Penna e matita. Sui microgrammi di Walser

Robert Walser. La grazia e l’abisso/ 3 - Nel corso di un convegno svoltosi a Genova il 24 aprile 2015, quattro critici e scrittori contemporanei si sono interrogati sull’enigma degli ultimi anni di vita di un classico sommerso della letteratura del primo novecento, Robert Walser (Bien, 1878-Herisau, 1956), dal 1933 fino alla morte, mentre era ospite volontario del manicomio di Herisau. Autore di alcuni capolavori della letteratura tedesca, da La passeggiata a Jakob von Gunthen, da I Fratelli Tanner a Il Brigante, Walser (al quale Zibaldoni ha dedicato uno ZiBook scaricabile gratis qui sul nostro sito) ci appare oggi come uno scrittore estremo e appartato, che ha tentato di sottrarsi alle leggi dell’io e del mondo, scegliendo il mite silenzio della follia invece del vano rumore della ragione. Con l’intervento di Giuseppe Zuccarino proseguiamo la pubblicazione degli Atti del convegno genovese. Seguiranno l’intervento conclusivo di Marco Ercolani e una traduzione inedita in italiano di un pezzo di Robert Walser.

I personaggi e le storie che si incontrano nelle pagine di Robert Walser possono sembrare solo frutto della sua immaginazione, ma non appena si prende conoscenza delle effettive vicende esistenziali dello scrittore svizzero ci si accorge con sorpresa di quanto il piano letterario e quello biografico siano, in molti casi, strettamente correlati[1]. Ad esempio, se volessimo cercare una sintetica autopresentazione dell’autore, potremmo trovarla nella novella Vita di poeta. In essa si legge: «Nell’esistenza di cui ci occupiamo l’ingegnosa, delicata penna, guizzante con rapida grazia sul foglio di carta per scrivervi ogni sorta di cifre e frasi eleganti e carine, ha sempre svolto evidentemente un ruolo decisivo. […] Qualunque tempo facesse, in qualsiasi giorno o stagione, in ogni genere di stanze, vani o locali riscaldati o non riscaldati, se ne stava il più possibile appartato dal mondo, pur di potersi abbandonare ogni tanto, con più o meno soddisfazione, alle sue fantasie. […] Si può insomma parlare, a proposito di questa meschina, staremmo per dire proletaria vita di poeta, soprattutto di impieghi in ogni sorta di uffici e di studi, di ripetuti cambiamenti di posto […], cioè, in fondo, di una duplicità di aspetti: di lavoro d’ufficio e di paesaggi, di posti ricoperti e di posti abbandonati, di un aggirarsi per la libera, generosa natura e di uno starsene seduti, incollati a quegli scrittoi dal piano inclinato che si usano negli uffici commerciali»[2].

Certo, tra i molti lavori svolti da Walser ce ne sono stati alcuni ancor più eccentrici, come quello di «domestico tuttofare in una villa sulle rive del Lago di Zurigo» o «valletto di un conte» in un castello dell’Alta Slesia, ed è anche vero che per certi periodi egli «si è dedicato alla professione del libero scrittore», ma l’impiego della penna a scopo utilitario è stato comunque ben presente nella sua vita; anzi, in un periodo di difficoltà economiche egli si è trovato persino a lavorare in una «copisteria per disoccupati»[3]. Cosa sia un luogo del genere ce lo spiega, non a caso, uno dei suoi personaggi, Simon Tanner: «Un ufficio dove parecchi uomini giovani e vecchi stavano seduti a degli scrittoi e scrivevano. Era la copisteria per disoccupati, dove arrivavano quelli che per una qualsiasi circostanza erano venuti a trovarsi nella situazione in cui è ormai impensabile trovare ancora un posto in un’azienda. Questo genere di persone scriveva con dita frettolose, per una magra paga giornaliera, sotto gli occhi severi di un sorvegliante o segretario, scriveva indirizzi, per lo più indirizzi commerciali a migliaia, che grosse ditte ordinavano a quell’ufficio»[4]. Una funzione così alienante della scrittura non si discosta molto da quella cui sono soggetti gli impiegati di banca descritti in un’altra novella. Ecco, in ogni caso, come si presenta il loro luogo di lavoro: «In una sala del genere ci sono press’a poco da dieci a quindici file di scrittoi, separate da corridoi per passarli in rivista, e a ogni doppio scrittoio lavorano un paio di persone. […] Più in alto di tutti nella sala c’è lo scrittoio del capo»[5].

