Ogni volta che penso di fargli un regalo sono costretto a un esame di coscienza. A Natale, arrivare in fondo alla città, lasciare la macchina al parcheggio e prendere il breve sentiero dietro la casa di riposo, fino ai condomini grigi del Tritone, si sta facendo impegnativo: il regalo sopravvive soltanto in virtù di una determinazione astratta. Del resto, in questa circostanza non è tanto la gratitudine a prevalere, quanto uno stato d’animo che ritrovo quasi immutato ogni volta che mi tocca affrontare la questione e che negli anni ha prodotto un crescente senso di colpa nei miei confronti, un disagio neanche troppo segreto, come se nell’augurio e nel piccolo dono che vado a portargli avvertissi qualcosa di umiliante.
Per farla breve. Non ho mai avuto un rapporto stretto con lui, né un vincolo formativo; sono stato, per così dire, solo un suo collega molto più giovane e credo che questo renda la faccenda più sfumata e insieme più ambigua; non tanto nei termini di una dipendenza culturale, né a causa di un lavoro comune o svolto sotto la sua direzione (mai intrapreso), né ancora in un ruolo da lui favorito: anzi, sotto questo profilo la mia autonomia può dirsi completa. Il nostro rapporto era nato sulla base dell’ammirazione per il suo impegno e di quella che ritenevo, da parte sua, una stima generica nei miei riguardi che in effetti non ha poi avuto modo di crescere ed è rimasta inalterata, tale a quella del nostro primo incontro. Quanto al mio disagio, solo di recente sono riuscito a fare un passo avanti. Qualche giorno fa, osservando l’immagine di un insegnante e di alcuni giovani alunni delle scuole primarie su un quotidiano on line, proprio mentre mi dicevo che fra poco sarebbe stato tempo di portargli un dono natalizio, qualcosa si è fatto più chiaro: mi sono ricordato del modo in cui si sedeva davanti a uno studente.
Prendeva la sedia con un gesto sbrigativo e intanto con rapida, quasi istantanea coordinazione ci si sedeva sopra mostrando in volto l’espressione di chi sa rivolgersi al giovane che si trova intimorito dall’altra parte del banco: «Allora, che facciamo? Ci decidiamo?» Quest’enfasi sulla concretezza provocava una reazione nello studente che il più delle volte arrivava a balbettare qualche parola. Sulla scorta di questa minima apertura, prima ancora che lo studente avesse tempo di accorgersene, lui lo anticipava rovesciandogli addosso la sua disponibilità, prodigandosi come se avesse dovuto assicurargli che ciò che stava per compiersi, quasi per celebrarsi, era soprattutto una decisione relazionale – e, verrebbe da dire, univoca – davanti alla quale lui non sarebbe mai arretrato, una relazione perentoria più che il semplice, ma onesto, tentativo di venire a capo insieme di un problema comune (il quale, anzi, come tutti gli altri problemi, rimaneva sullo sfondo). Il maestro sorrideva con la vittoria in pugno. Ciò che in quel momento prendeva forma, e che a un primo sguardo impressionava i testimoni della scena, era invece, a ben vedere, l’espressione di un fenomeno più noto e tutto sommato meno apprezzabile. Ci ho messo un po’ a capirlo e credo di aver colto che l’origine del mio fastidio si trovi qui. Questo fenomeno è, in sostanza, una forma di cameratismo.
