempo antico, passato e presente. E dunque parlare di questo e spiegare come il tuo racconto si agganci a quel segreto mi è indispensabile, ma è anche molto doloroso.

 

Enrico De Vivo

Nel tuo o nel nostro caso il segreto non si afferra perché è fatto d’acqua, e naturalmente non capisco perché dici che è molto doloroso.

 

B. F.

Ogni rivelazione è dolorosa, soprattutto se appartiene a un passato irripetibile.

 

E. D. V.

Deve essere stato così anche per me, quando ho ascoltato il racconto della valle del lago che mi fece Marianne Schneider. Forse ne ho scritto proprio per indagare il “passato irripetibile” al quale misteriosamente si agganciava. Credo che infine sia questa la potenza delle immagini: potenza della quale non si può parlare, irriducibile, solamente replicabile e amplificabile. Mi chiedo però: le immagini non contengono forse anche un presagio o indicazione su quel che faremo? Tu che hai studiato le divinazioni dogon, non pensi che ci fosse in esse anche un’ambizione del genere: osservare, scrutare – nelle immagini – quello che (ancora) non è?

 

B. F.

Le immagini possono a volte diventare condensazioni perfettamente corrispondenti a ciò cui siamo arrivati nelle nostre acquisizioni, nelle nostre riflessioni e fantasie. È quanto mi accade con i sogni, è quanto avveniva negli incontri con gli indovini sull’altopiano dogon. I sogni hanno il potere di portare alla luce e combinare, attraverso immagini, quanto altrimenti rimarrebbe inespresso o incompreso. L’immagine che le divinazioni mi mettevano sotto gli occhi, che fosse il disegno formato dalle conchiglie lanciate su un disco di paglia, o le impronte lasciate dalla volpe e dagli uccelli su una sorta di gioco della campana tracciato sulla sabbia e riempito di indecifrabili segni, mi permetteva di fare associazioni che mi rivelavano dove ero internamente arrivata e in che direzione avrei potuto muovermi, o anche soltanto dirigere i miei pensieri. Così, il piccolo specchio di acqua verde cupo tra le rocce di Yendumma riassunse ciò che era mutato nel tempo trascorso sull’altopiano dogon, il mio legame con quel mondo appartato, rendendomi anche consapevole della necessità di narrarlo. Seduto davanti alla finestra che guarda sulla corte e sull’albero di noci, il narratore del tuo libro non sapeva che quell’immagine stava diventando l’Immagine rivelatrice che lo avrebbe condotto a fare del lago il centro della sua narrazione.

 

E. D. V.

Quando ascoltai il racconto del lago ero in una fase feconda, se così si può dire. Fecondità (inquieta) portata da una condizione molto simile all’abbandono. Voglio dire che se mi fosse arrivato qualche altro racconto da qualcun altro, probabilmente me ne sarei partito ugualmente per le lande della fantasticazione, e i risultati non sarebbero stati molto diversi. Sarebbero cambiati luoghi, personaggi, trame, ma ciò che mi dettava la condizione di abbandono sarebbe rimasto identico. Ecco perché forse i racconti sono infiniti e hanno una qualità acquatica, sfuggente: basta un refolo di vento, una sillaba storta e tutto prende una piega sua, originale, onirica. Il narrare, o il mettersi a scrivere, ha molto a che fare con questo strano miscuglio di esperienza, caso e preveggenza. La divinazione di cui tu parli è una sorta di ricostruzione a ritroso del percorso creativo che ha portato all’apparizione dell’immagine, una risalita fino all’originario nucleo narrativo ed emozionale che si percepisce soltanto scrutando a fondo le figurazioni ovvero scrivendo.

 

B. F.

Già dal titolo mi sono sentita introdotta in qualcosa che catturava la mia attenzione. Poche parole che non ricordo più significa infatti l’inverso di quello che apparentemente dice, perché quelle parole, ossia “l’evento-parole”, è così importante che il narratore ricorda che sono state dette. Non importa che il narratore ricordi quali parole siano state dette, quel che importa è che sono state dette, e che è andato dalla maga Rossana con una richiesta, anche se non esplicitata in forma di domanda, ma di racconto. E comunque non le ricorda perché non deve e non gli è consentito ricordarle. Sono infatti parole che aprono un atto strano e fuori dell’ordinario ossia una rivelazione. Ma il termine rivelazione non corrisponde esattamente a quello che intendo. Forse previsione? Responso? Disvelamento?

