La mia vita per una rivista

«Dovevo questo testo a Zibaldoni e altre meraviglie dal 22 dicembre 2002, giorno della sua fondazione. Ci sono voluti 15 anni esatti e un lungo apprendistato affinché venisse fuori. Ringrazio Walter Nardon per averlo indirettamente sollecitato e tutti coloro che hanno collaborato e contribuito alla crescita di Zibaldoni fin qui, fino alla fine della sua adolescenza, o forse più semplicemente fino alla fine». [Edv]

Quando vado all’edicola – raramente ormai – lancio sempre un’occhiata al banco delle riviste e alle vetrine dove sono esposte le copertine colorate di giornali e fumetti. Cerco qualcosa, non so bene cosa. Quasi subito sono preso da un senso di delusione. Il mio sguardo vaga, indugia, leggiucchia qualche titolo, scivola distrattamente su qualche immagine patinata, ma non trova nulla. Il mondo di carte e di stampe del quale ero innamorato da piccolo non ha più niente da dirmi, è come se non esistesse più, è andato irrimediabilmente perduto, fagocitato da qualcosa a cui è difficile perfino dare un nome. Per adesso, riesco a intuire che questo qualcosa non ha un aspetto materiale, non si arriva a comprenderlo attraverso le apparenze e nemmeno con un ragionamento. Ha reso opaco il mondo stampato e illustrato nel quale abitava la mia infanzia, ma non è facilmente identificabile, non saprei darne una definizione. Benché si nasconda spesso dietro seducenti vesti (grafiche), è come un sudario astratto e insostanziale, in cui sembra avvolta anche la gran parte della realtà telepatica in cui già viviamo.

 

Prima che iniziassi a frequentare le edicole, riviste e giornali vennero loro a farmi visita a casa, dove li introduceva mio padre senza seguire alcuna strategia “formativa”, come invece si fa oggi per premura eccessiva verso i figli. Cominciai a leggerli verso i dieci anni, dopo averli sbirciati nella tasca della giacca di mio padre appesa all’attaccapanni. Il quotidiano, immancabile, era l’Unità, la rivista l’Espresso, accompagnata a volte da Rinascita. I primi articoli che lessi sul quotidiano furono quelli sul colera a Napoli nel 1973, e deve essere in quell’occasione che ho scoperto che la malattia e la morte fanno parte dei discorsi pubblici, cioè che quando la gente si ammala o muore se ne parla sui giornali. Dopo quelle letture, poiché mi vergognavo al solo pensiero che, da morto, o anche solo da infettato dal vibrione del colera, sarei finito in un articolo di giornale, presi l’abitudine a lavarmi le mani con una certa assiduità, oltre ad aver terrore delle cozze.

Ne l’Espresso trovai invece l’Eros e l’eccitazione della fantasia, i colori, le illustrazioni – laddove l’Unità aveva pochissime immagini, con tante colate di nero piombo e il solo dischetto rosso della rubrica di Fortebraccio a vivacizzare la prima pagina. L’impaginazione del settimanale era molto curata, invogliando alla lettura, anche se, devo confessare, mi colpivano soprattutto le fotografie; e soprattutto le fotografie delle donne nude o seminude, che dovettero assestare un colpo decisivo alla mia immaginazione impubere.

Da quelle visioni muliebri ricavai infatti la prima idea di rivista della mia vita, dettata probabilmente anche dal bisogno di scappar via dall’attualità giornalistica tetra e mortifera, colerosa e appestata, verso un mondo più gioioso e significativo, che non era l’eternità ma poco ci mancava – o forse era l’eternità nella sua declinazione infantile. In pratica, ritagliavo da l’Espresso le foto delle donne nude e le incollavo in un quaderno secondo una precisa architettura della pagina, centrandole o mettendone due e più insieme, a seconda della grandezza, aggiungendo negli spazi bianchi disegni e ghirigori, titoli e brevi didascalie. Ho impressa l’immagine ovale che avevo messo in copertina di una ragazza dalla lunga capigliatura bionda ripresa nel buio di spalle, della quale si scorgeva il vago volto di profilo a causa di una leggera torsione del capo; era la mia preferita, e tornavo spesso a contemplarla. Il quaderno era un quadernetto di scuola dalla copertina rilegata con la carta giallognola del pane, le pagine ispessite dalla colla e dalle foto di carta lucida. Lo custodivo nella massima segretezza in un mobile blu a due ante situato al centro del soggiorno; appena rimanevo solo in casa, lo tiravo fuori e me lo sfogliavo rimanendo seduto nella posizione del loto ai piedi del mobile blu. Tuttavia, la massima segretezza doveva essere solo nella mia testa, perché mia madre non impiegò molto a scovare il quaderno proibito, e ad aggiungere, con quello che fece dopo, un episodio importante alla storia della repressione sessuale dei giovani meridionali degli anni Settanta del ventesimo secolo.

Prima, però, di raccontare quello che fece mia madre in quell’occasione, devo spiegare quest’ultima definizione socio-antropologica, parlando un po’ della mia famiglia comunista e cattolica più che piccolo-borghese. Mio padre, per l’abitudine alla lettura, costituiva in paese un’eccezione tra gli uomini della sua generazione ed estrazione sociale (mio nonno era meccanico, mia nonna contrabbandiera). Fin da giovanissimo, pur avendo soltanto la quinta elementare, era stato appassionato lettore di Dostoevskij, Tolstoj, Stendhal, Scott Fitzgerald, Hemingway, Calvino e Pavese. La biblioteca di casa era l’immagine chiara della sua anima variegata: accanto ai libri dei romanzieri grandi e attuali, albergavano quelli di Gramsci e Togliatti, di Ho Chi Minh e Mao. Per comprendere come fosse possibile un tale miscuglio, basta sfogliare l’Unità degli anni Cinquanta, dove si scoprirà facilmente che era il Partito a suggerire questa linea culturale. Mio padre era stato lettore precocissimo de l’Unità, e lui stesso mi raccontava che da giovane organizzava nella Villa Comunale di Angri letture pubbliche del quotidiano per gli operai e gli analfabeti – fenomeno, anche questo, piuttosto singolare per i luoghi e per l’epoca.

Mia madre, invece, aveva la forma mentis di una qualsiasi diligente massaia, attenta e repressiva soprattutto sulle questioni inerenti al sesso. Anche se devo dire che non era repressiva per sua intima natura, bensì per formazione, ovvero per inculcamento da parte delle bigotte sorelle (zitelle) dei comandamenti riguardanti la giusta condotta da trasmettere ai figli in materia sessuale. “Non devono rimanere chiusi in bagno” (a casa mia non esisteva la chiave del bagno), “non devono mai sentir parlare di cose scabrose”, “nelle preghiere devono sempre chiedere perdono per gli atti impuri”, e così via. Mia madre eseguiva ordini superiori, insomma, e anche quando mi sequestrò il quaderno giallo e lo consegnò nelle mani delle bigotte sorelle (zitelle), esponendomi al pubblico ludibrio familiare per diversi mesi, me la ricordo che prendeva la questione poco seriamente, e mentre quelle sentenziavano severe davanti al mio capo abbassato, lei se la rideva. Infine, tutti per la verità – cugini, zii e affini vari – se la ridevano alle mie spalle, non sapendo forse neanche a quale categoria di mostri assegnarmi, e per un po’ di tempo, quando mi incontravano, molti di loro mi guardavano biechi. Ancora oggi, ho la sensazione che quel vulnus pesi sui rapporti con qualche parente che mi osserva con severità distaccata quando lo incontro. Io ne soffrivo? Non saprei dire; ricordo che piansi soprattutto la perdita del venerato quaderno giallo, che è rimasto nella mia memoria non solo come modello inarrivabile di rivista, dove gioco e scrittura si confondevano felicemente, ma anche come emblema dei rischi e pericoli sempre connessi al mettere su carta le proprie fantasie.