Era questo ciò che vendeva. E naturalmente che conquistava i presenti, benché il suo talento non si fondasse su doti eccezionali. Fisicamente era magro, o meglio un po’ appesantito, ma con dei gesti rapidi che si mostravano ad esempio nel saltello col quale saliva sul primo gradino del palco; i capelli, curati – e invariabilmente più neri che grigi – erano tagliati corti e pettinati all’indietro. Sotto la fronte alta il viso aveva un’espressione ordinaria nella quale risaltavano due occhi neri e mobilissimi; il timbro di voce non era inconfondibile, ma era nitido, adatto a un’eloquenza che si fondava – come troppi precedenti – sul trionfo del tono colloquiale e, va da sé, sul primato dell’azione. Del resto, il cameratismo coinvolge sempre, purché se ne accettino per intero i presupposti contestuali, la cui definizione non ci compete. Coinvolge e tutela. Ci dice che il mondo non è difficile da interpretare, se la compagnia è quella giusta. Sentirsi così fortemente appoggiato, per gli studenti o anche per chi come me, per ragioni familiari, non aveva mai incontrato un pieno riconoscimento, poteva rivelarsi insospettabilmente incoraggiante: ma la base materiale di questo appoggio – ci voleva poco a capirlo – consisteva nella sua interpretazione semplificata di problemi su cui non si fermava poi a lungo, tanto era convinto che le ragioni dell’apprendimento si trovassero altrove. Non discuteva mai di questioni generali, che a suo avviso erano di dominio pubblico: per lo più le dava per scontate, ricorrendo alla citazione di un autore che sentiva affine e di cui abbozzava sul posto un breve schizzo. Si concentrava invece sempre sul momento dell’azione, su ciò che motiva un gesto, proponendo di fatto se stesso come modello (non come mezzo, come esempio da esaminare e da superare).
Tentavo di andare a fondo nell’interpretazione che in lui appariva risolta solo emotivamente, e che si rivelava lo strumento per fondare una condotta morale efficace che non poteva fermarsi sulla necessità che ciascuno studente avvertiva – o che almeno avrebbe dovuto avvertire – ossia quella di trovare la sua voce. Perché anche questo era chiaro, in modo simile ad altri contesti a guida carismatica: la voce, davanti a lui, lo studente non la poteva tirar fuori, né era incoraggiato a farlo; gli si chiedeva solo l’adesione a un modello morale mai descritto in dettaglio (ma tratteggiato per brevi cenni) che mirava a tradursi subito in azioni concrete, più che in un discorso autenticamente personale. Di personale, invece il maestro vendeva il suo libro che, a ben vedere, risultava poco memorabile.
Ci incontravamo sui corridoi: il suo passo leggermente scomposto, i maglioni color ocra con i polsini neri. «Ma come fai,» mi diceva, «a essere sempre qui a lavorare? Devo preoccuparmi?» Nonostante la mia reputazione fosse poco rilevante, ero stato tentato di fissare i miei seminari alla stessa ora delle sue lezioni, non solo per rievocare qualche precedente fuori scala, ma per rivendicare la mia autonomia; anzi, per rivendicare la legittimità di un’alternativa. La segreteria però mi aveva subito dissuaso, dicendo che era tecnicamente impossibile. «Perché, poi», aggiunse l’impiegata, «vorrebbe guastarsi i rapporti col professore? Non crede che in futuro potrebbe darle una mano?»
Mi ero accontentato di mettere le mie ore dopo le sue. Da lui era sempre pieno. Prima che cominciassi la lezione alcune studentesse entravano scusandosi nella mia aula per riporre le sedie che in quella del professore (avendo trovato tutti i posti occupati) erano state costrette a disporre lungo il muro.
2.
Per quanto possa suonare bizzarro, gli ultimi anni hanno di nuovo chiarito che la migliore risposta per contrastare una scoperta scientifica è la meraviglia. Poiché la conoscenza dell’alimentazione che si è diffusa in tempi recenti ha portato gran parte dei consumatori a considerare i dolci non solo sotto il profilo del gusto, ma anche dal punto di vista delle loro conseguenze caloriche e, per così dire, chimiche, gli operatori del settore sono stati costretti a una contromisura. Così le pasticcerie si sono fatte inverosimilmente eleganti: spettacolari, dipinte di rosso bordeaux (come questa), di verde oliva, con dettagli terra di Siena bruciata e finiture oro; oppure di bianco avorio, con gli arredi in noce e le sedie nere laccate. Poltroncine in velluto, tavoli di dimensioni parigine, sempre più stretti. Glassature a specchio. Le vetrine superano in eleganza quelle delle gioiellerie: la scelta del dolce è diventata più esigente. Visto che ce ne possiamo permettere poco, quel poco deve essere più buono e di conseguenza – va (più o meno) da sé – più costoso. Così l’acquisto somiglia a qualcosa che si pone a metà fra il privilegio accordato – questo sembrano significare le mani esperte della commessa che mi mostra il gioiello – e l’investimento nell’oggetto dall’alto valore simbolico, memoria di una particolare ricorrenza.