 

E. D. V.

È questo che ti ha fatto pensare agli indovini con cui hai lavorato?

 

B. F.

Come loro, Rossana, “dall’aspetto di maga nordica, dall’età indefinibile, dotata allo stesso tempo di tutta la bellezza e l’inquietudine della gioventù e della vecchiezza”, è in contatto col non detto, con il non accessibile a chi non sia dotato del suo stesso potere, con quanto è oscuro ai comuni mortali. Il responso non può dunque che confondere, essere incomprensibile o enigmatico, deve far precipitare in una sorta di stato ipnotico. Tutte le divinazioni contemplano d’altronde formule nella lingua arcaica e non più nota degli antenati, in lingue inventate, glossolalie, ribaltamenti di significati ovvi, serie di consonanti pronunciate come in giochi linguistici. “Poche parole che il narratore non ricorda più” precedono la rivelazione a lui destinata, e non le ricorda più perché sono state appunto oscure, oppure assolutamente banali, così banali che non poteva non dimenticarle appena ascoltate.

 

E. D. V.

Il titolo fa riferimento a un passaggio chiave del racconto, che tu hai colto bene, ossia al momento in cui il narratore cade in una sorta di trance o di sogno dopo aver ascoltato le parole immemorabili di Rossana. Dico che è un passaggio chiave – del quale tu illustri la modalità rituale introdotta dalle parole formulari e indecifrabili – perché avviene sulla soglia della coscienza, nel momento di un trapasso che condurrà nella selva di racconti che costituiranno poi l’avventura nella valle del lago e in altri paesi sperduti. Gianluca Virgilio ha scritto della coesistenza nel mio romanzo di essere e non essere. Ma si potrebbe dire anche di realtà e sogno, e si tratterebbe sempre dello spazio della letteratura, la quale spinge ad allontanarsi dalla realtà o dal presente per esplorare l’ignoto, salvo poi far ritorno alla medesima realtà con un’idea e una visione di essa ancor più salda e vera. Tu chiami tutto questo “rivelazione”, basandoti sulle tue esperienze e sui tuoi studi. Ma non stiamo parlando forse della stessa cosa? Che cos’è la letteratura se non una forma di rivelazione dei lati oscuri che ci accompagnano? Di rivelazione non nel senso razionale di “spiegazione”, ma nel senso di illuminazione, di esposizione alla luce in senso fotografico della materia pensata e pensabile, passata e futura, quindi di rappresentazione. La letteratura, come le rivelazioni degli indovini, lungi dal rispondere in maniera univoca e chiara ai nostri dubbi e alle nostre cecità, li rappresenta (o ci obbliga a rappresentarli, come avviene nel mio libro), rendendo trasparente la nostra condizione di esseri dubbiosi e ciechi.

 

B. F.

Ma qual era precisamente la richiesta rivolta a Rossana, o il suo rovello? Perché il narratore sente il bisogno di ricorrere a quella maga nordica?

 

E. D. V.

Non lo so. Questo devi dirmelo tu, che sei l’intermediaria. Io posso solo notare, in base a quel che leggo nel romanzo, che la maga trasmette al narratore grande sicurezza, mettendolo in condizione di raccontare: sembra che senza di lei non possa esserci nessuna parola, nessun discorso. Aggiungo solo una postilla sulle parole oscure che introducono alle divinazioni. Mi è venuta in mente la storiella di come i greci chiedevano i responsi a Hermes. Andavano nella piazza dove c’era la statua del dio, esprimevano le loro richieste e subito si turavano le orecchie con le mani. Si allontanavano quindi dalla piazza con le orecchie turate, ma appena fuori si toglievano le mani dalle orecchie e la prima frase che coglievano per caso dalla bocca del primo passante costituiva il responso o rivelazione del dio. La rivelazione, la verità, era dunque affidata tutta all’interpretazione di queste parole ascoltate casualmente, come diremmo noi, ma che per loro dovevano essere evidentemente la voce del dio.

