Ivano e Mariotta

di in: Bazar

Di fronte a casa mia, dall’altra parte della strada, ci sono due vecchi. Uno di 80, l’altra di circa 85 anni. Si chiamano Ivano e Mariotta. Sono insieme da una vita e stanno diventando sempre più sordi. Lui parla a Mariotta appoggiando il mento alla sua spalla destra e bisbigliandole parole inintelleggibili; lei mette la mano a conchiglia e, ovunque si trovi, sussurra ininterrottamente al compagno. Sono due candele antiche e ostinate che vanno spegnendosi lentamente.

Qualche pomeriggio l’ho passato con loro. Li aiutavo a curare l’orto che, cosa strana, avevano ancora entrambi le energie per dissodare e seminare. Un pomeriggio, mentre estirpavo delle erbacce fra la fila delle patate e quella dei pomodori, ho sentito improvvisamente un fortissimo dolore all’orecchio sinistro. Mi sembrava di avere qualcosa appena dietro il lobo. Ho allungato la mano e ho sentito qualcosa di molle, appallottolato. La maledetta vespa mi aveva punto. Sentii che avevo ancora il pungiglione conficcato, ma non riuscivo a toglierlo da solo. Il dolore si allargava dalla cartilagine dell’orecchio a parte del mento e al collo e lo sentivo pulsare nella testa. Mi stesi per qualche secondo a terra, per prendere fiato, che mi girava un po’ la testa. C ’era un sole fortissimo e il dolore e la calura mi facevano ballare il cervello. Dalla pancia sentivo salire incerti conati, e un odore cattivo in bocca. Durò una quindicina di minuti. A quel punto salii le scale e entrai nel loro appartamento, sperando che potessero togliermi l’ago dall’orecchio e che avessero qualche crema per calmare l’irritazione. Dentro non c’era quel solito via vai sospeso fra bisbigli e sciabattare, quello scivolare di suoni e passi fra mura e pavimento. Avanzai nel corridoio e ricordo che fissavo, come rintronato, la cornetta del telefono malriposta. Dimenticavano spesso di sistemarla. Nel letto, erano distesi uno accanto all’altra, di fianco. Ivano con il fianco destro appoggiato, sembrava ancora suggerire qualcosa all’orecchio di Mariotta, da sopra la spalla. Mariotta invece era come sgonfiata. Sembrava che non solo l’aria, ma tutti gli organi interni si fossero già seccati e rattrappiti.

Tornai in corridoio, con l’orecchio che mi pulsava ferocemente. Aprii una vano in cucina, dove sapevo che, insieme alle bollette, tenevano le medicine. Non avevano creme. Forse non erano mai stati punti, loro due.

 

Pochi mesi dopo una coppia di musicisti prese il posto di Ivano e Mariotta. Ci invitarono più volte a bere qualcosa, o a mangiar una fetta di torta, ma non me la sentivo di tornare in quel corridoio, forse per rivedere lo stesso telefono. Lui era un insegnante di scuola media, lei cantava, era un mezzosoprano drammatico. La sentivo dalla finestra di casa mia, quando facevo le pulizie, come dal balcone dell’opera. Era un uccellino spiritato e vigoroso. Un giorno presi coraggio e mi avvicinai al loro cancello. Suonai prima una, poi due volte. Nessuno rispondeva ma sentivo un pianoforte e la voce del pettirosso alta e decisa. Stavo per andarmene quando Antonio, l’insegnante, arrivo al cancello e mi invitò a entrare. Salii le scale lentamente. Entrai. Il telefono era lo stesso, ma la cornetta era al suo posto. Mi fecero sedere in salotto e ripresero a cantare. Era una splendida giornata di fine estate. Dalla finestra vedevo una nuvola grande come un paese, galleggiava un po’ sfatta, senza dire niente. Tenevo le mani in mezzo alle gambe, imbarazzato come un bambino. Improvvisamente, senza che lo volessi, mi ritrovai a piangere. Piangevo, senza pensare con chi ero, piangevo forse per la musica, o forse perché, come quella nuvola, cominciavo anch’io a disfarmi e non avevo più nulla da dire. Antonio si accorse della mia commozione e credendo di capire mi accompagnò in cucina, per offrirmi qualcosa da bere. Velocemente, salutai lui e la sua compagna e, passo dopo passo, ridiscesi le scale. La porta dell’appartamento era già chiusa dietro di me, quando decisi di andare a vedere il giardino. La nuova coppia non era interessata a coltivare un orto e ora lo spazio in cui ero stato punto, qualche mese fa, era un prato perfetto seminato di erba color smeraldo, lucente  e levigata come un tappeto. Mi stesi sull’erba, affondando le mani nella terra come nella pelle di una rana. Alzai lo sguardo verso il sole.