Annuisco a Federica, elegante nella sua divisa nera, mentre depone il mio acquisto nella scatola fantasia. Ho scelto una veneziana da un chilo: gli porterò questa.
«Vuole anche una borsa?»
«Sì, grazie».
Per qualche tempo ho riposto in lui troppe aspettative. Mi auguravo che, al di là delle nostre opinioni divergenti, mi riconoscesse come un interlocutore. Non mi auguravo di uguagliarlo in popolarità – o di avere con lui chissà che dialogo – ma speravo, direi esigevo di parlare con lui alla pari. Del resto, giocavamo in tornei diversi, con regole diverse e risultati diversi: cosa mai poteva andare storto? E invece. Non che non mi abbia concesso la mia parte di enfasi nella presunta relazione: era così contento di sapere che anch’io mi davo da fare; ma non mi ha mai detto una sola parola su ciò che facevo, mentre si aspettava che io gli rivolgessi ogni volta un commento critico («Altrimenti, che ci staremmo a fare qui dentro?»).
D’altra parte, le mie giornate erano ormai piene: andavo per la mia strada, avevo cominciato a trascorrere molto meno tempo nel mio studio, preferendogli la biblioteca o meglio ancora il mio appartamento. Da un po’ uscivo con Giulia. Negli ultimi cinque anni del suo impiego mi sono limitato ai saluti, a qualche frase detta di sfuggita in corridoio. Nel frattempo i suoi libri, troppo numerosi, si stavano semplificando: «Mi sono dato alla divulgazione», diceva. Gli studenti cominciavano a darlo per scontato. L’inseguimento divulgativo, in questo senso, non poteva andare a buon fine.
3.
Nei primi mesi dopo aver troncato ogni rapporto con lui (già vedevo poco anche i miei colleghi), di sabato andavo a piedi in aperta campagna, fin dove cominciano i vigneti. Prendevo l’autobus, scendevo quasi al capolinea e mi lasciavo trasportare dall’estro del momento. Un pomeriggio, proprio mentre avevo raggiunto uno dei posti più lontani delle mie camminate, mi arrivò una telefonata che mi invitava a contribuire a un volume collettaneo, un’opera a più mani coordinata da un amico di Pavia. Osservando il sole già basso sulle vigne spoglie avevo immaginato un corteo di fine stagione, in cui il maestro di musica dava la nota iniziale, come il canto di una delle tante feste del raccolto.
D’un tratto il telefono suonò di nuovo: era lui, voleva vedermi. Gli dissi che ero un po’ fuori mano, ma il tono si fece tanto insistente che mi convinsi a tornare indietro.
Aspettando l’autobus pensavo a cosa potesse alludere questa chiamata; scartai subito l’ipotesi di una sua svolta improvvisa, ma non capivo per quale ragione la mia presenza potesse risultargli tanto necessaria e tanto urgente.
Un’ora dopo ci vedemmo in un bar poco fuori il quartiere del Tritone, dove abitava già da alcuni anni. Un locale senza pretese, con l’arredo in pino e la tappezzeria arancione.
Lo trovai seduto a correggere bozze con una trentina di fogli davanti a sé e un pennarello rosso aperto appoggiato di traverso sopra una pagina. Si alzò per salutarmi. Aveva l’espressione di chi si deve risolvere una faccenda impellente.
«Mi hanno dato un premio per l’insegnamento, un premio alla carriera».
«Beh, buon per te».
«Naturalmente, dovrò tenere un discorso: le solite cose, in cui non devo dimenticare la pedagogia, che come sai ho sempre trovato una disciplina sovrabbondante».
«Non vorrai che ti aiuti? Prima di tutto, non è il mio campo; e poi abbiamo troppe divergenze su questi temi».