 

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2 . ADOLESCENZA E IMMAGINAZIONE

 

B. F.

Il racconto di Gargiulo lo vedo così. Il narratore e Gargiulo rappresentano l’adolescenza, o prima giovinezza, ossia quel tempo in cui si stringono legami che si pensano eterni e per tutta la vita, i quali sono sostanzialmente fatti di parole, in un’epoca in cui tutto è ancora in ballo, epoca di esplosioni ormonali e di esplosioni creative, in cui nulla ancora è realizzato e tutto è vagheggiato, argomentato fino allo sfinimento in conversazioni e discussioni accanite spesso fine a se stesse, e comunque rivolte non tanto a un dialogo che trasformi ciò che si pensa quanto a chiarire a se stessi ciò che si pensa e ad assorbire tutto il possibile dall’altro, epoca di potentissimi entusiasmi e affetti reciproci. Gargiulo rappresenta l’interlocutore di quella fase della vita, e ora ecco che ritorna come in un sogno. Tutto il racconto di Gargiulo ha infatti l’andamento di un sogno (“la sua voce aveva un discreto potere incantatorio, si ascoltava come si ascolta il rumore dell’acqua di un fiume o il fruscio delle foglie”), l’assurdità ma anche la lucidità di certi sogni da cui ci si risveglia con la sensazione che sia accaduto qualcosa, che sia avvenuto un passaggio. E a volte per non perdere quanto si è sognato, si continua, si entra di nuovo nel sogno. Ho fatto spesso sogni a puntate.

 

E. D. V.

Anche in Poche parole che non ricordo più i racconti sembrano puntate di uno stesso sogno nel quale si entra e si esce.

 

B. F.

Infatti il narratore dopo esserne uscito vi rientra: è il sogno del cane bianco. Che cosa dice il cane? “Nel futuro, per una disposizione legislativa, sarà vietato leggere e scrivere […] Finalmente torneranno nel mondo i poeti-filosofi, che con l’ingenuo atto di nominare danno vita al mondo […] Lo stupore tornerà a regnare sovrano […] Bandita dai consessi civili la Poesia tornerà a vivere del suo sogno, e albergherà lontano dagli uomini, come una dea senza veli e senza ninfe, nuda e sola al bagno”. Passi indietro, verso l’alba del creato, quando i nomi attribuiti alle cose davano vita al mondo. La poesia, il remotissimo inizio della letteratura, ovvero la letteratura ai suoi inizi, parola delle culture orali dove il suo peso è da tutti riconosciuto e onorato, il cui uso pubblico è riservato solo ad alcuni che ne hanno ricevuto e ne trasmetteranno l’arte e che la elargiscono seguendo un ritmo, come un canto. Assonanze, ripetizioni, rime, sono gli strumenti della parola nelle culture orali, ma sono anche gli strumenti della poesia.

 

E. D. V.

Da quello che dici, capisco che la storia di Gargiulo e del narratore è una costruzione per giustificare i vagheggiamenti e i vaneggiamenti dell’adolescenza, per farli durare in eterno. Ma sono in fondo, come dici tu, solo libere divagazioni, delle quali un uomo adulto e maturo dovrebbe essersi liberato da un pezzo, o almeno aver capito che non portano da nessuna parte. Alla fine del libro forse questa consapevolezza arriva, ma è solo accennata, e riservata in ogni caso a un lettore scaltro, che per arrivare fin lì avrà avuto comunque anche lui le sue forti complicità con il dubbioso narratore: ossia sarà forse ancora più adolescente di lui, più fissato a quella fase della vita in cui non siamo ancora niente e possiamo diventare tutto, addirittura possiamo anche tornare indietro, per il massimo del godimento. Possiamo immaginare, ad esempio, l’origine della Poesia, e vagheggiare la Parola con la maiuscola come qualcosa di raggiungibile. Ecco spiegato anche tutto il sentimento messo dal narratore nella descrizione dell’armonia derivante dai gesti e dagli elementi naturali (e forse ancor più che l’adolescenza, egli desidera l’infanzia come assenza o quintessenza della parola). L’adolescente non vorrebbe mai diventare grande, mai maturare, perché il suo avamposto privilegiato gli consente di andare in tutte le direzioni – all’indietro come spregiudicatamente in avanti – senza dover rendere conto a nessuno. O quasi.