Non sorprende che i personaggi walseriani, dopo breve tempo, stentino a resistere in ambienti simili e anzi si licenzino, benché non sempre lo facciano col tono disinvolto e strafottente con cui Simon Tanner si rivolge al proprietario di una libreria per congedarsi da lui: «Stare in piedi dietro uno scrittoio dal mattino fino a tarda sera, mentre fuori splende il più dolce sole invernale, […] curvare la schiena perché lo scrittoio è troppo basso per la mia statura, […] scrivere come un qualsiasi maledetto scrivano […]. Devo forse sprecare le mie forze, la mia voglia di fare, il piacere di me stesso, e le mie brillanti capacità, su un vecchio, misero, minuscolo scrittoio di libreria?»[6]. È vero che Simon si licenzia non allo scopo di dedicarsi alla letteratura, bensì perché gli piace vagabondare fra le bellezze del paesaggio naturale, oppure fare nuove esperienze e nuovi incontri. Walser, da parte sua, tendeva invece ad avvertire il lavoro d’ufficio come tendenzialmente incompatibile con la propria vocazione di poeta e narratore. Dice infatti in un curriculum, parlando di sé in terza persona: «Ha lavorato nel settore delle assicurazioni ed in quello delle banche […], e ha scritto delle poesie a proposito delle quali è da notare che non le ha scritte nei periodi in cui era impiegato. Anzi, per scriverle abbandonava di volta in volta il proprio posto di lavoro»[7].

Curiosamente, le sue poesie venivano vergate su strette strisce di carta. Più tardi, Walser ha dichiarato in proposito: «Lo facevo in un pacifico spirito artigianale, ma vi era in ciò qualcosa di segreto»[8]. È una strana abitudine, quella di non utilizzare dei normali fogli, ma la ritroviamo in Simon Tanner («Stava scrivendo quasi automaticamente, senza volerlo, e precisamente su delle striscioline di carta che aveva ritagliato con la forbice»[9]) e nel protagonista di Vita di poeta («Sembra bensì ch’egli abbia cominciato assai presto a scrivere, su listarelle di carta, delle poesie»[10]).

Se Simon è orgoglioso dell’eleganza, sul piano visivo, della sua scrittura, tanto che può vantarsi di essere «un abile calligrafo»[11], la stessa cosa vale per lo scrittore svizzero, che riconosce: «La calligrafia mi ha reso spesso eccellenti servigi. Già al ginnasio ero celebre per questo»[12]. Ricorda appunto Werner Morlang che «da sempre, la bella scrittura era stata decisiva per l’identità professionale di Walser. È ben noto che, negli anni di collegio, la sua bella mano gli aveva fruttato l’elogio dei maestri, e senza dubbio lo ha indotto ad entrare come apprendista alla Banca cantonale bernese. In seguito, essa ha rappresentato la linea di saldatura, di separazione e al tempo stesso di contatto, tra il mestiere alimentare e il mestiere di scrittore»[13]. Il problema è ben posto: da un lato, infatti, c’è un ideale conflitto fra l’uso della calligrafia nel lavoro d’ufficio e l’impiego della medesima quando si tratta di trascrivere in bella copia i propri testi letterari (con l’intento di farli pervenire a giornali, riviste o case editrici, nella speranza che li pubblichino); ma dall’altro esiste un elemento di congiunzione fra i due differenti ricorsi alla manoscrittura, ed è dato dallo strumento utilizzato. Che Walser rediga, con eleganza grafica, fatture commerciali e indirizzi in un ufficio, oppure poesie, racconti e romanzi in quanto scrittore, egli lo fa comunque impiegando il più nobile e consueto dei mezzi, vale a dire la penna. O almeno, questo è ciò che i critici e gli studiosi della sua opera hanno creduto per lungo tempo.