Una volta venuta fuori la storia del quaderno proibito, mio padre, che sulle questioni dove c’entrava il sesso era a dir poco un puritano radicale, portava a casa l’Espresso in versione censurata. Toglieva via tutte le immagini di donne nude, le ritagliava in ufficio, così io a casa mi ritrovavo a sfogliare una rivista defraudata della sua parte più stimolante. In seguito a questa novità censoria, presi a leggere con più attenzione gli articoli de l’Espresso dove mancavano le foto, perché leggendo potevo almeno arguire che tipo di immagine fosse stata rimossa. Inutile dire che di quegli articoli non capivo nulla – dovevano essere articoli della sezione Spettacoli o Costume, ostici per un ragazzino di dieci anni. Lavoravo perciò di fantasia, e ricorderò sempre la strana sensazione di un’eccitazione oltremisura nella lettura di quei testi astrusi, e, allo stesso tempo, la delusione inevitabile, perché alla fine non rimaneva nulla di concreto che potessi incollare in un eventuale nuovo quaderno, che ai miei occhi rimaneva, nonostante tutto, qualcosa di ancora degno di essere sognato.

 

A quattordici anni i giornali che mi passavano per le mani erano ormai roba da grandicelli, come La Città futura, rivista dal nome gramsciano della FIGC degli anni Settanta, che mio padre – stavolta con intenzione sottilmente strategica – aveva cominciato a portare a casa insieme a Rinascita per istradarmi al Verbo. La Città futura e Rinascita più che leggerle, facevo finta di leggerle, sprofondato nel divano di casa o assorto nella mia stanza, preoccupato soltanto che mio padre mi vedesse e approvasse. Non ricordo neanche un articolo, neanche una parola di quei giornali, dei quali posso dire qualcosa soltanto dell’aspetto esteriore. Rinascita si presentava come una teoria interminabile di colonne, animate soltanto dal rosso della testata e forse dei numeri delle pagine, dalle quali le fotografie erano pressoché bandite; La Città futura aveva una testata verde e molte foto, era più vivace – più “giovanile” – ma comunque insopportabile per un ragazzo di quattordici anni che comunque aveva già per la testa le poesie di Pasolini, i racconti di Pavese e i romanzi di Calvino. Se fossi rimasto in casa a leggere quella roba, avrei fatto una brutta fine, di sicuro. Invece, frequentando il Liceo e la sezione del Partito, mi accorsi che in giro, per le strade, c’era molta più vita di quella minima e severa propagandata dai giornali di Partito, e scoprii, grazie agli amici, Il Male, rivista satirica che rompeva allegramente tutte le regole ideologiche e ridicolizzava le prose barbose, parlando la lingua della comicità e giocando con l’Eros. La comicità, in particolare, fu per me una rivelazione, e queste letture mi fecero respirare l’aria pura che desideravo, ravvivando in maniera nuova il sogno d’infanzia del quaderno giallo.

Quando realizzai la mia prima rivista (la seconda, in realtà, considerando appunto il quaderno giallo), avevo poco più di quindici anni e una razionalità scrittoria da far valere, dimentica peraltro quasi del tutto dell’estro immaginifico infantile. Avevo anche un progetto di vita, come dicono i preti moderni: volevo fare il giornalista. Potevo dunque permettermi, agli occhi della comunità (e delle zie bigotte, e di mio padre), di fondare riviste nella più piena e socialmente giustificata autonomia. Si chiamava Il Punto la rivista sulla quale pubblicai i primi articoli, la realizzavo quasi tutta da solo. Si trattava di un giornale satirico, e io vi scrivevo pezzi ispirati a quelli che leggevo su Il Male, pizzicando il moralismo e i benpensanti. La particolarità di quella rivista, realizzata con il ciclostile, era l’impaginazione che curavo personalmente, scrivendo a macchina sul foglio opaco sovrapposto alla cartacarbone. Veniva fuori un fascicolo di poche pagine, sempre pieno di macchie d’inchiostro; i lettori erano i miei amici e qualche occasionale curioso, ma soprattutto io stesso leggevo e rileggevo le cose che conoscevo a memoria, avendole scritte e impaginate, stampate e pubblicate. Leggevo e rileggevo perché mi accorgevo che stampate e pubblicate sortivano un effetto molto particolare: era come se non rientrassero più in mio potere, come se si fossero distaccate da me pur avendo ancora qualcosa di me, e io le guardavo come si guarda un dente caduto o dei capelli tagliati, la fotografia di un morto che ci appartiene o un figlio che parte per andare lontano.

 

Nei primi anni Ottanta frequentavo l’università e studiavo a Urbino. Leggevo molto, di tutto. Le riviste che mi passavano per le mani erano adesso solo letterarie: Alfabeta, la rivista degli intellettuali impegnati, in formato tabloid e dalla grafica moderna, ma anche Aut-aut, dove scoprivo i testi di Vattimo e dei filosofi francesi contemporanei, e altre simili; e poi Marca, un quadernotto stampato su carta lucida e in caratteri simili a quelli della macchina da scrivere, con foto in bianco e nero, bello da sfogliare e guardare, ma non proprio facile da leggere, tant’è vero che non ricordo nemmeno che tipo di testi pubblicasse (forse soprattutto poesie e critica). La rivista che preferivo era tuttavia Il Caffè di Giambattista Vicari, che ormai non usciva quasi più, della quale ritrovai vecchi numeri degli anni Settanta nei cesti di una libreria in Piazza del Duomo a Urbino. Copertina tutta nera con un’immagine riquadrata a colori, testata in rosso e nomi degli autori in bianco, Il Caffè si presentava come un vero e proprio libro, maneggevole ed elegante. L’impaginazione era su una o due colonne, molto spartana, anche se la presenza dei disegni rendeva il tutto discretamente vivace, senza mai strafare nel senso dell’impeccabile estetica fine a se stessa, oggi tanto importante, pare, e spesso impropriamente definita “design” (che è una cosa serissima). Soprattutto, però, de Il Caffè mi piaceva l’umore che circolava in quasi tutti i pezzi della rivista, umore comico e nero, che aveva molto a che vedere con il quaderno giallo e le riviste satiriche della mia adolescenza.

Mi sembra che non esistessero ancora gli inserti culturali dei giornali, quindi era ancora un mondo piuttosto ristretto e separato quello della letteratura “militante”, che circolava tutta in pochi luoghi abbastanza riservati: ciascuno poteva scegliersi il suo preferito dove risiedere, senza essere ossessivamente invaso anche dagli altri, secondo la visione totalitaria oggi dominante soprattutto grazie al web. Tra l’altro, fu su Alfabeta che lessi nel 1984 un intervento di Gianni Celati che mi colpì molto, dal titolo Finzioni in cui credere, nel quale si parlava del’importanza di raccontare storie e di cedere ai loro consigli, senza pretendere di voler dire o spiegare chissà che cosa. Già conoscevo Gianni Celati. Qualche anno prima, in una vecchia libreria di San Biagio dei Librai a Napoli, avevo trovato il suo Comiche dalla copertina fucsia. Non saprei dire se mi colpisse di più la copertina colorata, il titolo o una citazione riportata in quarta, dove Celati parlava della possibilità di riprodurre per iscritto le smorfie di Stan Laurel e i tic mimici in genere. Quel libro mi spiazzò ed entusiasmò allo stesso tempo, me ne infatuai (ci avrei scritto poi la mia tesi di laurea), come capita spesso da giovani, quando abbiamo ancora la capacità di innamorarci di quello che non capiamo ma che promette di portarci lontano.