 

B. F.

A Rossana, ad esempio, forse qualcosa bisogna dire o chiedere. Ma che cosa? Chi è Rossana? E chi è quel “suo” cane?

 

E. D. V.

Può darsi che il narratore interroghi Rossana proprio sulla possibilità di prolungare l’adolescenza, di poter continuare a vagheggiare il mondo come ai tempi dell’ascolto della musica da giovani in macchina con Gargiulo. Rossana gli concede  questa possibilità somministrandogli probabilmente qualche droga. Io penso che il sogno della valle del lago, che occupa la prima parte del libro, sia una proiezione in avanti, mentre la seconda parte, che raccoglie i viaggi nei paesi sperduti, costituisca una regressione. Proiezioni desideranti entrambe, legate al potente sentimento regressivo di uno che non vuol parlare come parlano i giornali o gli scrittori di successo, di uno al quale va stretta la realtà, è insofferente e ribelle: di un adolescente, insomma. Le poche parole che non ricorda più sono le ultime parole dello stato cosciente, prima di precipitare, come Alice, nel cunicolo che lo porterà nel Paese delle meraviglie, dove “essere e non essere coincidono”. Nel mondo del sogno, bisogna dirlo, il nostro narratore è a suo agio: parla una lingua naturale, affabile, cordiale, il lettore si sente subito catturato da quello stato di grazia affabulatorio. È così che scopre la letteratura, la sua àncora di salvezza, che all’inizio era poesia, “solo ritmo e cadenze” – appunto come l’adolescenza, dove è tutta una questione di danza. Gargiulo nei suoi viaggi ha imparato le parole magiche giuste per esprimere il suo (loro) sogno giovanile, che è il sogno di tutti gli adolescenti, però ora fa l’intellettuale e parla con la voce della coscienza, del grillo parlante, e vorrebbe spiegare quello che non si può spiegare, ma solo raccontare o continuare a sognare. Il suo arrivo non è solo il ritorno dei sogni adolescenziali, è anche l’arrivo della coscienza, della riflessione. Ma il narratore sceglie di andare ancora più indietro perché intuisce che solo regredendo si riesce a cogliere il senso del passato, non con le spiegazioni. E così le parole possono andare a cercare nelle profondità del porto sepolto della loro fantastica, poetica origine tutto quello che di sensato esiste al mondo, per restituirlo com’è o com’era, anche se fa spavento o inquieta.

 

B. F.

Anche se i discorsi che stiamo svolgendo possono apparire paralleli, riflessioni solitarie, sono colpita dalla coincidenza: entrambi stiamo trattando della parola che si rivela. Parola della divinazione, parola della narrazione, e della letteratura “àncora di salvezza”. Ma vorrei ora che mi raccontassi come è venuto fuori il tuo libro, quando, come l’hai immaginato, pensato, scritto, in quanto tempo. Perché a volte mi sembra il libro di un’intera vita, a volte lo immagino nato da un lungo e straordinario sogno notturno, e che allora, quando ti sei svegliato, senza neppure prendere un caffè, ti sei messo lì e l’hai scritto tutto di seguito, senza quasi tirare il fiato.

