A journey in the dark

di in: Bazar

Scesi per la seconda volta nelle profondità della terra parecchi anni or sono, sotto l’esperta guida di un vecchio minatore di Rivamonte Agordino, che chiamerò con il suo soprannome, Tìta, perché è solo così che, nei gruppi degli uomini che dalla notte dei tempi  si confrontano con le forze della natura, si viene identificati.

Tìta era una guida di eccezionale valore, e la sua abilità nel muoversi  tra le gallerie scavate nel sottosuolo appariva quasi sovrumana se confrontata con le sue  ormai precarie condizioni fisiche.

L’anca anchilosata, una gamba ormai molto più corta dell’altra, l’uso di una suola alta e il ricorso frequente alle stampelle. Conseguenza del lavoro qui sotto, mi fece notare quando mi accompagnò nella miniera di Rivamonte: l’acqua filtrava dalla volta e dalle pareti della galleria, flebilmente illuminata dalla lampada a carburo, quasi che la roccia stesse sudando… attento agli occhi! Mi scostai, un piccolo schizzo può causare bruciori tremendi. Forse sudava davvero, ed era un sudore acido, che consumava in fretta indumenti e materiali: vidi un binario corroso, un badile bucato in più punti (devi usare quelli forgiati, gli altri durano poco). Di lì a poco avvertii un dolore sordo alla spalla sinistra: se l’umidità si faceva sentire, nelle ossa, anche dopo solo pochi minuti, le condizioni di Tita non potevano di certo stupire.

Ma proseguimmo, e mi insegnò ad armare: cominciammo appunto nella miniera di Rivamonte, e capii che senza una grande abilità nei lavori di carpenteria sarebbe stato ben difficile raggiungere qualche risultato. Eppure imparai ad usare l’accetta e a produrre nel legno di abete gli incastri per fissare il cappello (l’architrave) alle gambe e produrre un quadro, come veniva chiamata l’armatura, di tutto rispetto.

C’era una breve pausa per mangiare qualcosa:  mi porse una fetta di polenta e un grosso panino, mentre con soddisfazione addentava il suo. Bevvi alcune golate di vino annacquato, che mi parve comunque gradevole. Poi il viaggio riprese.

Rimasi pochi giorni nelle miniere di pirite cuprifera di Rivamonte. In realtà il viaggio più lungo lo feci in Belgio, dove Tìta ebbe la forza di accompagnarmi, in quei luoghi dove era cresciuto lavorativamente nel dopoguerra e dove aveva cercato, come molti connazionali, di fare qualche soldo.

Man mano che si scendeva nelle profondità della Terra la temperatura si faceva sempre più alta, l’aria era calda e immobile. Forse perché ci si avvicina agli inferi. E infatti in Belgio fu come entrare in un nuovo e più grande girone infernale, nel quale ci si calava con una grossa gabbia a più piani, stipata di uomini e carrelli da trasporto. Arrivati al proprio livello di lavoro, si cominciava. Anche il semplice sprofondare e riemergere giornalmente dal ventre della terra poteva provocare danni: ci sono le embolie polmonari, disse Tìta: infatti doveva prendere ogni giorno, per il resto della sua vita, un medicinale per fluidificare il sangue. Ma non si compativa, né cercava compassione, per questo.

Intanto proseguivamo e lui, come un Virgilio redivivo, mi guidava con sicurezza illustrandomi ogni dettaglio e ogni particolarità, ogni attrezzo e ogni materiale,  ogni pericolo e ogni modo per evitarlo.

Inizialmente mi portò a osservare il lavoro “alla ricerca” del filone (o taglia) di carbone. Seppure per poco tempo realizzai quindi, ironicamente, l’idea di poter essere un ricercatore: si lavorava a gruppi di quattro persone, dato che le gallerie in Belgio sono molto grandi e le armature sono in ferro; la fronte della galleria veniva traforata con dei trapani, per poi inserire nei fori praticati i candelotti di dinamite o di esplosivo. Lasciai ad altri il compito di calcolare la lunghezza della miccia ed i tempi dell’esplosione, mi portai a distanza e rimasi ad osservare. Le esplosioni non erano simultanee, ma avvenivano secondo una sequenza che permetteva di portare i detriti verso l’esterno della galleria al fine di asportarli con maggiore facilità. Le detonazioni portavano una nebbia di finissima polvere, prodotta dalla roccia sgretolata, dentro la quale tutti si muovevano, bianche ombre quasi invisibili, come fantasmi, mentre la respiravano pietrificando lentamente i loro polmoni. Così, mi disse Tita, ho anche la silicosi. Ma in Australia, aggiunse, la polvere delle rocce ricche di quarzo non si limitava ad andare nei polmoni, ma vi svolgeva anche un lento lavoro abrasivo, con conseguenti emorragie. Era stato anche laggiù Tìta, nel Nuovo Galles del Sud, un nome che già da solo era sufficiente a evocare nella mia mente universi minerari.

Mi fece poi vedere il lavoro alla “produzione” (l’estrazione), dove le abilità di costruirsi con il legno la personale postazione di lavoro poteva fare la differenza nello scavare i previsti tre metri giornalieri di carbone. Eppure il vero obiettivo, glielo leggevo negli occhi, non era fare quei tre metri per guadagnare di più, il vero successo era l’avere prevalso contro quella vena particolarmente dura, contro quell’ambiente al tempo ostile e amico.