La postfazione di Calvino a Comiche era chiara e illuminante su tante questioni che mi incuriosivano; in essa, però, sottolineai ancora alcune frasi di Celati, che corrispondevano all’incomprensibile che cattura affettivamente: «dobbiamo morire sempre per scrivere qualcosa che raggiunga l’altro mondo»; «ho la sensazione che il mondo delle ombre viva con noi e in noi»; e ancora: «ecco il parlare naturale, il parlare senza sapere cosa significa quello che dici». Morti, ombre, parlare naturale erano per me solo parole, nude parole del tutto estranee alla mia esperienza, eppure avevano una forza evocativa che catturò subito la mia attenzione. Ancora oggi, sebbene non sia per niente sicuro di aver provato fino in fondo sulla mia pelle certe cose, ogni tanto mi risuonano nella testa come motivi di vecchie canzoni straniere, che hanno sempre qualcosa da dirmi anche se non le capisco.

Scoprii altri testi di Celati nei numeri de Il Caffè che avevo preso in quella libreria di Urbino; ricordo in particolare Il chiodo nella testa, che raccontava in forma epistolare la storia di un matto innamorato. Lessi poi tutti i suoi libri, i suoi saggi e gli scrittori che lui traduceva, tra i quali in particolare mi piaceva Céline.

Fu in quel periodo, 1985 circa, che fondai con Gianluca Virgilio, a Urbino, la mia terza rivista. Si trattava questa volta di una rivista squisitamente letteraria, composta di testi scritti solo da noi due e illustrata con fotografie e disegni di nostri amici. Si intitolava Testi e Pretesti, e non è difficile immaginare che i pretesti sopravanzavano di gran lunga i testi, essendo frutto delle mire e fantasticherie letterarie di due ragazzi di provincia che cominciavano solo allora a esplorare l’universo mondo. Io e Gianluca eravamo studenti in quel di Urbino e seguivamo i corsi di un professore che si chiamava simpaticamente Neuro Bonifazi, appassionato di racconti fantastici e di Leopardi. Studiando la letteratura proposta da Bonifazi, ci eravamo messi a scrivere anche noi, nelle nostre stanze al collegio universitario, racconti ispirati a Hoffmann, Tarchetti e Poe – nonostante Poe non rientrasse negli interessi di Bonifazi, se non erro. Ricordo che i nostri perfidi amici, mentre io e Gianluca di sera, e spesso anche di notte, eravamo assorti in gran tensione e concentrazione, ciascuno nella sua camera, a scrivere racconti che parlavano di misteriose donne velate e di morti viventi, venivano a bussare di soppiatto alle nostre finestre o ci tiravano altri spiacevoli scherzi, facendoci sobbalzare sulle sedie e tremare di paura vera, non fittizia come quella che noi due cercavamo di mettere con scarsissima arte nei nostri racconti. Racconti che, insieme ad altri testi ispirati a Proust (opera di Gianluca) e a Beckett (opera mia), sarebbero poi confluiti in Testi e Pretesti, la rivista che addirittura avrei avuto il coraggio di portare in lettura a Celati a Bologna.

 

Vidi Celati a lezione, mentre leggeva, in un’auletta semibuia dell’Università, alcuni passi di Henry James in inglese a un gruppetto di studenti. Aspettai pazientemente che finisse la lezione – che consistette tutta e solo in una lettura – e lo avvicinai porgendogli in dono la rivista con i racconti fantastici, proustiani e beckettiani. Lui la rifiutò con garbo, sorridendo e aggiungendo le seguenti parole: «Non mi metta nella posizione del giudice, andiamo a prendere un caffè». Scendemmo e andammo al bar, parlottando non so più di cosa, mentre io cercavo di ingollare la delusione per il viaggio a vuoto fino a Bologna – per non parlare della figuraccia che avrei fatto con il mio socio, che di Celati non sapeva quasi nulla se non che era uno scrittore famoso. Dopo aver preso il caffè, Celati mi disse: «Può pagare lei? Io ho solo un biglietto da centomila». Pagai naturalmente con grande piacere, e infine, non so se perché gli avessi pagato il caffè o perché gli fossi simpatico, Celati, con mia grande sorpresa, annotò il suo indirizzo su un pezzo di carta e mi salutò dicendo: «Se vuole, mi scriva». Rimasi allibito, rigirandomi il foglietto tra le mani mentre lui andava via. Come?, mi chiedevo, non accetta la rivista in lettura e mi dice che posso scrivergli? Per lungo tempo pensai e ripensai a quell’episodio, arrovellandomi nel dubbio quasi quotidianamente: «Gli scrivo o non gli scrivo?». E non gli scrivevo mai, probabilmente perché non avevo nulla da dire. Ho sempre considerato quel nostro primo incontro una sorta di koan zen, una prova alla quale scientemente il buon Celati mi sottopose con la massima naturalezza, come un santone navigato che ha gioco facile a trattare con gente giovane e sbandata, che non sa niente di niente della vita e di come va il mondo.

Fatto sta che conservai quell’indirizzo senza scrivergli per anni. Lo ricontattai in occasione della fondazione dell’ennesima rivista, della quale gli inviai il primo numero. Eravamo nella seconda metà degli anni Ottanta; l’Università l’avevo terminata ed ero tornato a casa, ad Angri; non pensavo troppo a che cosa avrei fatto nella vita. Nell’incertezza dell’età e dei tempi (tempi faciloni e semibui, di preludio alle guerre globali), mi venne in mente una rivista. Questa volta, in paese ero il giovane studente ritornato al borgo natio, che, forte di studi ed esperienze extra moenia, si pavoneggia come un grande in Giappone. Avevo delle teorie, ricavate dalle letture e dagli studi universitari (anche dalle letture di Celati, s’intende), e la rivista che progettai si chiamava Frull Kontakt (1987). Pietro Moretti disegnò la testata, che aveva come logo un frullatore vibrante nel quale venivano triturati parole e oggetti; Nicola Annarumma, Vincenzo Desiderio, Gianfranco De Biasi costituivano la redazione. Mi pare che nel primo editoriale usassi l’espressione «contatto frullante» per spiegare che avevamo intenzione di mettere insieme le cose più disparate e diverse, annullando le gerarchie tra alto e basso, eccetera eccetera. In realtà, volevamo fare soltanto un po’ di rumore antipaesano, scagliarci contro le angustie del buon senso e della morale bigotta, esplorare, infine, nuovi mondi e nuovi modi di scrivere. Per questo facevamo ancora massiccio ricorso alla satira, il genere letterario più immediato e toccante – nel senso che “tocca” chi legge in maniera fisica, mai astratta. Frull Kontakt era autoprodotto, incollando fotografie e componendo i testi nel fronte e nel retro di un foglio A3, fotocopiato clandestinamente in poche centinaia di copie presso lo studio di un ingegnere obbligato (era mio zio) a esser complice.