 

E. D. V.

Era il 2010. Gianni Celati era venuto a trovarmi, come all’epoca capitava spesso, avevamo fatto dei giri e poi era ripartito. Il giorno della partenza lo avevo accompagnato alla stazione, e lui come sempre parlava tantissimo: quella volta elucubrava sulla sua traduzione dell’Ulisse di Joyce (che stava ultimando) e sulla centralità, in quel libro come nella vita, del tradimento. Arrivati al treno, mentre lo salutavo dalla banchina, ebbi la sensazione netta che non l’avrei più rivisto. Pochi giorni dopo, una nostra amica comune, Marianne Schneider, mi raccontò la storia del lago in una mail: era il nucleo di un libro che voleva scrivere da giovane. Mi propose di svilupparlo scrivendo una storia che poi le avrei sottoposto, in modo da innescare una specie di scambio narrativo: lei avrebbe continuato il mio racconto, io avrei continuato il suo, e così via. Un po’ come facemmo anche noi una volta, ricordi? Comunque, io scrissi il primo pezzo sull’omino rotondo che insegna ai dimenticati. Glielo passai, ma lei non andò avanti, disse che non se la sentiva, anche se le piaceva moltissimo quello che avevo scritto e mi invogliava a proseguire. Allora rimasi lì con questo omino e con le storie che cominciavano a venir fuori da sole. Andai avanti a scrivere per circa un mese, in una specie di trance, trascinato dai personaggi e dalle avventure che si affastellavano con naturalezza incredibile. Nessuna idea di racchiudere tutto in una cornice del tipo di quella che si legge adesso nel libro. Soltanto dopo qualche mese, ripensando alla partenza di Celati, mi sembrò che quelle storie avessero a che fare con la sensazione di abbandono che avevo avuto quella sera alla stazione. Era un’impressione molto vaga, ma pian piano andava precisandosi sempre più, fino a quando, dopo qualche anno, immaginai una cornice per le storie dei dimenticati ripensando alla mia pluriennale esperienza di collaborazione con Celati, ai suoi insegnamenti, alla sua improvvisa e definitiva sparizione dal mio orizzonte. La frase che leggi in epigrafe è tratta da una sua mail, e la sigla A. V. sta per Attilio Vecchiatto. Me l’aveva scritta proprio nei giorni in cui ero alle prese con le storie della valle del lago: io non la capivo molto bene, e in parte ancora non la capisco, però sembrava perfetta per il mio libro. Insomma sì, questo è il libro di una vita, come dici tu, o almeno della mia vita “letteraria”, del mio rapporto con Celati, e in fondo l’ho scritto risvegliandomi dal sogno dell’apprendistato con lui.

 

B. F.

Quindi la cornice è nata in un secondo momento?

 

E. D. V.

Dopo la fase energetica e vitalistica della scrittura delle singole storie, la cornice – che non sei l’unica ad aver notato che è alquanto “artificiosa” – mi ha richiesto molto tempo, e anche la struttura del libro, per arrivare alla forma che ha adesso, ha dovuto subire non pochi rimaneggiamenti. Perciò dico che questo è un libro sui “maestri” (e sugli allievi), e perciò lo avevo intitolato “L’apprendimento della fantasia”. Lo stupefacente giro che la mia immaginazione e la mia scrittura sono riuscite a fare partendo da una storia come quella del lago, apparentemente così distante dalla mia esperienza, mi conferma il pensiero che le immagini arrivano  per caso, e sempre e solo per caso si riesce a volte a ricavarne le giuste divinazioni, come dici tu, ossia a farci rivelare da esse il nostro destino. La letteratura non è fatta di parole, ma innanzitutto di immagini. Sono queste che contano, non le frasi o i discorsi, che vengono in maniera quasi automatica, cioè naturalmente associati alle immagini di cui son fatti i racconti.

