Fantasia walseriana

Gustavo Paradiso intervista Marco Ercolani in occasione dell'uscita dello ZiBook "Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser".

Gustavo Paradiso: Come potresti definire Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser, lo ZiBook appena uscito presso Zibaldoni e altre meraviglie?

Marco Ercolani: Come un lungo monologo, articolato in capitoli brevi, che lo scrittore Robert Walser, internato nella clinica di Herisau, rivolge al giovane psichiatra Karl Weiss, tirocinante di quell’istituto. Non un romanzo, ma una conversazione con se stesso in presenza di un’altra persona. Se fosse un brano musicale potrei definirlo una “fantasia”: in questo caso una fantasia intorno al destino di Robert Walser. Identificarmi con destini altrui è il mio costante esercizio, di terapeuta e di scrittore: un mio paradossale modo, da flâneur, di mescolare critica e narrativa, contaminando i generi letterari per non essere mai completamente riconoscibile. D’altronde, ogni scrittore ha il dovere di essere almeno duplice per non arrendersi a un unico senso.

G. P.: È realmente esistito Karl Weiss?

M. E.: No, anche Karl Weiss è un personaggio della mia “finzione”.

G. P.: Il tuo libro si ispira a dei documenti precisi?

M. E.: Passeggiate con Robert Walser di Carl Seelig è stato il mio spunto iniziale. La tenerezza con cui il critico svizzero descrive Walser e riferisce le sue parole mi ha permesso di entrare nell’universo segreto ed elusivo dello scrittore. “Per molti anni – annota Massimo Barbaro nella prefazione – Carl Seelig ha incontrato l’amico scrittore rinchiuso in casa di cura, ma ancor più in se stesso, e lo ha accompagnato in lunghissime gite, a piedi, a volte in treno, nell’Appenzell, interrompendo la continuità della sua solitudine. Walser era un uomo che camminava; con ogni stagione, in ogni condizione di tempo. Con Seelig parlava di sé, del suo mondo, dei suoi piaceri, delle sue avversioni. Seelig si è preso cura di lui, ricavandone in cambio particolari dal vivo, spontanei, al punto tale che sembra anche a noi di passeggiare con Walser. Da Seelig abbiamo potuto sapere che a Walser piacevano le ragazze («dal petto di cigno»), il buon Pinot nero, che non la letteratura lo commuoveva, ma i boschi, l’acqua, gli odori, i colori. Walser morì camminando. Da solo. Sulla neve, il giorno di Natale. Incontrò due bambini che lo videro cadere e lo soccorsero. Riferirono che morì con un sorriso sulle labbra”. Io mi sono sempre sentito tanto pervaso da questa storia che ho dovuto immaginare delle passeggiate simili a quelle, ma con Walser in compagnia di uno psichiatra e non di un critico.

G. P.: Perché un libro come questo?

M. E.: Per la doppia identificazione che mi permette: con il giovane Weiss, che tace e non pone domande, e con il vecchio Walser, che continua a parlare delle sue letture, delle sue emozioni, della sua idea del mondo. Sembra che durante il libro non succeda nulla ma alla fine tutto sembra più fluttuante, meno stabile, come sospeso su un precipizio. Come accade a me nella vita di tutti i giorni, quando svolgo la professione di psichiatra che ascolta e di scrittore che trascrive le follie, mai restandone del tutto immune.

G. P.: Perché proprio Walser e non un altro destino di folle, come ad esempio Nietzsche o Van Gogh?

M. E.: Per il tipo di follia che Walser incarna: non il violento delirio che si oppone al mondo frontalmente ma il silenzio triste che vuole, obliquamente, dissolverlo. Per l’aura di mistero che non smette di emanare dal suo lungo silenzio nell’internamento manicomiale. Perché non si sa ancora se, negli ultimi anni, Walser abbia realmente smesso di scrivere, come ha spesso dichiarato con irritazione, o invece abbia affidato ai suoi microgrammi, vergati a matita in una calligrafia semiilleggibile, un qualche testamento postumo. Il libro si pone  queste domande ma senza volerle né poterle risolvere.

G. P.: È stato difficile scriverlo?

M. E.: No. Paradossalmente, è stata un’esperienza veloce, fluida, felice. Ho composto il libro di getto, nell’estate del 2012, con la netta sensazione che per me non fosse legittimo scrivere altro.  Dopo Alexsandr Blok: taccuini 1902-1921 (pubblicato nel 1992 e dedicato al celebre poeta russo) e Il mese dopo l’ultimo (pubblicato nel 1999 e ispirato allo scrittore polacco Bruno Schulz), ho trovato, in questo mio lungo racconto su Walser, l’ideale conclusione di una trilogia dell’immaginazione letteraria.