A modificare questa opinione è intervenuto un fatto nuovo, ossia la scoperta, nel lascito dello scrittore svizzero, dei cosiddetti microgrammi a matita. Si tratta di un insieme di 526 fogli disparati, perlopiù materiale di riciclo: buste o lettere ricevute, biglietti da visita, moduli per telegrammi, attestati di versamenti da parte di editori, pagine di calendario, pezzi di carta da imballaggio e così via. Su questi supporti eterogenei, Walser aveva tracciato col lapis, con una grafia minutissima e in apparenza illeggibile, dei testi visualmente bene ordinati, che spesso occupano l’intero spazio libero del foglio e non presentano quasi mai ripensamenti, correzioni o cancellature. Si tratta di testi letterari di natura diversa: brevi prose, poesie, scene dialogate e persino un intero romanzo. L’impressione che suscitano questi blocchi di scrittura miniaturizzata è nel contempo di ammirazione, per la meticolosità e precisione di chi li ha vergati, e di inquietudine, al pensiero di una così insolita pratica portata avanti per anni in maniera ostinata[14]. La stesura delle annotazioni a matita risale infatti ad un lungo periodo, che si estende dal 1924 al 1933. Si tratta di anni tutt’altro che agevoli nella vita dell’autore, visto che coincidono in parte con quelli della sua reclusione nella clinica di Waldau, dove viene ricoverato a partire dal 1929 per disturbi mentali di tipo schizofrenico[15]. Più tardi, ossia a partire dal giugno 1933, Walser sarà trasferito in un’altra clinica, quella di Herisau, dove rimarrà – ma senza più scrivere nulla – per oltre due decenni, ossia fino al giorno di Natale 1956, quando morirà nel corso di una passeggiata solitaria nella neve.

Le date hanno una certa importanza, perché mostrano subito l’impossibilità di far corrispondere esattamente la pratica della scrittura a matita col periodo del ricovero a Waldau, visto che lo scrittore vi ricorreva già parecchi anni prima. Un’indicazione in tal senso ci viene dallo stesso Walser, in una lettera del 1927 nella quale egli fornisce anche importanti chiarimenti sui motivi che lo hanno indotto a preferire il lapis alla penna. Scrive infatti a Max Rychner: «Deve sapere che una decina di anni fa ho cominciato ad abbozzare prima a matita, con timidezza e in maniera sognante, tutto ciò che producevo, cosa che, beninteso, doveva imporre al processo di scrittura una lentezza strascicata, quasi colossale. Io devo al sistema della matita […] dei veri tormenti, ma tali tormenti mi hanno insegnato la pazienza […]. Per quanto riguarda l’autore di queste righe, c’è stato in effetti un certo momento in cui è stato colto da una terribile, da una spaventosa avversione per la penna, un momento in cui ne fu stanco a un punto che posso a malapena descrivere, in cui diventava del tutto inebetito per poco che cominciasse a servirsene, e per liberarsi da questo disgusto della penna si mise a scrivere a matita, ad abbozzare, a folleggiare. […] Con l’aiuto della matita, potevo meglio giocare, comporre; mi sembrava che il piacere di scrivere potesse allora riprendere vita»[16]. Come si vede, Walser parla senza reticenze di una crisi che lo ha colpito, un vero e proprio blocco psicologico in relazione alla scrittura, da lui risolto attraverso il cambio di strumento, sufficiente a produrre un effetto disinibitorio. La stessa ammissione si legge, del resto, proprio in uno dei testi micrografici: «Confesserò come mi è venuta l’idea di vergare sulla carta la mia prosa con la matita […]. Ho scoperto un giorno, in effetti, che cominciare con la penna d’acciaio mi rendeva nervoso, e per rassicurarmi mi sono messo a utilizzare la matita, cosa che senza dubbio rappresentava una via traversa, una fatica supplementare. Ma dal momento che per me, in un certo senso, questa fatica somigliava a un piacere, mi parve che in ciò vi fosse un vantaggio. […] Fra l’altro, mi sembrava in qualche modo di poter lavorare a matita in maniera più sognante, più calma, più lenta, più contemplativa, credevo di poter guarire, letteralmente, grazie al metodo di lavoro che ho descritto»[17].

Al carattere provvisorio e labile delle annotazioni effettuate col lapis si associa un altro tratto essenziale, di cui però lo scrittore non parla affatto nella lettera a Rychner, ossia la micrografia, che trasforma i foglietti walseriani in testi segreti e, in quanto tali, affascinanti e al tempo stesso perturbanti. Quest’ultimo effetto deve essere stato colto con forza da Carl Seelig, che tanti meriti ha avuto nei riguardi dell’autore svizzero, e non soltanto quello di aver scritto il magnifico libro Passeggiate con Robert Walser. Egli si è trovato ad essere l’affidatario dell’insieme di eterocliti foglietti ma, pur decidendo di conservarli con cura, ne ha trascritto e pubblicato pochissimi, volendo forse rispettare l’intento di segretezza che credeva di scorgere dietro un così singolare sistema di notazione.