 

3

 

3 . LETTERATURA E PROFEZIE

 

B. F.

Ora arrivo alla “luminosa giornata di primavera”. “Questa volta aveva un’aria trasognata e non era di molte parole, ma sembrava addirittura più giovane”: l’amico d’infanzia Gargiulo, col quale il narratore aveva condiviso le andate in Vespa e tutto quello che si condivide tra amici nella gioventù, ovvero grandi passioni, sogni sul futuro, scoperte e così via, gli torna alla mente “più giovane”, quando, come in quei tempi passati, è in una fase di fermento creativo che lo riporta alla necessità di un interlocutore entusiasta. Era nel momento che l’I-Ching, se consultato, avrebbe espresso con il segno Ta Ciuang, La Grande Forza, il cui senso principale è quello del “liberare le opportunità” dal momento che: “La grande forza se usata correttamente è come un ariete alla carica”. Ecco quindi il narratore seduto davanti alla finestra a guardare l’albero di noci, in una luminosa giornata di primavera, un po’ meditante un po’ assonnato, entrare in una sorta di sogno, in cui c’è Gargiulo e un’atmosfera di accennata nostalgia della sua antica presenza, e sprofondare lentamente dentro una rete di pensieri imprecisi, o piuttosto un alternarsi di sentimenti che compaiono e scompaiono. Al centro di quello stato ipnotico c’è comunque l’espressione di sé, la creatività. Il libro si apre col canto. Il narratore sta cercando il suo canto, così come Gargiulo cercava la sua musica. E dunque ha bisogno di sapere da chi sa più di lui, perché sa leggere al di là delle cose quali appaiono agli esseri umani. La maga, Rossana, sa cosa gli sta a cuore, conosce la sua disillusione e ciò che la anima, il suo rifiuto e il suo disprezzo, e fa dunque la sua consultazione, lanciando pietruzze, o smuovendo con un bastoncino l’acqua in un bacile, oppure proiettando uno sguardo turchese sull’orizzonte e i contorni tremolanti del vulcano. Ma è il cane, suo portavoce, che porta il responso: la letteratura non sarà più una mercanzia, scomparsi gli editori torneranno forse ad esserci piccoli tipografi sconosciuti, la Poesia non sarà più oggetto di premi, scrivere e poetare torneranno alla loro funzione di accompagnamento della vita, così come intrecciare un cesto, ricamare un lenzuolo, far addormentare un bambino, oppure saranno una scoperta per chi non sapeva neppure cosa fossero.

 

E. D. V.

Perché proprio un cane bianco?

 

B. F.

Tra gli indovini con cui ho lavorato, il vecchio dello stagno, che era ormai cieco, comunicava il responso della divinazione attraverso un vecchio bonario e di poco intelletto che gli faceva da servo. Gli bisbigliava all’orecchio e quello ripeteva in una monotona cantilena, sfaccendando nel frattempo. Un altro indovino parlava invece attraverso la figlia bambina che dava voce a quanto i demoni dicevano. Maretu traduceva il canto della colomba, volpi e uccelli, formiche, lasciavano i responsi sulla sabbia. E così tutti, indovini e indovine, sostenevano di essere solo un tramite, niente altro che la voce degli esseri con cui entravano in contatto, e che nulla loro sapevano o potevano se non riferire e, nei successivi rituali prescritti, eseguire. Tutto il procedimento divinatorio richiede passività, annullamento di sé. E dunque il vecchio stolto, così come la bambina, così come il cane bianco, in quanto inconsapevoli, garantiscono l’autenticità del responso. Ma non c’è solo l’aspetto della inconsapevolezza: l’uomo adulto, sociale, inserito nella comunità degli uomini, ha perso ogni capacità visionaria, ogni potere di intuire e di inventare altro, di leggere nel profondo delle cose, di fantasticare, deve conformarsi pena la marginalità. Vecchio stolto, bambina e cane bianco, colombe, volpi, sono l’umanità al suo stato minimo, l’innocenza del pensiero e la creatività, la natura con le sue leggi e la sua terribile indifferenza ed è ad essi che si deve guardare per trovare risposte alla propria inquietudine e al disadattamento. Per questo il cane bianco di Rossana.

Gli esseri umani credono di sapere, e in questa convinzione prendono il potere e dominano, odiosamente dominano anche gli animali da cui dovrebbero invece imparare, che dovrebbero attentamente osservare per cogliere le leggi che seguono, per intuirne l’essenza, imitarne l’istinto, sfruttare il loro essere tramite con la natura. Portaparola del responso può essere solo chi non vi si sovrapponga con la sua interpretazione, chi come un bambino o un folle – e qui il cane – si limiti, inconsapevole, a riferire quanto detto senza neppure capirne il senso, limitandosi a pronunciare ad alta voce una sillaba dopo l’altra.