Frull Kontakt durò appena due numeri, la storia dei quali è presto detta. Nel primo avevamo pubblicato dei brani antisemiti di Céline, un delirio antifemminista e un pezzo di satira feroce e oscena, con tanto di foto, su un parroco famoso. Per un paesotto meridionale di quei tempi (ma anche dei tempi attuali: da queste parti la storia, come si sa, è lentissima), era davvero troppo. Si mobilitarono i più morigerati cittadini, ci furono denunce ai Carabinieri, il Comandante dei Vigili Urbani circolava per le strade del paese per individuare e bloccare chi diffondeva il pericoloso samizdat. Arrivarono delle minacce, naturalmente, alle quali reagimmo stampando un numero tutto bianco, con un solo breve articolo di fondo nel quale denunciavamo il bigottismo paesano e la censura. Mentre ci preparavamo a distribuirlo, ci accorgemmo che per le strade c’erano più carabinieri e vigili urbani del solito, e avemmo paura. Decidemmo così di liberarci di tutte le copie della rivista, disperdendole al vento nelle campagne angresi, nella speranza che almeno i contadini o i passeri raccogliessero il nostro messaggio. Insomma, di Celati non feci nemmeno in tempo a ricevere la lettera di risposta all’invio del primo numero della rivista, che al secondo già avevamo chiuso i battenti.

Comunque, nella sua lettera di risposta – con la quale riallacciavamo i rapporti dopo tanto tempo – Celati mi scriveva con affetto, dicendo che apprezzava il nostro lavoro. Ricordo che mi arrivarono i complimenti anche da Michele Serra, con il quale all’epoca ero in contatto perché seguivo Cuore, l’inserto satirico de l’Unità. Chissà, forse vista da lontano, Frull Kontakt non era male, ma qui, nel paese – me ne rendo conto solo adesso – doveva essere qualcosa di più di un pugno nell’occhio. In ogni caso, quella di Frull Kontakt fu un’esperienza molto utile, come in genere sono utili le mazzate nella vita – anche se in giro c’è sempre troppa gente che non impara mai dagli insegnamenti dell’esperienza…

 

Correva l’anno 1988, quando spostai l’attenzione sul versante filosofico-morale, per dir così, dando vita, con i soliti amici, alla rivista Il Buon Paesano (1988), che aveva un logo tutto rosso (disegnato da Romualdo Petti), consistente in un omino che avanzava sventolando una lunga fiamma. L’editoriale esortava i cittadini a comportarsi da “buoni paesani”, ma l’aggettivo “buono” andava inteso in senso ironico, perché la morale che propagandavamo era tutt’altra da quella tradizionale. La fotografia in copertina era quella di uno spazzino inglese o americano dei primi del Novecento, armato di scopa e in posa frontale, ritratto come un soldato. Io scrivevo ancora articoli di satira, ispirati questa volta a Folengo, a Rabelais e alle etimologie immaginarie di Perec e Calvino. Con Il Buon Paesano la redazione si era allargata, ero riuscito a coinvolgere gente diversissima. Collaborarono, tra gli altri, artisti come Franco Cipriano e Mario Lanzione, studiosi di diritto come Giancarlo Russo, letterati, musicisti, disegnatori, e anche Gianluca Virgilio, che curava una rubrica di poesia. Alla presentazione pubblica del numero zero della rivista, presso il Castello Doria ad Angri, intervenne una gran quantità di persone. Tra i nostri collaboratori più originali, c’era un ragazzino di Scafati, Gerry (Gennaro) Carillo, che a sedici anni aveva già letto centinaia di libri di ogni genere (soprattutto di filosofia), e quando parlava, con forbitezza strabiliante, sembrava un retore navigato e un pozzo di scienza. Il suo intervento alla presentazione, alla quale lo avevano accompagnato la mamma e il papà, fu applauditissimo anche per le connessioni e i riferimenti sapienti che seppe sciorinare.

Fu così che Il Buon Paesano prese ad avere un certo credito presso lo sparuto ceto intellettuale del circondario. Gianni Celati mi inviò un suo racconto inedito, che non ho più ritrovato stampato da nessuna parte, intitolato Dove pare a te. Era la storia, surreale ed esemplare, di un giovane supplente che capita in un paesino di nome Dotnevoia («che in dialetto parmense credo voglia dire Dove pare a te»), dove vige la regola che quando uno racconta una storia, anche la più comica, non bisogna mai ridere perché «la risata è un affronto». Quel racconto fu per me una folgorazione perché mi faceva capire che si poteva parlare di cose complicate, come la morale pubblica, e manifestare punti di vista insoliti, semplicemente raccontando una storia; e fu anche una sorta di profezia, perché conteneva la previsione di quello che mi sarebbe accaduto di lì a pochi anni.

 

In tutti i posti dove ho vissuto, in tutti i periodi della mia vita, ho realizzato o almeno immaginato qualche rivista: tranne nei primi anni Novanta a Lecco e in Val Brembana, dove finii a insegnare come supplente di una materia scolastica che non esiste più, “Dattilografia”. Trascorsi da quelle parti circa cinque anni della mia vita, e, girovagando tra monti e laghi, non mi venne mai in mente niente di interessante da mettere in forma di rivista. Forse non mi ispiravano i luoghi, forse ero io che ero finito in un periodo buio (o, chissà, finalmente illuminato…). Non leggevo quasi nulla, a parte L’Asino d’oro di Apuleio; vivevo in case sempre diverse e conoscevo pochissima gente. Forse ero troppo preso dalla famiglia e dal lavoro.

Un momento, però. A ricordare bene, anche nel periodo in cui ero emigrante qualche rivista la inventai. Nel 1993 non ricevetti l’incarico del Provveditore ed ero perciò senza lavoro. Periodo di sbandamento quasi totale. Immerso nelle difficoltà della vita quotidiana, non capivo quasi niente di quello che mi stava succedendo, e per trovare una via di scampo o di fuga, tanto per cambiare, mi misi a scrivere e immaginare riviste, rintanato nell’ufficio di Peppe Rispoli, che utilizzava dei computer Mac che allora costituivano una meravigliosa rarità (negli anni Sessanta-Settatanta il ciclostile, negli anni Ottanta le fotocopie, nei Novanta i pc, nel Duemila internet, a seguire gli smartphone: ecco una traccia per la storia della tecnica). Mentre io svariavo rinchiuso in un ufficio dalla mattina alla sera davanti al computer a elaborare la rivista Via di Mezzo, da queste parti si annunciavano, con roboanti proclami, palingenesi politiche che sembravano degne di attenzione. Il capopopolo Bassolino e la sua corte progressista avanzavano baldi e imperterriti, e anch’io mi accodavo fiducioso, sperando da buon disperato.

L’anno successivo, però, tornai a insegnare al Nord (questa volta “Italiano e Latino”). E tornai per lungo tempo a dimenticarmi delle riviste, a leggere Apuleio e a pensare solo alla famiglia e al lavoro. Mi stavo rassegnando a una vita fatta tutta così usque ad finem, quando nel 1996 arriva inaspettato il passaggio di ruolo e il trasferimento al Sud. Ritorno ad Angri, insegnamento nelle scuole medie della provincia di Napoli, letture intense e, soprattutto, uno sguardo improvvisamente attento sul mondo. A Lecco e in Val Brembana avevo in pratica sospeso la percezione, smettendo di fare mente locale: era come se fossi stato in quei posti da cieco e sordo, senza vedere né sentire niente, senza neanche capire dove mi trovavo. E adesso, al mio ritorno a casa, succedeva una cosa ancora più strana. Dopo tanti anni, non riconoscevo più i luoghi dove ero nato e cresciuto, mi sentivo disorientato. Mi guardavo intorno e niente era come mi aspettavo. Andavo in giro come un alieno, prendevo appunti perché tutto quello che vedevo mi sembrava di vederlo per la prima volta, cercavo spiegazioni in ogni direzione per orientarmi in uno spazio che pure avrebbe dovuto essermi familiare. Questo disorientamento, invece che chiudere o sospendere la percezione, come era accaduto in Val Brembana, mi faceva desiderare di rimettere a fuoco e osservare tutto daccapo. Vedevo che niente era più come prima, sia dentro che fuori di me, ma volevo anche capire che cosa era successo o stava succedendo. Ricominciai a leggere e a scrivere con assiduità, ma anche a frequentare vecchi e nuovi amici con i quali parlavo del mio spaesamento facendo lunghi giri in macchina.