In anni più recenti, quest’impressione è stata condivisa da un grande scrittore tedesco, Winfried Georg Sebald, il quale però non ha mancato di elogiare il tenace lavoro di decrittazione dei microgrammi che ha portato gli studiosi a trascriverli. Ne sono scaturiti sei volumi, che occupano alcune migliaia di pagine a stampa[18]. Conviene citare un ampio passo di Sebald al riguardo, perché solleva delle questioni su cui dovremo soffermarci: «I microgrammi, la cui decodificazione a opera di Werner Morlang e Bernhard Echte è uno dei più importanti servizi resi alla letteratura negli ultimi decenni, costituiscono – quale ingegnoso espediente per continuare a scrivere – i messaggi cifrati di un individuo confinato nell’illegalità e i documenti di una vera emigrazione interna. Certo, ricorrendo a un procedimento così poco definitivo qual è la scrittura a matita, Walser mirava soprattutto a superare – è lui stesso a spiegarlo in una lettera a Max Rychner – una situazione di stallo. […] Egli cercò inconsciamente di trovare un nascondiglio in quei segni indecifrabili, ovvero un’occasione per mimetizzarsi al di sotto del livello linguistico fino a dissolversi del tutto. Ma il sistema dei fogli volanti e del lapis è anche un’opera di difesa e di consolidamento unica nella storia della letteratura […]. Io, in ogni caso, non posso certo accontentarmi dell’opinione secondo cui gli ingarbugliati testi dei microgrammi rispecchierebbero, nell’aspetto esteriore e nel contenuto, il progressivo logorio psichico di Robert Walser. Mi rendo perfettamente conto che, nel loro peculiare formalismo, magari nell’estrema coazione alla rima caratterizzante ad esempio la lirica, oppure nella precisione quantitativa con cui viene fatto uso dello spazio disponibile su ogni singolo foglietto, essi rimandano per certi versi a una scrittura patologica […], e tuttavia non per questo li ritengo attestazioni di uno stato psicotico»[19].

Tale punto di vista può essere accolto, e al tempo stesso reso più complesso. La questione del segreto, in effetti, si pone. Ciò vale sul piano generale, vista la reticenza ad esibire la sfera intima della propria personalità da parte di Walser, il quale anzi teorizzava tale atteggiamento: «Non bisogna andare a scrutare dietro ogni segreto. Di questo sono stato convinto tutta la vita. Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di strano, come dietro un muro coperto d’edera?»[20]. Nel caso specifico dei microgrammi, basti pensare al ricorso a una specie di stenografia personale, e ancor più alla stessa dimensione dei caratteri, la cui altezza si aggira di solito sui due o tre millimetri.

 

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E tuttavia, pur adottando la matita come stimolo per un modo di notazione più sbrigliato, lo scrittore non perde mai di vista la possibile utilizzazione futura dei propri fogli volanti. Ciò spiega come mai parecchi passi vergati col lapis siano stati poi da lui trascritti a penna, con ritocchi e aggiustamenti, al fine di pubblicarli sui giornali, mentre altri brani, anch’essi diligentemente copiati a penna, siano stati editi dopo la sua morte[21]. Ancor più rilevante ci sembra il fatto che in questi testi compaiono con grande frequenza appelli al lettore e spunti di natura metalinguistica, come se Walser non riuscisse mai a dimenticare la presenza virtuale di qualcuno che – per così dire, da dietro le sue spalle – potesse osservare e giudicare tutto ciò che, riga per riga, egli andava annotando. Questo però non significa che, nei microgrammi, la scrittura diventi più semplice e lineare, più adeguata al fine di produrre delle trame narrative che si adattino alle preferenze del pubblico, visto che accade esattamente l’inverso: l’argomento su cui dovrebbero vertere i singoli testi si perde spesso in un dedalo di digressioni, e persino la tecnica di attuare frequenti anticipazioni o riprese dei singoli spunti tematici dà luogo ad effetti ironici, anziché fornire coerenza e solidità al discorso.