La maga Rossana, col suo responso, fa sì che il protagonista del libro divenga un narratore, il narratore di una strana fiaba che in realtà altro non è che un pamphlet contro il tempo presente, il tempo che stiamo vivendo, le sue mode, i suoi vezzi, i suoi protagonisti di diritto. Per arrivare a questo dovrà, come nelle prove iniziatiche che accompagnano i riti di passaggio, affrontare il vuoto: “e continuai ad andare avanti da solo per il deserto buio e sterminato”. Solitudine, deserto, buio. Ma non completamente buio. Non è un buio in cui non si vede nulla, è un buio che accoglie, davanti e dietro c’è l’infinito, una vastità piana, senza ostacoli, nulla disturba lo sguardo, è come essere all’inizio dei tempi, non ci sono voci, né suoni, ma solo il suono del silenzio, un totale silenzio delle cose. Ed è in questa condizione che si può dare spazio alla fantasia, alla narrazione. Mi racconti dell’immagine di lui che va solo per il deserto buio e sterminato?

 

E. D. V.

Quel deserto è buio e sterminato come una notte “dolce e chiara… e senza vento”, che annuncia il sogno e l’abbandono. Una notte serena, che non fa paura, o almeno chi si trova a varcarne la soglia crede che non faccia paura. Perciò il buio che la circonda è rassicurante, dà letizia, come sostiene Maurizio Monina. C’è l’inquietudine, ma è l’inquietudine naturale notturna, simile a quella che elettrizza la preda mentre sta per essere cacciata dal predatore: non fa paura, fa solo sentir vivi, anche se per l’ultima volta. In questo senso, è una notte regressiva, come dicevo, una notte della quale il narratore ha bisogno per ascoltare le voci che si stanno avvicinando, fossero anche voci di predatori, e nella quale cerca di sprofondare con tutte le sue forze al solo scopo di poter scrutare meglio il cielo stellato (“la terra è solo una porzione di cielo”, dice Emanuele Coccia, “e possiamo capire chi siamo solo osservando il cielo”). È la tabula rasa, se vuoi, questa notte, sulla quale presto i fantasmi iscriveranno le loro storie, le loro linee di possibilità; e anche il narratore è finalmente una di queste infinite linee, uno dei tanti fantasmi, un personaggio tra i personaggi nel romanzo.

 

B. F.

E degli indovini, che cosa pensi?

 

E. D. V.

Quello che dici degli indovini si potrebbe adattare benissimo all’”Amore dittatore” di Dante, ma anche alla finzione dell’io romanzesco: senza l’invenzione di quel narratore, molto simile agli aiutanti dei tuoi indovini, non sarei mai riuscito a dire nulla in quanto “Enrico De Vivo”. Perché nulla sa né può l’indovino/scrittore, se non riferire quello che gli arriva da un altrove veramente difficile da definire. Dante lo identificava con Amore, ma altri lo identificano con i morti, altri ancora con gli astri, alcuni con gli angeli o con il sentito dire che ci circonda, e così via. La necessità della letteratura è tutta qui, perché noi abbiamo un continuo bisogno di notizie non dalla televisione o da internet, ma dall’altro mondo, dagli altri mondi ignoti che non conosciamo pur sapendo che esistono. Il cane bianco può annunciare così la trasformazione della realtà e l’utopia, e in un certo senso dispone il lettore ad ascoltare con spirito sereno e immaginifico le fantasie che gli verranno propinate nelle pagine successive.