G. P.: Cosa vorresti comunicare al lettore con questo libro?

M. E.: Forse un sentimento di volontaria sparizione da questo mondo, come indica senza esitare il titolo. Credo che il mio piacere maggiore, scrivendolo, sia stato quello di usare in modo consapevole una lingua limpida, neutra, leggera, avvicinandomi al sentimento di suprema ironia che pervade lo spirito di Walser. Ho spesso avuto la sensazione, capitolo dopo capitolo, che l’esercizio della scrittura fosse come un atto di liberazione dal peso delle parole. In un magnifico libriccino su Walser, Il passeggiatore solitario, W.G.Sebald annota: “Con la precisione di un sismografo Walser registra le minime scosse che si verificano ai margini della sua coscienza, prende nota delle fenditure e dei corrugamenti che vengono a prodursi sul terreno del pensiero e delle sue emozioni – qualcosa che ancora oggi la scienza psichiatrica è lontana dall’immaginarsi”. Sperando che la psichiatria, oggi, abbia ancora il potere di immaginare e non solo di classificare.

G. P.: C’è una chiave di lettura del libro?

M. E.: Sì, il silenzio dello psichiatra, il suo scacco. Possiamo immaginare, nella fiction della narrazione, il giovane Weiss trascrivere con pudore i monologhi dell’anziano scrittore, attento a non interrompere il loro flusso, cancellando il suo personale commento, le sue stesse domande. Talvolta il silenzio del terapeuta è una forma di commossa complicità con la parola eccentrica del folle. Permette, a quella parola, di esistere, senza trovare per essa armature, interpretazioni, fraintendimenti, che ne attutiscano l’energia. Scrive il mio Walser: «La tua piccola scienza, dottor Weiss…piccola, troppo piccola, e pensare che potrebbe diventare così grande. Vasta come un panorama che nessuna terra può contenere. Ma voi vi ingegnate solo a descrivere le vostre paure. Cercate soluzioni, non vi fate allibire. Molto brutto, questo, e spiritualmente povero. Il dolcissimo Schubert ci faceva allibire sempre. Così ingenua, la sua musica si snoda prolissa e sublime per valli e sentieri, le sue frasi hanno sempre lo stupore melodioso del Wanderer che si ferma in una radura incantata e luminosissima: sono ciò che voi non avete mai avuto e che io non dimentico. Passeggio felice, nonostante l’età. Mi commuovono i cieli temporaleschi. Credo che scrivere derivi dalla paura di guardarli veramente».

G. P.: Ti piace ancora nascondere la tua identità nelle identità altrui?

M. E.: Sì, quando questo nascondersi può svelarmi a me stesso. Se non fosse così, sarei solo un costruttore di favole vuote, di inutili menzogne. Io fingo delle storie con l’idea di correggere il passato, di arricchirlo di nuovi contrasti, e così restituire luci e ombre a un presente sempre più deprivato di memoria.

G. P.: Hai parlato di pudore. Puoi sviluppare il tema?

M. E.: La scelta del pudore è la scelta, oggi, del silenzio. Il “preferisco sparire” del malinconico Walser è l’invito, etico e inattuale, a lasciare il clamore superficiale di una società dove tutte le voci tendono a sopraffarsi: è un salutare atto di disubbidienza contro qualsiasi tipo di ordine, prescrizione, dovere. L’Istituto Benjamenta, in Jakob von Gunten, il luogo dove si disimpara ogni educazione positiva, ogni istruzione al progresso, dove si impara a essere uno zero assoluto, è un messaggio più eversivo dell’angoscia kafkiana, molto vicino alla dura malinconia leopardiana. Credo che oggi nulla sia più decisivo del silenzio. Il mio libro è un inno a questo silenzio attraverso uno dei suoi più straordinari interpreti: quel Robert Walser che si sottrae alle leggi dell’attualità, della scrittura stessa, per essere un folle che intreccia canestri dentro un manicomio, mite e inoffensiva creatura che cammina fra boschi e colline, d’estate e d’inverno, per poi, inevitabilmente, sparire nel freddo e nella neve, esausto e sereno. «Certo, potevo scegliere un convento per chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui  si è sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete».

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