È vero che qualcosa di simile era già presente nei testi editi da Walser, specie nelle sue prose brevi, e che talvolta egli avrebbe potuto asserire di sé (al modo in un suo personaggio, Jakob von Gunten): «Lo riconosco che chiacchiero, ma bisogna pur riempire in qualche modo le righe»[22]. Gli interpreti più avveduti della sua opera hanno saputo cogliere, dietro l’apparenza umoristica, bonaria e infantile di un simile gusto per la divagazione qualcosa di assai poco rassicurante, ossia la presenza dissimulata dell’angoscia e del disagio psichico. Così Walter Benjamin ha potuto scrivere, già nel 1929: «Per Walser il “come” del lavoro è tanto poco una cosa secondaria che tutto ciò che egli ha da dire passa completamente in seconda linea di fronte all’importanza dello scrivere. Si potrebbe dire che si esaurisce nello scrivere. […] Non appena ha preso in mano la penna entra in uno stato di disperazione. Tutto gli sembra perduto, è sopraffatto da un profluvio di parole in cui ogni frase ha solo il compito di far dimenticare quella precedente. […] Questa imperizia casta, raffinata in tutte le cose del linguaggio è eredità del folle. Se Polonio, il prototipo della loquacità, è un giocoliere, Walser si incorona bacchicamente di ghirlande di parole che lo fanno inciampare e cadere»[23]. E nello stesso senso procederà, più tardi, la lettura di Canetti: «La peculiarità di Robert Walser come scrittore consiste nel fatto che egli non dichiara mai che cosa lo muove. È il più celato di tutti gli scrittori. Le cose gli vanno sempre bene, è sempre incantato da tutto. Ma le sue fantasticherie sono fredde perché omettono una parte della sua persona, e per questo sono anche inquietanti. Tutto in lui diventa natura esteriore e per un’intera vita egli continua a negarne l’essenza più vera e segreta, l’angoscia. Solo negli ultimi anni si formano e si manifestano le voci che si vendicano su di lui di tutto ciò che aveva tenuto nascosto»[24].

Canetti ha il merito di condurci, con quest’ultima osservazione, a esaminare un po’ più da vicino la questione della follia. È interessante notare che lo stesso Walser ha associato la prima comparsa dei sintomi della propria malattia a una pratica intensiva della scrittura: «Cominciarono a giungermi, per l’attrazione che esercitava il nome della capitale svizzera, molte offerte e proposte di collaborazione da giornali stranieri. Si trattava perciò di cercare nuovi motivi e idee. Mi dovetti scervellare e ciò nocque alla mia salute. Negli ultimi anni di Berna fui tormentato da brutti sogni: tuoni, grida, la sensazione che mi afferrassero per il collo strozzandomi, allucinazioni auditive, sicché spesso mi svegliavo urlando»[25]. In quel periodo, ossia nel 1929, il suo comportamento diventa bizzarro e irregolare al punto da indurre sua sorella Lisa a farlo visitare dallo psichiatra Walter Morgenthaler, il quale ne prescrive il ricovero alla clinica di Waldau[26].

Lì il suo comportamento è quasi sempre quello di un paziente tranquillo, e la stessa cosa vale in seguito, durante il ricovero ad Herisau, come si desume dalle cartelle cliniche: «Vivacchia inattivamente, di tanto in tanto fa qualche sottile osservazione – calmo, imperturbabile, distaccato, impassibile, “filosofico”. Impossibile un rapporto vero e proprio, solo per cortesia entra, per così dire, in rapporto con qualcuno, nulla di preciso può catturarlo, non si lascia stanare dalla sua riservatezza, quantomeno s’interessa, ma assai a malapena, di ciò che gli si dà da leggere; minima spontaneità in ogni cosa, come fosse rassegnato alla vita e non chiedesse che la propria pace»[27]. Nondimeno, le allucinazioni auditive continuano a perseguitarlo: «Riguardo alle voci, dichiara di averle costantemente, talvolta sarebbero moleste, il più delle volte minacciose. […] Così per circa 10 anni, da quando è stato a Berna. – Forte? – “A seconda. Variano. Talvolta ci si può intendere molto bene, talaltra possono farsi all’improvviso di malumore […]”. – Quante voci? – “Di solito una o due, maschili”. – Se la cosa lo deprima. – “Non potrei dirlo”. Di tanto in tanto assai moleste, altrimenti no. Assai lunatiche, prepotenti, dispotiche. Lo sgridano, del tutto a casaccio, senza preoccuparsi a lungo di un motivo. – Se possa liberarsene. – “Possibile, temporaneamente. Mi ordinano di badare al successo, e se per qualche verso non sono del loro parere, cominciano a inveire e insultare”»[28]. Come si capisce anche dalle osservazioni walseriane riferite da Seelig, lo scrittore non intende affatto «badare al successo», anzi dimostra scarsa considerazione per i libri che ha pubblicato in precedenza: «Ultimamente si è voluto interrogare il paziente sulle sue opere. Ma ci ha messo in guardia dall’acquistarle, poiché avrebbe scritto solo cose assai mediocri che di sicuro non ci sarebbero piaciute, ed egli non vorrebbe sottoporci a spese superflue. Altrimenti, infatti, dopo potremmo comunicargli la nostra delusione per la bidonata, ed egli dovrebbe allora, per decenza, poterci risarcire. […] Interrogato su quale dei suoi libri gli sembri il più importante, il paziente risponde: “Nessuno”. Nessuno dei suoi libri ha avuto successo»[29].