Per un breve periodo, andai ancora dietro alla corte dei miracoli dei Progressisti meridionali. Ma impiegai poco a subodorarne le magagne e a captare l’imbroglio più o meno imminente del vecchio potere di sempre. E così, mentre molti si lanciavano furbamente in politica, occupando posti alla bell’e meglio, io, come al solito, trascorrevo la gran parte del tempo a realizzare giornali e giornalacci satirici, prendendo in giro questa volta i potenti locali che spuntavano all’orizzonte come il nuovo che avanza, e che mi odiavano perché io ridevo sfacciatamente, volgarmente, spudoratamente di loro sul foglio semiclandestino denominato Il Graffio. Ricordo che c’era il rappresentante sommo, a livello locale, di questi nuovi potenti – che all’inizio aveva fatto promesse di strabilianti cambiamenti ai quali anch’io avevo creduto – che, eletto deputato, veniva sempre a fare comizi al mio paese vantandosi di aver salvato questo e quell’altro da indicibili disgrazie e fallimenti. Io lo avevo soprannominato Salvatore, dipingendolo nei miei articoli come un mistico delirante. Ancora oggi, quando casualmente lo incrocio, mi guarda con aria difensiva, ha una certa diffidenza a salutarmi, temendo forse che da un momento all’altro io cacci fuori qualche vecchia copia de Il Graffio.

In quel racconto intitolato Dove pare a te, Celati aveva scritto: «Negli ultimi tempi ho la testa che non mi funziona bene e non riesco più a spiegare niente. Racconterò allora una storia per smettere di pensare, lasciando agli altri il compito di spiegare quello che vogliono, se vogliono». A quei tempi scrivevo tante stramberie perché avevo davvero la sensazione che la testa non mi funzionasse molto bene, a causa del gran conflitto, eterno e soffocante, tra essere e apparire, o, come scriveva proprio in quegli anni Peter Sloterdijk (che avrei letto però molti anni dopo), tra veritiero kinismo e menzognero cinismo. Conflitto che ancora oggi non riesco a risolvere, ragion per cui cercavo allora nelle invenzioni satiriche delle occasioni per «smettere di pensare» – occasioni che a volte ritrovavo addirittura nell’ideazione di rivistine familiari autoprodotte per celebrare nascite, matrimoni e funerali di parenti, delle quali ero spesso l’unico lettore.

Per fortuna, in quei mesi avevo ripreso anche gli scambi epistolari con Celati, al quale parlavo dei temi scritti dai ragazzini ai quali insegnavo, ricordandogli le sue ricerche giovanili con Antonio Faeti sul récit brut. Nell’anno 2000 mi inventai la rivista Per Aria – preparata tutta al pc e stampata su un foglio A4 piegato in due in verticale – nella quale pubblicai, tra le altre cose, una raccolta di “note in condotta” scritte dagli insegnanti sui registri di classe delle scuole medie in provincia di Napoli. Per Aria ebbe un discreto successo e venne anche recensita da Marco Belpoliti su La Stampa.

 

La fine degli anni Novanta fu segnata da un evento importante: la nascita del world wide web e dei siti on line, delle mailing list e dei forum. Una delle prime mailing list alla quale mi iscrissi fu Sudcreativo, gestita dall’attuale direttore di Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro. Vi intervenivano scrittori come Giulio Mozzi, Antonella Cilento, Livio Romano e molti altri. Le discussioni avrebbero dovuto riguardare la letteratura meridionale, ma finivano sempre in grosse liti e reciproche accuse sulle questioni più assurde e insostanziali, delle quali infatti non conservo alcun ricordo. Cominciava a manifestarsi così lo spirito leggermente psicotico e l’assetto spettrale del web, dove spesso senza nemmeno conoscersi ci si azzuffa, rispondendo con battute velenose anche alla più seria e profonda delle analisi, perché marcare il territorio con un po’ di escrementi è più redditizio che ascoltare quello che dicono gli altri.

Per un breve periodo, ripresi anche a stampare Il Graffio, perché il solito nuovo che avanza – più nuovo che mai, più baluginante e potente – procedeva adesso speditissimamente, ammorbando ogni angolo, e ancora una volta la satira, almeno per me, era il solo modo per trovarvi scampo.

 

Intanto avevo riallacciato i rapporti con il mio amico leccese di università, Gianluca Virgilio. Con lui in quel periodo parlavamo spesso di Leopardi, in particolare dello Zibaldone, ma anche dei Passagenwerk di Benjamin, che mi entusiasmavano. Gianluca sosteneva l’importanza della celatiana «metamorfosi dell’impensato», cioè della meraviglia dove sta nascosta e come si fa a scovarla anche solo per lo spazio di una lettura, di un appunto, di una riflessione. Volevamo fondare una rivista sul modello dello Zibaldone e dell’opera incompiuta di Benjamin. Io riferivo il succo delle nostre discussioni a Celati, scrivendogli delle mail lunghe e faticose (per me, ma credo anche per lui): «Facendo pensieri e letture intorno a questi argomenti, abbiamo pensato che sarebbe bello se esistesse un luogo cartaceo in cui confluiscano le moderne metamorfosi dell’impensato. Ed ecco quindi quest’idea degli Zibaldoni moderni, in cui vorremmo mettere insieme tutto quello che di zibaldoniano e imperfetto riusciamo a trovare tra gli amici nostri che scrivono o altrove. Sopportiamo poco gli scrittori di professione, ci piace chi scrive e basta, o chi scrive per sbaglio, per caso, per necessità, per obbligo, per incidente – perché solo questo ci dà meraviglia o sollievo».

Celati aveva la pazienza di leggere tutto, e qualcosa dovette colpirlo in quello che io e Gianluca andavamo pensando, perché nella primavera del 2001 venne a farmi visita a sorpresa e stette qui a casa mia per qualche giorno a parlare in continuazione dello Zibaldone e dell’opera di Benjamin, oltre che di tutti i pensieri che gli suscitavano. In realtà, non stavamo a casa a parlare, ma andavamo in giro: in macchina, quando riuscivo a convincerlo, oppure a passo svelto per le strade di Napoli  e dintorni, lui avanti e io arrancando nel tentativo di stargli dietro. Poi, il 29 giugno 2001 mi scrisse da Brighton una missiva ricca di spunti, nella quale ritrovai molte cose che ci eravamo detti nel corso delle nostre camminate: «L’idea zibaldonesca va bene, ma come architettura è tra le più difficili. Nel senso che se stampi roba alla rinfusa, viene fuori come tutte le riviste letterarie che vedi – cioè nulla che ti sposti dalla solita poltiglia letteraria. Nel Semplice avevamo escogitato il catalogo dei generi, il che spostava l’attenzione dagli ‘autori’ a qualcos’altro – con un po’ di umorismo. Mentre ero in America ho pensato molto ai teatrini di Joseph Cornell – sai quelle cassette dove lui incollava fotografie, etichette pubblicitarie, etc. La forma della cassetta-teatrino è più visiva che altro – ma è nella raccolta di cose d’affezione, nella grazia favolistica di Cornell, nei piccoli tocchi di impensato che sta la chiave. Questione delicatissima, perché è una faccenda di gusto. In ogni caso un impianto visivo ci vuole – nota che i letterati del nostro tempo hanno perso il senso del figurale, e vivono nel puro regno del concettuale, del cosa vuol dire. Io immagino così: trovar vecchie figurine, figurette, disegni buffi. Mescolare molto gli scritti con cose del genere. Togliere tutto dall’attualità. Teatrini senza tempo: così immagino io una possibilità, per non cadere nella solita tomba delle riviste senza allegria».