Molta letteratura moderna è spesso un’accozzaglia di falsità, basata com’è sul consumo dell’autore e della persona prima che dell’opera. Il culto dell’autore è il contrario dell’intenzione primaria della letteratura e degli indovini: annullare il nome proprio in favore di un’inconsapevolezza autentica. E io preciserei, all’interno del tuo discorso, che tale inconsapevolezza è strettamente legata alla necessità di scavalcare l’angustia visiva e percettiva dell’uomo sociale e adulto: senza inconsapevolezza o immaginazione, l’uomo “inserito nella comunità degli uomini” non riesce a vedere oltre il suo naso, forse non riesce nemmeno a pensare in modo adeguato. Il cane bianco potrebbe essere un emblema di tutti i dimenticati, la sineddoche di tutte le voci che parleranno poi nel libro portando ciascuno la propria storia come risultato dell’esplorazione  “dell’umanità al suo stato minimo, dell’innocenza del pensiero e della creatività, della natura con le sue leggi e la sua terribile indifferenza” – o anche dell’adolescenza, come dicevamo poco fa.

 

B. F.

“Necessità di scavalcare l’angustia visiva e percettiva”. Mi sembra che in uno dei nostri antichi scambi ne avessimo parlato. O forse no. Credo di averne parlato con Celati. Parlato della mia stupefatta constatazione, quando scrivevo, che lo scritto si faceva da sé. Se non ne abbiamo parlato, è comunque certo che qualcosa del genere hai provato anche tu. Mi veniva cioè da pensare che la scrittura è dotata di una sua forza autonoma, una sua logica, un andamento cui ci obbliga a conformarci o con cui ci obbliga a intonarci, come l’orchestra con il la del diapason, così che i segni sulla carta o sullo schermo del computer spesso anticipano il pensiero e l’intenzione. Ma oltre a questo, mi veniva continuamente da chiedermi quando scrivevo come avessi scritto quelle parole e perché proprio in quel modo, perché quella cosa, da cosa dentro di me si generi la necessità di esprimermi in quella forma. La spinta a guardare al di là, a penetrare nel deserto buio e sterminato, a soddisfare un continuo desiderio di altro, dà luogo a quella cosa che chiamiamo ispirazione, e che non sapendola spiegare mi ha sempre provocato stupore.

 

E. D. V.

Il punto è che spesso la cosiddetta ispirazione è già lì nel momento in cui ne stai parlando o la stai pensando, come nell’Interludio di Poche parole che non ricordo più. Non arriva da nessuna parte, possono portarla anche le immagini più prosaiche, perché esiste da sempre, è come il pensiero universale o l’anima mundi di Aristotele, con il quale o con la quale, grazie a essa, noi riusciamo a entrare in contatto. Il suo nido è certamente nella fantasia e nell’immaginazione, ma ancora una volta queste non sono facoltà individuali, bensì collettive, come il cosiddetto “spirito di un popolo”. All’interno di questo “spirito” ci sono delle modalità esecutive del  pensiero che corrispondono alle abilità artistiche o sciamaniche o divinatorie (simili e collegate), che conducono ai risultati che chiamiamo opere d’arte o referti degli indovini, etc. Questi sono indubbiamente fenomeni individuali, ma senza lo “spirito collettivo” suddetto non esisterebbero. Anch’io so bene come risponde Gianni Celati al problema del nostro stupore per il farsi delle opere da sé, per lo scivolare delle parole sulla pagina bianca quasi senza che noi interveniamo: dice che questo avviene perché tutto ci arriva dall’esterno, dal sentito dire, che è come se si sedimentasse in quella che chiamiamo tradizione. In questa visione vedo una forte corrispondenza con la storia del dio Hermes che ti raccontavo e con le storie degli indovini che mi racconti tu: in entrambe le situazioni c’è qualcosa che ci precede e che parla in noi al nostro posto. Noi non facciamo altro che eseguire un dettato di discorsi già fatti, di altri e nostri allo stesso tempo. Soltanto nell’esecuzione del dettato, ovvero nell’invenzione formale – come nelle linee della calligrafia di un bambino – si può verificare tutta la nostra arte, la nostra bravura e la nostra capacità di aderire a una tradizione.

 

 

* I disegni che illustrano questo testo sono di Barbara Fiore.

 

[Questo testo è stato pubblicato il 12 settembre 2017 su librobreve.blogspot.it, diretto da Alberto Cellotto, che ringraziamo per la gentile concessione]

 

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