Se proviamo adesso a mettere in rapporto le osservazioni fin qui condotte con il più celebre dei testi che la decifrazione dei microgrammi di Walser ha reso accessibili, vale a dire il romanzo Il Brigante (la cui stesura risale al 1925), possiamo verificare che si tratta di un’opera di un genere alquanto diverso rispetto alle altre dell’autore. Infatti, rapportato ai tre romanzi da lui pubblicati nel primo decennio del Novecento (I fratelli Tanner, L’assistente e Jakob von Gunten), Il Brigante appare ben più audace e imprevedibile. In esso, la trama si dissolve quasi del tutto, ma non si ha l’impressione che lo scrittore perda il controllo su di essa, bensì piuttosto quella che egli si diverta ad eludere o sviare di continuo le attese di chi legge. Il narratore sembra giocare nel contempo col personaggio principale (quello indicato nel titolo) e col lettore. Vediamo almeno un esempio di questa duplice strategia: «Adesso il mio eroe romanzesco, o colui che deve ancora diventare tale, si tira la coperta fin sopra la bocca e pensa a chissà che. Aveva l’abitudine di pensare in continuazione a qualcosa, direi quasi di almanaccare, sebbene nessuno lo compensasse per questo in alcun modo. Da uno zio, che aveva trascorso l’esistenza a Batavia, ricevette una certa somma, ma di quanti franchi? In merito a questa somma non sappiamo nulla di preciso. […] Sulla scorta di tale aiuto gli fu possibile, in un certo senso, continuare a condurre la sua esistenza bizzarra, e sulla scorta di tale esistenza ordinaria e pur tuttavia straordinaria io ora compongo un libro ponderato, da cui non si può assolutamente imparar nulla. Ci sono persone infatti che pretendono di cavare dai libri punti fermi per la vita. Io, peraltro con mio sommo rammarico, non scrivo per tale categoria di rispettabilissime persone»[30].

D’altro canto, sarebbe molto ingenuo considerare il romanzo alla stregua di un divertissement. Infatti, vale anche per esso ciò che Roberto Calasso annotava a proposito dell’opera walseriana in generale: «Walser scrive nel segno della chiacchiera labirintica, una difesa di mormorii e arabeschi dalla minaccia del Minotauro, una fattura gettata sul lettore per render possibile la scomparsa dell’autore. Difficilmente potrà evitare l’equivoco totale su Walser chi non riconosca che ogni sua parola sottintende una precedente catastrofe. Qualcosa ha reciso gli ormeggi, il vascello allucinatorio della prosa di Walser procede senza equipaggio, segue gli impulsi da qualunque parte provengano, il corso vagabondo delle associazioni non fa certo pensare ad una volontà libera»[31]. Nel caso specifico del Brigante, tale fenomeno diviene ancor più complesso, proprio perché si ha una continua alternanza tra identificazione e distacco del narratore rispetto al personaggio, entrambi non privi di tratti autobiografici. Come osserva in proposito Sebald, l’opera si configura come «un autoritratto e un’autoanalisi di assoluta onestà, in cui sia a chi racconta la storia di una malattia sia a chi ne è il protagonista tocca il ruolo di autore. Pertanto la voce narrante, che è al tempo stesso amico, avvocato, tutore, guardiano e angelo custode dell’eroe minacciato e quasi distrutto, di quest’uomo difende la causa prendendone ironicamente le distanze […]. E infatti qui, in questo romanzo postumo, scritto per così dire già dall’Al di là, si accendono in Walser alcune illuminazioni sul suo particolare stato psichico e sull’essenza dell’alienazione mentale»[32].