Rileggendo dopo tanti anni questo passaggio, mi ritorna in mente il quaderno giallo della mia infanzia. Io non avevo mai sentito parlare di Jospeh Cornell, ma tra le sue figurine ritagliate, le fotografie, le pubblicità trasformate in materiale onirico e incollate nelle cassette, e il lavoro nel quale mi ero impegnato fin da bambino, l’analogia è fin troppo evidente. Ai bambini – e al bambino che ero io, in particolare – non solo non basta questo mondo, ma hanno continuamente bisogno di reinventarlo e ricrearlo. Quando contemplavo le foto nel quaderno giallo, contemplavo la magia degli effetti dello spostamento di un oggetto dalla realtà obiettiva a un’altra realtà, che il senso estetico mi spingeva a inventare senza alcun bisogno di consapevolezza. Realizzando quel quaderno, si parva licet, alla stessa maniera di Cornell, trasfiguravo la realtà, andavo oltre la (sua) figura per provare ad afferrarne il mistero, per sentirmi affettivamente più vicino a essa. Fin da bambino, come tutti i bambini, avvertivo la necessità di raccogliere le immagini e di sistemarle in un mondo a parte – di salvarle, sarei tentato di dire – imbastendoci un discorso alternativo, il mio discorso, un nuovo mito cosmogonico.

È, forse, la stessa necessità che avrei avvertito da grande mettendo su delle riviste per ogni periodo della mia vita: la necessità di perpetuare una visione infantile, giocosa, mitica e misteriosa del mondo, grazie alla quale riesco a vedere meglio dove mi trovo e che cosa mi è capitato, chi sono e che cosa faccio. Anche scrivendo, mi succede in fondo la stessa cosa: scrivere e incollare figure in un quaderno sono la stessa attività, una pratica per esplorare il mondo e renderlo meno freddo ed estraneo. Non ho scoperto niente di nuovo, lo so, perché queste sono cose che la letteratura fa da sempre: ma voglio scriverlo ugualmente qui, perché a volte si dimenticano troppo presto proprio le cose più vere e importanti.

 

Sulle osservazioni di Celati, io e Gianluca rimuginammo a lungo; ci scrivevamo anche un paio di mail al giorno – mail animate e verbigeranti, come è normale per chi fantastica e progetta. Nel corso dell’estate a Galatina discutemmo del nome da dare alla rivista, mentre alla tv scorrevano le immagini del G8 di Genova e i nostri figli piccoli assistevano con sguardi già perplessi e tristi a quella specie di tragedia collettiva in tempo reale. Da quei mesi di dibattiti tra noi venimmo fuori con una soluzione leggermente barocca, scegliendo come titolo per la futura rivista Zibaldoni e altre meraviglie, e come sottotiolo: Racconti, studi, pensieri, stupori letterari. Dopo l’estate, proponemmo a diversi editori un numero zero della rivista, della quale nel frattempo avevamo realizzato uno specimen, ma non arrivarono risposte, come era prevedibile. Eppure, c’erano dentro cose davvero belle. Avevamo optato per una suddivisione in sezioni tematiche introdotte ciascuna da una citazione dantesca, e all’interno di ogni sezione avevamo raggruppato i testi inediti dei diversi autori che avevano aderito al nostro invito: Franco Arminio, Alessandro Banda, Carlo Bordini, Livio Borriello, Rocco Brindisi, Paolo Cartocci, Gianni Celati, Anna D’Elia, Stefania Fumagalli, Biagio Guerrera, Ivan Levrini, Mattia Mantovani, Giorgio Messori, Paolo Morelli, Caterina Pastura, Massimo Riva, Claude Thomas, Mario Valentini. Mili Romano disegnò gli omini con le scale che accompagnano ancora oggi Zibaldoni, e che hanno abitato nelle pagine della rivista fin dalle prime edizioni di prova. Sono l’emblema di tante cose, quegli omini. Basta guardarli per capire a volo che cos’è Zibaldoni, e bisogna sottolineare che Mili Romano fu bravissima a intuire in maniera semplice e felice la strada sulla quale ci eravamo messi.

Eppure, nella primavera del 2002 eravamo in un vicolo cieco. Che fare? Senza un editore, tutto il nostro lavoro stava per evaporare e svanire. Livio Borriello mi presentò Giuseppe Sorrentino, uno dei primi webmaster napoletani. Ci convincemmo a realizzare la rivista on line perché non avevamo altra scelta: all’epoca internet offriva opportunità vere a chi era povero ma con delle idee. Del dicembre 2002 sono il nostro primo editoriale, che riprendeva quello già fatto circolare tra gli amici e collaboratori, e il primo numero della rivista. Quello che mi piacque subito del sito (www.zibaldoni.it) e di internet fu la possibilità di gestire autonomamente le pagine e quindi di comporre testi e immagini come preferivo. La varietà dei pezzi e il gioco delle immagini, a volte d’autore (Gian Ruggero Manzoni e altri artisti ci fecero dono delle loro opere), davano ai primi numeri della rivista un aspetto vivace.

La prima serie di Zibaldoni durò fino al 2004 e fu caratterizzata da una militanza nel mondo delle Lettere tanto accorata quanto incosciente, come tutte le militanze che si rispettino. Io e Gianluca intavolavamo pubblici dibattiti nei luoghi internettiani più svariati, portando avanti lancia in resta le nostre idee comunitarie e rivoluzionarie (sostenevamo che la letteratura dovesse essere un’attività condivisa, non solipsistica), litigando praticamente con tutti quelli che incrociavamo, in particolare con Carla Benedetti, Tiziano Scarpa e tutta la redazione di Nazione Indiana, che ci indispettivano molto. Uno dei precipui effetti della militanza, quasi come di una droga, è appunto questo: dare addosso a chi ti sta di fronte, a prescindere. Ci eravamo talmente infiammati, che stavamo perdendo di vista il punto di partenza, che era pur sempre un punto sperduto nel cielo delle nostre ambizioni e dei nostri sogni, non un programma operativo per la conquista del mondo. Nel 2004 organizzammo perfino un convegno a Frascati, con l’aiuto di Paolo Morelli e Andrea Cortellessa, che ci aveva sostenuto fin dal principio, recensendo Zibaldoni su l’Indice. A Frascati intervennero, tra gli altri, Gianni Celati e Antonio Prete, che ci diedero un’utilissima, sonora lezione.