Un grosso pezzo di carbone, caduto da una postazione superiore, mi colpì, fa male ma sopporto, niente di grave. Tìta allora mi mostrò la schiena, dove era stato a suo tempo colpito da suo tempo un grosso pezzo di carbone, che oltre a procurargli dolori permanenti gli incise nella pelle una specie di tatuaggio indelebile: il segno nero della miniera.

I colori, tra ricerca e produzione, sono pochi e sbiaditi, è un lavoro in bianco e nero, o forse sarebbe meglio dire in bianco o nero, monocromatico a seconda di dove si è assegnati.

Un mondo in cui le lampade a carburo non sono sufficienti a fare luce, ma solo a darne l’illusione. Un giorno si è spenta la lampada, e ho capito cosa sono realmente l’oscurità e le tenebre. Non saprò mai quanto tempo effettivamente rimanemmo al buio, potevano essere stati secondi come minuti, perché dentro la miniera, nelle profondità della terra, l’oscurità è quasi tangibile, ti avvolge in un abbraccio denso e ovattato che incrina la percezione del tempo e dello spazio.

Ai cavalli andava anche peggio: restavano tutta la vita nelle miniere e quando venivano riportati in superficie erano diventati vecchi, inutili… e ciechi.

Ma è soprattutto un mondo di rumori la miniera, tra i quali l’orecchio esperto sa riconoscere, tra le esplosioni e lo scorrere dei vagoni sui binari, tra i colpi d’ascia e il carbone che rotola verso il basso , il sinistro scricchiolare di un’armatura in legno. Attento! Quelle in ferro sono traditrici, non ti parlano, non ti avvisano del pericolo. I rumori sono la voce della miniera, sono l’interfaccia che permette di comprenderla e di comunicare con essa. E i materiali più recenti, tanto cari ai tecnici minerari, piacciono poco, perché sono muti.

Come un eschimese sa riconoscere e dare un nome a svariate tonalità di bianco, così il minatore percepisce e attribuisce rumori diversi alla medesima serie di esplosioni, ai diversi modi di colpire il legno con l’accetta, al martello pneumatico che lavora su rocce di diversa consistenza.

Anche ciò che non si percepiva all’olfatto era un pericolo, forse il peggiore: è il grisou, il gas che si forma nelle profondità, che non ha odore. Ma Tìta non aveva scordato, mostrando la consueta lucidità, di portare con se una vecchia lampada a olio, di quelle che permettono di capire se c’è presenza di gas quando la fiammella si abbassa d’intensità o, peggio, si spegne. Nessun problema quel giorno, ma la costante sensazione, a tratti quasi elettrizzante, di camminare con il pericolo.

Un giorno, dopo aver fatto un intero turno giornaliero nella miniera di Rivamonte, uno dei turni di otto ore che si alternavano senza sosta nell’arco della giornata, all’uscita della miniera trovammo sua moglie. Mi chiese se potevo stancare di meno il marito, che dopo queste giornate la sera vedeva intensificarsi i suoi già gravi problemi fisici.

Da quel giorno scendemmo in miniera per mezza giornata al massimo, compiendo i lavori meno difficili, di manutenzione, come lo riempimento delle gallerie con legname di scarto e terra, affinché si limitassero i rischi di crolli. O anche il controllo alla sala pompe, giù negli ultimi livelli, perchè l’acqua fa paura in miniera: una delle prime cose che mi aveva raccontato era che una miniera in Tasmania (eh sì, era stato anche lì) si era allagata uccidendo i minatori durante il turno che lui aveva, per puro caso, saltato. Evidentemente non era arrivato il suo momento, constatò.

 

Cos’è un viaggio in miniera? Un ritorno al grembo materno, un’esperienza soprannaturale, un viaggio all’inferno, una metafora sessuale? Tìta non si poneva queste domande: ma ha sempre affermato, senza remore, che quello del minatore era e restava il lavoro più bello. Eppure come uomo di Rivamonte aveva fatto il seggiolaio, il contadino, l’allevatore, il boscaiolo… ma dopo essere stato lì sotto con lui non posso certo dubitare.

Forse molti si stupiranno, pensando sia assurdo, o peggio stupido, rimanere legati a un qualcosa che ha lasciato in eredità danni fisici permanenti e dolorosi, ma non ci si faccia ingannare: sono proprio questi che, espressione del millenario confronto tra l’uomo e la natura, conferiscono unicità alla propria esperienza di vita e ne rappresentano un motivo di orgoglio, permettendo di raccontare il lavoro in miniera a testa alta, illustrandone con sottile piacere i pericoli mortali che lo accompagnano. Tìta era entrato in miniera per sopravvivere economicamente, ma nel momento in cui ha dovuto sopravivvere anche fisicamente è stato da essa indissolubilmente plasmato e modificato, quasi scolpito, nel fisico e nella mente. E quando, qualche anno or sono, se n’è andato, è bello immaginare che sia nuovamente tornato nella miniera e che essa, riaccogliendolo nelle sue viscere, abbia cancellato dai suoi occhi quella vena di malinconia che brillava, come il minerale prezioso che lui sperava di trovare nelle profondità, quando la raccontava.

 

Scrivendo queste poche righe anch’io ho capito perché sono entrato in miniera. Perchè, riprendendo le righe iniziali, questa fu la seconda volta che scesi nelle miniere. La prima volta avevo tredici anni, e in quel viaggio nell’oscurità c’erano nani, stregoni, orchi, elfi e altre creature fantastiche. Faceva paura, dava i brividi, ma era tremendamente affascinante. E, penso, fu proprio allora che tutto ebbe inizio…