Ciò è talmente vero che nel Brigante Walser trova finalmente il coraggio di esplicitare in un’opera letteraria, sia pure tramite la proiezione su un personaggio esterno, la propria condizione di disagio psichico: «Bisogna tener conto di quanto segue: “a quel tempo” lui arrivò nella nostra città di certo già malato, pieno di strani squilibri, di inquietudine. Lo molestavano, per così dire, certe voci interiori. È forse venuto da noi per guarire, per trasformarsi in un concittadino sereno e soddisfatto? A ogni buon conto in quel periodo soffriva di attacchi, consistenti nell’idea che volessero guastargli “tutto”. In seguito rimaneva a lungo oltremodo diffidente. Si credeva perseguitato. […] Sempre tentavano di instillargli un senso di insicurezza, di scissione, di scollamento da se medesimo»[33]. Nel contempo, però, la capacità di mantenere una distanza ironica dalle proprie asserzioni consente a Walser di mettere in guardia il lettore con uno spiritoso e saggio ammonimento: «Rivolgo alle persone sane il seguente appello: suvvia, non leggete sempre e soltanto libri sani, accostatevi anche alla letteratura cosiddetta patologica, dalla quale potrete forse trarre vera edificazione. Le persone sane dovrebbero sempre, in certo qual modo, rischiare qualcosa. Altrimenti, corpo di mille fulmini, a che scopo mai essere sani? Solo per morire un giorno di troppa sanità? Sorte maledettamente desolata…»[34]. Infatti, come egli ribadisce in altri testi micrografici, non è poi così facile sceverare la salute dalla malattia, anche perché «esiste d’altra parte qualcosa di malaticcio nella salute, e di sano nel malaticcio», e la stessa cosa vale in ambito letterario: «Ci sono stati e ci sono degli scrittori che, nell’istinto di essere malati, hanno scritto o scrivono cose sane, e degli scrittori in perfetta salute che, per folle turbolenza, per capriccio o per vanità, hanno gettato e gettano sulla carta cose che vengono definite malsane»[35].

Forse intuizioni del genere sono divenute accessibili a Walser proprio grazie al ricorso al duplice – e solo in apparenza inutilmente laborioso – procedimento che unisce la micrografia e l’impiego del lapis. La matita, come abbiamo notato, si accompagna ad un tipo di scrittura più segreto, e dunque più disinibito, rispetto a quello che viene praticato con la penna. Del resto, il lapis è di per sé un oggetto umile e inappariscente, ma appunto per questo, a giudizio di Walser, meritevole di lode. Egli infatti, in una sua prosa, non ha mancato di deplorare lo scarso rispetto che viene di solito riservato a tale strumento grafico: «Per quanto riguarda la piccola matita, c’è da notare che si sa sufficientemente farle la punta fino a quando è ancora possibile fargliela, dopo di che, divenuta ormai inutilizzabile a causa di un uso impietoso, la si getta via senza che a nessuno venga nemmeno lontanamente l’idea di rivolgerle almeno una piccola parola di riconoscenza e di ringraziamento per i numerosi servizi prestati»[36]. Spetta oggi ai lettori dei microgrammi associarsi allo scrittore svizzero nell’apprezzare i benefici effetti che, almeno in certi casi, la matita può produrre.



[1] Cfr. Catherine Sauvat, Robert Walser. Biographie, Monaco, Éditions du Rocher, 2002.

[2] R. Walser, Vita di poeta, in Vita di poeta (1917), tr. it. Milano, Adelphi, 1985, pp. 136-137 e 144.

[3] Le espressioni virgolettate sono tratte da brevi autopresentazioni: I curriculum vitae di Robert Walser, in R. Walser, La fine del mondo e altri racconti, Locarno, Dadò, 1996, pp. 137-139.

[4] R. Walser, I fratelli Tanner (1907), tr. it. Milano, Adelphi, 1977, pp. 225-226.