Prete disse tra l’altro: «Noi viviamo in un mondo dove tutto ciò che è lontano arriva, si fa presente, si rappresenta attraverso i mezzi telematici: il telefono, la televisione, internet. Viviamo in un mondo telematico, dove la radice tele, lontano, è pervasiva, e accoglie il nostro rapporto col lontano. Nel nostro tempo la tecnica ha preso la sostanza della scrittura per privarla di una cosa che le era propria – il senso della lontananza – e riproporla per suo conto, con i suoi mezzi, in altro modo. Ci sono scrittori che mimano lo stesso procedimento della tecnica, si muovono nell’esotico, rappresentano il lontano ma con l’artificio della vicinanza assoluta, insomma vivono con piena adesione il procedimento della tecnica. Il problema allora è, secondo me, come tenere aperta la lontananza – quella lontananza che era propria della letteratura – senza appiattirla sulla superficie dello schermo, sulla superficie del tutto detto, del tutto presente, del tutto visibile».

Celati replicò: «Non credere alla comunicazione facile, che non esiste […] ogni comunicazione è sempre in gran parte illusoria, fantasmatica – questo è il peso del mondo che abbiamo sulle spalle, ma è anche l’unico sapere dei poeti. I poeti sanno che il linguaggio deve avere una cifratura, che la lingua vive nei moti illusori del soggetto, ma se ne distacca quando tende a una autonomia come quella del linguaggio matematico. Quello è il punto in cui si riconosce una cifratura, senza la quale la lingua diventa già tutta dissacrata, senza ritualità – la lingua del disgusto, come diceva un filosofo spagnolo, José Bergamin… Per tornare a Leopardi e dare un esempio di cifratura, io citerei Alla primavera o delle favole antiche. Questo è un esempio in cui la lingua non può avere nessuna immediatezza, nessuna forma di comunicazione libera e diretta – è una poesia faticosa, con una sintassi difficile, perché parla di qualcosa che deve restare implicito, come una connivenza silenziosa con un eventuale lettore – ed è la memoria delle favole antiche. […] Ieri sera parlavamo delle vostre polemiche con quelli di Nazione Indiana, che a me sembravano discorsi informi, proprio per effetto del miraggio della comunicazione facile e diretta. E io dicevo che se aveste risposto con dei sonetti sarebbe stata un’altra cosa, perché un sonetto ha due quartine e due terzine, sono degli endecasillabi, gli endecasillabi hanno accenti tonici su certe sillabe canoniche. Sono fatti così e quindi per scriverli io mi devo alienare a qualcosa che non sono io, fuori di me – e questo è il processo di cui stiamo parlando. Se scrivendo trovo una forma, quello che conta non sono io “che mi esprimo”, ma la cifratura, l’uso delle sillabe, dei toni. A questo devo alienare la mia soggettività, per poter guardare un po’ in lontananza, come nella poesia di Leopardi».

 

La seconda serie della rivista, quasi immediatamente successiva a Frascati e alla lezione leopardiana di Prete e di Celati, fu quella della riflessione sul destino di Zibaldoni e dell’allontanamento dalla bagarre dell’attualità culturale, dell’abbandono di Gianluca Virgilio (2005) e dell’avanzamento della rivista in una solitudine speciale. Se non avessi continuato io da solo, Zibaldoni avrebbe chiuso i battenti, ed è paradossale che per portare avanti un luogo di condivisione, lo sforzo dovesse essere individuale, fosse richiesto, cioè, quasi esclusivamente a un singolo.

Mi sobbarcai l’onere e andammo avanti. Gli anni tra il 2005 e il 2010 furono i più vivi e produttivi, con la pubblicazione di testi inediti di Gianni Celati, Antonio Prete, Massimo Rizzante, Barbara Fiore, Walter Nardon, Stefano Zangrando e tanti altri nuovi amici e collaboratori. Non mancarono i momenti di sconforto e di delusione, nei quali trovai però sempre al mio fianco Gianni Celati, che nel 2006, per invogliarmi a continuare, mi scrisse una lunga lettera semiprivata (circolò per suo volere soltanto tra gli amici di Zibaldoni), della quale riporto qui alcuni passaggi con i caratteri in maiuscolo e le sottolineature come nell’originale: «Quando mi hai comunicato la notizia che lasciavi Zibaldoni mi sono incazzato per questo: per il fatto che tu buttassi via con tanta leggerezza anni di lavoro e di educazione di te stesso e di altri, con un esperimento unico nella cultura italiana, perché attualmente sempre di  più, SCRIVERE VUOL DIRE SOLTANTO TENTARE IL COLPO GOBBO DEL SUCCESSO, E METTERE L’IDEALE DEL SUCCESSO IN PRIMO LUOGO, ADEGUANDOSI ALLA PROSA DEI GIORNALI, E METTENDO FUORI LUOGO TUTTE QUELLE INCERTEZZE CHE CI RENDONO ANCORA UMANI, E NON PURI CALCOLATORI DEL COLPO GROSSO. Il tuo lavoro è stato vastissimo e modesto, è stato uno studio per ritrovare una lingua che non sia quella standardizzata della scuola e dei giornali… una disciplina non per trovare la via più furba per farsi avanti, ma al contrario – se posso dirlo – un’ideale di scrittura che è stato sempre il mio: lo scrivere come una forma di gratuità, sottratta (quando ci si riesce) alle mille pressioni della vita sociale, e votata a quella ricerca fantastica che ci collega affettivamente con gli altri. Io credo che qualunque cosa buona si scriva, nasce da uno stato di gratuità… senza scopo, senza furbizie… ossia nasce da quella gratuità che si chiama affetto… il senso del TU a cui ci si rivolge, come ciò che viene infinitamente prima dell’IO, prima DELL’EGO TRIONFANTE IN QUALUNQUE MODO». Forse non a caso il lungo periodo della seconda serie di Zibaldoni si concluse con l’evocazione del Badalucco e delle sue ombre, nella quale culminavano anche l’affiatamento e l’amicizia con Celati, insieme al quale trascorsi mesi entusiasmanti a raccontare la storia del grande attore Attilio Vecchiatto, dei suoi patemi e delle sue delusioni a vivere in un paese di furbi ormai irriconoscibile.

Nella terza, e spero non ultima fase di Zibaldoni, quella attuale, la rivista ha dovuto fare i conti con la trasformazione del web e con la massificazione della cultura tecnologica. Il canale che nel 2002 avevamo scelto per la diffusione delle nostre idee e dei nostri scritti, si era trasformato nel giro di un decennio in un territorio sterminato governato da iperspecialisti. Bisognava adeguarsi? La mia idea sarebbe stata quella di realizzare un nuovo sito sul modello delle cassette di Joseph Cornell: avrei voluto far aprire i testi a partire dall’immagine e dai titoli o didascalie che li accompagnavano, associandoli ciascuno a un oggetto di una cassetta, la quale poteva essere cambiata, nello sfondo e nell’argomento, periodicamente. In questo modo, le immagini avrebbero avuto chiara predominanza sui testi, che sarebbero stati come delle propaggini o delle radici, delle germinazioni o dei sottofondi delle medesime; inoltre, ogni cassetta di Cornell avrebbe potuto offrire di volta in volta un’indicazione tematica per i collaboratori della rivista.

Ma un sito del genere costava troppo, e forse per realizzarlo ci sarebbero voluti esperti di qualcosa che ancora non esiste, per cui dovetti lasciar perdere. Scelsi allora (2012) un impianto generale che, nel solco della storia pluridecennale di Zibaldoni, mantenesse la suddivisione in rubriche, in modo che fosse sempre visibile, per i lettori, non solo quello che si andava pubblicando di nuovo, ma anche da dove proveniva tutto quel nuovo, da quale tradizione. Nacque da questa impostazione anche l’idea degli ZiBook, libri elettronici che raccolgono i numeri delle vecchie edizioni di Zibaldoni e, parallelamente, propongono testi inediti. In questa fase, fondamentale è stato l’apporto di alcuni amici, in particolare di Walter Nardon, che ho sentito spesso e con il quale sono riuscito sempre a trovare un’utile intesa.