«Ti ho chiamato proprio per questo. Vorrei che tu ascoltassi quello che ho da dire e che mi dicessi quel che ne pensi».
Ecco dunque l’argomento e il modo per i quali mi promuoveva a suo interlocutore.
«Avrai pochi minuti, e la maggior parte se ne andrà fra le parole di circostanza e le allusioni ai libri che hai scritto».
«Il fatto è che vorrei fare un po’ un bilancio».
«E lo faresti qui? Dico, in questa sede, nei minuti che avrai a disposizione?»
Annuendo, si lasciò andare a un sorriso, col mento che toccava il collo della camicia. E qui intuii qualcosa: quando rideva, non lo faceva mai in piena libertà, per scaricare una tensione interna, ma rideva come un attore; sorrideva in modo coerente con l’immagine di sé: allargandosi il sorriso somigliava a una rassicurazione rivolta all’interlocutore, dalla quale lui restava escluso. Di conseguenza, anche quando si faceva rumoroso, il suo riso rimaneva completamente estraneo alla chiassosa festa eversiva di ogni convenzione che segna il cuore di una risata.
Da sotto il plico delle bozze tirò fuori fuori tre fogli e cominciò a ripercorrere la sua attività, partendo dal noto assunto – per me discutibile – che un insegnante non sa niente se non è in presenza di un allievo. Mentre provava il tono per la platea, mi chiedevo se quel motto donmilaniano non fosse in fondo vero solo per lui, ossia se, in assenza di un pubblico non ancora formato, le sue parole fossero in grado di sostenere il rischio di difendersi da sole: a me sembrava che, lette sulla pagina, perdessero in fretta il loro vigore, che era appunto vigore retorico performativo.
Il problema, però, era un altro. Mi dispiaceva di non avergli resistito, spendendo un momento di generosità non so nemmeno quanto sincera.
Naturalmente, lui dedicava tutto il suo successo agli studenti, che a suo dire ne erano stati gli artefici. Certo lo erano stati della sua fortuna editoriale, anche se i libri valevano più che altro quanto nel Novecento valeva un souvenir, il piccolo pezzo di legno con la foto di un rifugio, memoria di una gita in montagna.
«Cosa pensi, sarà eccessivo?»
«Figurati: sei nel tuo tono abituale, andrai benissimo.
4.
Con la veneziana, mi sono fatto dare anche un biglietto di auguri. La pasticceria fornisce anche questo. Visto che il regalo è materiale, mi sembrerebbe ridicolo aggiungere un messaggio via telefono, o un’e-mail.
Dal momento in cui i suoi libri erano parsi di colpo meno concentrati (gettando in tal senso un fascio di luce retrospettiva sui precedenti, non molto più densi) se la sicurezza non lo aveva abbandonato, avevano cominciato ad abbandonarlo proprio gli allievi. Era davvero una novità, perché a volte se ne trovava in aula solo una ventina. Di per sé, sulle prime l’aveva presa benissimo: pensava di scrivere di più. Ma il guaio stava proprio nel fatto che la scrittura per lui non aveva mai rappresentato un traguardo; semmai, un punto di partenza per nuove imprese, uno strumento per approdare a nuove mete. Eppure di incarichi sociali, tutto sommato, ne aveva ricevuti pochi (giusto il comitato scientifico di un paio di fondazioni e il consiglio di amministrazione di un ente benefico). Per quanto avesse alleggerito la prosa muscolare dei suoi libri giovanili, restava lontano dai digiuni in cerca della frase giusta, o dei ripensamenti notturni affinché la pagina potesse conservare la tonalità voluta. A quanto pare dormiva benissimo. Anzi, a sentire lui, il suo era anche il miglior esempio di stile. Del resto, il problema in lui non era affatto stilistico, espresso nei termini che apparentemente trascurava, ma proprio di contenuto, ossia legato a ciò che gli stava più a cuore: l’interpretazione non risulta personale perché chi la svolge impone il proprio modello quale esempio da imitare, lo è se esplicita fino in fondo la prospettiva dalla quale viene condotta; e qui nelle sue pagine mancava sempre qualcosa: il suo contesto familiare, i suoi studi giovanili spesso citati solo di sfuggita; i genitori e i maestri fermi in una divisa inappuntabile e scontata. Seguendo un costume comune, non appena preso servizio aveva nascosto con cura i suoi esordi, le persone che lo avevano aiutato e promosso. Non le citava mai, anzi aveva cercato di allontanarsi anche dai suoi maestri a forza di eleganti distinguo. I suoi coetanei però, ricordavano in dettaglio quella stagione.