[5] R. Walser, Una mattinata, in Storie (1914), tr. it. Milano, Adelphi, 1982, pp. 143-144.

[6] I fratelli Tanner, cit., pp. 16-17.

[7] I curriculum vitae di Robert Walser, cit., p. 137.

[8] R. Walser, cit. in Bernhard Echte, Robert Walser, sa vie son œuvre. Chronologie, in AA. VV., Robert Walser, l’écriture miniature, tr. fr. Carouge, Zoé, 2004, p. 73.

[9] I fratelli Tanner, cit., p. 97.

[10] Vita di poeta, cit., p. 137.

[11] I fratelli Tanner, cit., p. 115.

[12] R. Walser, in Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser (1957), tr. it. Milano, Adelphi, 1981, p. 64.

[13] W. Morlang, Magie du camouflage micrografique, in AA. VV., Robert Walser, l’écriture miniature, cit., p. 16.

[14] Il medesimo libro offre parecchi esempi di questi foglietti walseriani, riprodotti a colori e a grandezza naturale.

[15] È da notare che nello stesso istituto era già stato internato suo fratello Ernst, dal 1898 fino al decesso per suicidio nel 1916; tre anni dopo, morirà suicida anche un altro fratello di Walser, Hermann (cfr. Note e cronologia, in C. Seelig, op. cit., p. 215).

[16] R. Walser, lettera a M. Rychner del 20 luglio 1927; il passo è riportato in W. Morlang, op. cit., pp. 13-14.

[17] R. Walser, Esquisse de «Esquisse au crayon», in AA. VV., Robert Walser, l’écriture miniature, cit., p. 36.

[18] R. Walser, Aus dem Bleistiftgebiet, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1985-2000. Si veda anche l’antologia R. Walser, Le Territoire du crayon. Proses des microgrammes, tr. fr. Carouge, Zoé, 2013.

[19] W. G. Sebald, Le promeneur solitaire. In ricordo di Robert Walser, in Soggiorno in una casa di campagna (1998), tr. it. Milano, Adelphi, 2012, pp. 124-126.

[20] R. Walser, in C. Seelig, op. cit., p. 37.

[21] È il caso, ad esempio, di R. Walser, Diario del 1926. Frammento, tr. it. Genova, Il Melangolo, 2000.

[22] R. Walser, Jakob von Gunten (1909), tr. it. Milano, Adelphi, 1970, p. 110.

[23] W. Benjamin, Robert Walser, in Opere complete, III, tr. it. Torino, Einaudi, 2010, p. 355.

[24] Elias Canetti, annotazione del 1967, in La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972, tr. it. Milano, Adelphi, 1978, p. 304.

[25] R. Walser, in C. Seelig, op. cit., p. 25.

[26] Lo psichiatra in questione è stato lo scopritore e l’attento studioso dell’opera pittorica di Adolf Wölfli, uno dei massimi esponenti dell’art brut (cfr. W. Morgenthaler, Arte e follia in Adolf Wölfli, tr. it. Padova, Alet, 2007). Il pittore era stato a sua volta ricoverato a Waldau dal 1895 fino alla morte, avvenuta nel 1930.

[27] Referto del 9 luglio 1935, in Cartelle cliniche di Robert Walser, tr. it. in «Marka», 30, 1993, pp. 19-20.

[28] Referto del 10 gennaio 1939, ibid., p. 20.

[29] Referti del 15 agosto 1942 e del 18 dicembre 1946, ibid., pp. 22-24.

[30] R. Walser, Il Brigante, Milano, Adelphi, 2008, pp. 13-14.

[31] R. Calasso, Il sonno del calligrafo (1970), in I quarantanove gradini, Milano, Adelphi, 1991, p. 75.

[32] W. G. Sebald, op. cit., pp. 126-128.

[33] Il Brigante, cit., pp. 57-58.

[34] Ibid., p. 76.

[35] Le Territoire du crayon, cit., pp. 117 e 139.

[36] Cenere, lancetta, matita e fiammifero, in La fine del mondo e altri racconti, cit., pp. 76-77.

Un commento su “Penna e matita. Sui microgrammi di Walser

  1. Silvano Calzini

    Interessantissimo anche questo intervento. Credo proprio che il passaggio dalla penna al lapis sia parte integrante del percorso walseriano; una tappa, non casuale, verso l’approdo finale al silenzio.