 

Le riviste letterarie presenti nel web hanno ormai quasi tutte un’impostazione critico-professorale o “di servizio” (editoriale), e sono strutturate secondo un modello scolastico-accademico, con un marcato retrogusto imprenditoriale. Merci tra le merci, rispondono forse in questo modo alla logica pubblicitaria e narcisistica che domina la rete, dove chiunque si affacci, lo fa per ricavarne, prima o poi, un profitto in termini economici e/o di gratificazione personale. Si assiste così a una professionalizzazione della scrittura sempre più soffocante e all’invasione di gente laureata e addottorata che scrive un articolo all’ora, un racconto al giorno, un romanzo a settimana (mentre io per scrivere queste poche pagine sono qui a travagliare da due mesi…). I professionisti dell’editoria presidiano come sceriffi il territorio che fino a un paio di lustri fa, inesplorato e vergine, era la riserva di pionieri e avventurieri grazie ai quali era ancora possibile la materializzazione di idee fantasiose ed eteroclite. All’inizio Zibaldoni era citata come esempio di rivista tra le altre, e nel 2005, in un articolo sul Corriere della sera, Roberto Saviano la metteva insieme a Nazione Indiana e I Miserabili di Giuseppe Genna, definendola «una delle riviste più seguite del web». Tutto questo accadeva forse perché era ancora non dico praticabile, ma almeno immaginabile «lo scrivere come una forma di gratuità, sottratta alle mille pressioni della vita sociale». Oggi, a. D. 2015, Zibaldoni – lo dico senza risentimento alcuno – pur essendo rimasta fedele alla sua linea e ai suoi contenuti, è sparita dall’attenzione pubblica, come è sparita dall’attenzione pubblica l’idea di scrittura di cui sopra, e la sensazione è sempre più spesso quella di avanzare soli in un deserto, come dice un mio amico, ovvero di abitare una roccaforte per dissidenti da non so cosa.

Non è detto che ciò sia un male, perché i deserti, a percorrerli fino in fondo, riservano continue sorprese, e io del resto sono qui non per scrivere la storia di Zibaldoni, ma per ritrovarne le tracce che mi aiutino a capire meglio in quale direzione proseguire. Il quaderno giallo della mia infanzia aveva una sua necessità forte (rispondeva a un bisogno di libertà) e un senso preciso (indicava una strada), come tutte le altre riviste che ho realizzato. La perizia tecnica che ci voleva per realizzarli era a portata di mano, in senso letterale. Coincideva con il lavoro della mano, della mia mano. Probabilmente, quando ho cominciato a fare Zibaldoni in internet, ho assecondato un cambiamento socio-tecnologico che ai suoi albori rendeva ancora possibile un collegamento con la manualità e con la gratuità dello scrivere, ma che nel giro di pochi anni ha mostrato la sua vera natura, invasiva e totalizzante, accumulatoria e antinarrativa. Adesso, anche solo per fare un aggiornamento del sito, devo rivolgermi a un esperto di informatica; non sono più padrone della mia mano, o meglio la mia mano è stata deprivata delle sue potenzialità tecniche, e la mente creativa e mitica è stata ridimensionata. All’atrofia della mano – e chissà, forse al declino dell’homo sapiens, che in seguito alla liberazione della mano ha cominciato a parlare e a pensare – corrisponde l’ascesa dell’homo digitalis, che utilizza solo le dita: e le dita sono fatte per contare, non per raccontare, come ha osservato un filosofo moderno.

Il web attuale non è più un mondo separato o parallelo (all’inizio io e i miei amici vi approdammo come in un’isola fantastica), ma coincide con la realtà, è esso stesso la realtà. Bisognerebbe riflettere maggiormente su quello che in quest’epoca di iperrealismo stanno diventando le arti, non ultima la letteratura, se ancora così si può chiamare (io la definirei informatura: metà informazione e metà spazzatura). La distanza tra un post su un social network e una storia contenuta in un libro à la page si assottiglia sempre di più, e così ogni scrittura va ad accumularsi in un magma indistinto dove è tutta una questione di dita veloci che devono trasmettere, contare e calcolare contenuti e informazioni, non di mano sapiente e riflessiva, che seleziona e dà forma. La mano del «bimbo innamorato di carte e di stampe», come la mano di un artigiano, inventa storie attraverso le quali spiegarsi il mondo, che altrimenti resta un caos ineffabile. Le dita dell’homo digitalis di sapiente non hanno più quasi nulla, mentre la mano, atrofizzata e indebolita, non è più capace di inventare granché, essendo condannata a sopravvivere come un relitto in un eterno presente, dove tutto ciò che serve ai protocolli superiori della vita informatizzata è la rapidità. La nostra mano è perfino troppo grande e ingombrante, forse è troppo umana, legata com’è alla mente e al cuore (può aprirsi, chiudersi, accarezzare, stringere, fare forza, battere il tempo…), a elementi cioè troppo materiali e corporei, laddove quello che domina oggi è l’insostanziale, lo spettrale, il telepatico. La nostra mano è superata come utensile, bisogna rassegnarsi. Non è difficile prevedere che tra non molto, quando saremo diventati tutti degli automi teleguidati, servirà soltanto a gesticolare o a masturbarsi.

 

Lo so, una delle possibilità è fuggire da tutto ciò, anche dalla critica al sistema, prima che dal sistema, cambiare strada. «È sempre possibile scappare ‘tra le corna’ del dilemma», è una frase di Enzo Melandri che Gianluca aveva scelto come epigrafe della seconda serie di Zibaldoni. Ma per fare che cosa? Per tornare al quaderno giallo? Per ricominciare daccapo? O soltanto per continuare a fare quello che già sto facendo? Forse il disorientamento o delusione che proviamo nei confronti dell’aspetto sempre cangiante del mondo, è causato dal semplice scarto temporale svelato da Baudelaire nei due versi successivi a quelli messi qui in epigrafe: «Com’è grande il mondo alla luce delle lampe,/ e agli occhi del ricordo com’è rattrappito!». A tale scarto corrisponde tutto ciò che ancora non capiamo e che non si lascia afferrare con ragionamenti o definizioni, che vibra piuttosto come un elastico teso tra la nostra mente attuale e quello che abbiamo visto e patito viaggiando all’interno della mente o anima universale, insieme a tanti altri come noi. Questo elastico è la migliore linea di fuga, e per fortuna la sua essenza è difficile da spiegare in quattro e quattr’otto: così possiamo rimanere qui a mantenerlo teso ancora per un po’, facendo ipotesi sul futuro mentre qualche insulso episodio del passato torna a farci compagnia e a illuderci che abbiamo vissuto.

 

 

NOTA

 

La traduzione dei versi della poesia Le voyage di Charles Baudelaire è di Gianni Celati.

La definizione e la critica dell’homo digitalis proviene da Byung-Chul Han, in particolare dal suo Nello sciame (Nottetempo, 2015), dal quale ho ricavato anche l’osservazione sul contare e raccontare.

Le citazioni di Antonio Prete e Gianni Celati sono contenute nell’ebook Polemiche, amicizia, estraneità (Zibaldoni e altre meraviglie, 2013).

La recensione di Marco Belpoliti su La Stampa è del 19 gennaio 2001.

La recensione di Andrea Cortellessa su l’Indice è dell’11 aprile 2003.

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