Ci penso mentre ascolto Lullaby dei Cure aspettando il verde a uno dei troppi semafori dei lavori in corso: avrò circa dieci macchine davanti a me. Dovrò fermarmi due turni.
Ora per lo più scrive a casa, fa quattro passi con sua moglie Ada, con la quale mi sembra abbia condiviso un’alleanza di destini, anche se si sono fatti vedere poco insieme. La coda di amici e conoscenti si è ridotta: sul fronte pubblico le interviste si sono diradate. Paradossalmente, lo chiamano solo per parlare di pedagogia.
Finalmente mi muovo. Saranno almeno tre mesi che la strada è accidentata a causa dei lavori.
Apro il finestrino per valutare il freddo.
Parcheggio, prendo la scatola del dolce e il biglietto.
Una volta era intervenuto in un mio seminario. Si era messo in terza fila, concentrato, con i pollici a reggersi la fronte nel punto d’incontro delle sopracciglia. Conclusa la lezione mi aspettò all’uscita. Sembrava ansioso di parlarmi. In effetti, fu particolarmente incisivo: mi disse che dal suo punto di vista avrei dovuto fare altro, cominciare un altro percorso. Col suo tono incoraggiante mi indicava una via ragionevole, quella che lui aveva tracciato, o per meglio dire che aveva ereditato, perché appunto nessuno poteva dire dire che si fosse allontanato molto dai suoi maestri. Aveva ammantato il suo lavoro di un’enfasi pragmatica, efficace nelle sue performance, ma sotto l’impegno emotivo avevano continuato a ruotare gli ingranaggi di uno schematismo istituzionale. La sua sensibilità lacunosa e la sua mancanza di immaginazione gli impedivano di immedesimarsi nel punto di vista altrui e devo riconoscere che un’incomprensione di queste proporzioni non era priva di un autentico candore.
D’altra parte i suoi limiti – a lungo strumentalmente ignorati dai colleghi – non erano affatto nascosti, come del resto ogni cosa che lo riguardava. Il suo lavoro avrebbe potuto essere discusso parecchio tempo prima, senza aspettare che fosse – com’è ora – superato dalle mode di stagione. Credo che anch’io avrei dovuto fare di più.
Sul sentiero, un vialetto tenuto male e illuminato da pochi lampioni, proprio vicino al condominio dove devo arrivare, mi accorgo che una coppia di anziani si è fermata ad ascoltare due ragazzi che hanno improvvisato un piccolo concerto natalizio: avranno quindici anni. Tutti e due con berretto da Babbo Natale (per far capire le intenzioni), credo suonino in realtà un po’ di tutto. Uno ha la fisarmonica, l’altro la chitarra. Stanno cantando un pezzo di Ed Sheeran ma, in omaggio al pubblico, virano in fretta verso White Christmas, scelta che spinge uno dei due pensionati, il marito, a un modesto contributo gettato nella custodia della chitarra.
Mi fermo anch’io.
Dopo un momento, mentre gli anziani prendono la via di casa, lascio ai ragazzi il dolce. Poi vado a imbucare nella casella giusta il mio biglietto di auguri.

Liberazioni - Walter Nardon
La grandezza degli altri.
L’illusione e l’evidenza. Note sulla narrazione - Walter Nardon
La fine dei giochi - Francesca Andreini
Forse sognare. Su Angera e il progetto Infinite Jest – serie tv
Cene eleganti
Un posto nel mondo
Un genere felice e senza scampo.





















