My Education

Tra gli ultimi libri di Burroughs, My Education è tutt’ora inedito in Italia. Si tratta di uno zibaldone onirico in cui l’accumulo di appunti finisce per coagulare in una allucinata geografia del sogno in cui Burroughs, ormai vicino alla morte, impara ad abitare: la sua educazione. Se ne danno qui tradotti alcuni stralci della prima parte.

Ho infestato di sogni la tua città, invisibile e insistente come un fuoco di rovi nel vento.

St.-John Perse, Anabasis

Aeroporto. Quasi una recita scolastica, tentativo di evocare un’atmosfera spettrale. In scena una cattedra, dietro la cattedra una donna grigia, volto cereo di burocrate intergalattico. Indossa un’uniforme grigio-blu. Da lontano suoni aeroportuali, indistinti, incomprensibili, poi di colpo forti e chiari. “Il volo sessantanove è stato–” Statica… dissolvendo nella distanza… “Il volo…”

Tre uomini in piedi accanto alla cattedra ghignano di gioia al pensiero delle rispettive destinazioni. Quando mi presento alla cattedra la donna dice: “Non hai ancora ricevuto un’educazione.”

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Questo sogno è accaduto più o meno trentacinque anni fa, poco dopo l’uscita di Naked Lunch per Olympia Press a Parigi nel 1959.

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Torna in mente una vignetta del New Yorker, anni fa: Quattro uomini con dei drink a un tavolo, e uno che ci tiene a raccontare un suo sogno: “C’eri anche tu, Al, eri un cagnolino bianco con un berretto pasquale. Ah ah ah… buffo no?” Secondo Al, per niente. Ha l’aria di voler spaccare un bicchiere in bocca al sognatore, non fosse un eunuco in una vignetta del New Yorker.

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Per anni mi sono chiesto perché i sogni sono così scemi quando si raccontano, e questa mattina ho trovato la risposta, che è semplicissima – come molte risposte, l’hai sempre saputa: Niente contesto… come un animale impagliato sul pavimento di una banca.

Il sogno convenzionale, approvato dallo psicanalista, si riferisce chiaramente, ovvero attraverso ovvie associazioni, alla vita da sveglio del sognatore, persone e luoghi conosciuti, desideri, speranze, e ossessioni. Sogni simili irradiano una speciale insipidezza. Sono noiosi e ordinari come il sognatore medio. Nella mia esperienza esiste una speciale classe di sogni che non sono affatto sogni, cioè altrettanto reali che la cosiddetta vita da svegli e, nei due esempi che riferirò, del tutto estranei alla mia esperienza da sveglio ma, se si possono assegnare gradi di realtà, più reali per l’impatto di scene, luoghi, comparse, persino odori, estranei.

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I due non-sogni sono peraltro unici nella mia esperienza onirica. Sono tutt’e due sogni di volo ma diversi da altri sogni di volo che ho vissuto. In quasi tutti i sogni di volo mi lancio da un precipizio o da un palazzo sapendo di sognare e che non precipiterò uccidendomi. In altri sogni di volo uso le braccia come ali e con un po’ di sforzo riesco a raggiungere un’altezza di quattro cinque metri. In un terzo tipo sono lanciato a velocità supersonica attraverso il cielo. Nei due sogni seguenti mi ritrovo più leggero dell’aria. Salgo, librandomi, padrone di direzione e velocità.

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Sono in una stanza con un alto soffitto e una porta. La stanza è piena di luce e dà una sensazione di aria aperta. Salgo fino al soffitto poi plano alla porta e esco. C’è una veranda o tettoia sopra la stanza e ora io sono su, sotto la veranda a una decina di metri dal suolo. Esco da sotto la veranda e prendo velocità e direzione.

Atterro su una passerella aperta alla mia destra. Camminando noto una porta alla fine del percorso, larga circa due metri e alta quasi tre. Fuori dalla porta un ragazzo in tuta grigia sta lavorando a qualcosa che la sua schiena mi nasconde. Percepisco la sua ostilità, e non me ne può fregare di meno. La porta si apre e appare un uomo. Indossa un abito a righe blu notte e la cravatta. Ha baffi neri. Mi guarda senza l’ombra di simpatia né ostilità. Constata la mia presenza, punto. Nessuno che io abbia mai visto. Alla mia sinistra c’è un tombino, una decina di metri sotto la rampa in cui mi trovo. Poi dei pini e quello che si direbbe un cimitero… tombe con iscrizioni incise su pietra bianca…

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Fossi sceso laggiù (mi spiace, ora di svegliarsi…) avrei trovato il mio nome in rilievo sulla pietra, come la vetrata di una chiesa a Citronelle, Alabama:

A SACRO RICORDO DI

WILLIAM SEWARD BURROUGHS

Mio nonno, che di certo io non ho mai visto, è morto qui a Citronelle, di tubercolosi, a quarantun anni.

Il bel sepolcro è vuoto.

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La città è grigia e le strade deserte. Mi trovo davanti a un hotel e il mio sguardo arriva fino a un incrocio e a dei manifesti su un muro di mattoni. La sola luce della città è puntata di fronte all’hotel, una macchia gialla, un compromesso implicato nell’idea di hotel: un posto per chi viene da posti dove c’è luce gialla. Come un bar in terra musulmana. I fisici ci insegnano che niente batte la luce in velocità…

Forse questo posto non partecipa alla gara. Un posto di ombre fuori dal tempo e dallo spazio, neutrale. Posso levitare perché qui non c’è gravità. Quindi si tratta di un posto nel punto opposto dello spettro rispetto a un buco nero, dove la gravità cattura persino l’incommensurabile forza d’urto della luce. Vedo che riesco a levitare proprio fuori dal marciapiede di fronte all’hotel e so di non stare sognando, che sto davvero sollevandomi da terra, e prendendo velocità ora sopra l’hotel, alto cinque piani – sono a centocinquanta metri sopra il marciapiede. Torno giù di fronte all’hotel, e le strade sono ancora deserte e nessuno mi vede. Poi una signora grassoccia con un vestito a maniche corte, perciò con le braccia nude, sta entrando nell’hotel e io la tocco con un piede ma lei non mi vede. Mi poso di fronte all’ingresso dell’hotel e la seguo e suo marito esce da una camera dietro all’atrio. È un Meteopoliziotto. Gli dico che qualcuno ha toccato sua moglie perché ha le braccia nude e qui la gente è molto puritana. Lui ne prende atto e io salgo alla mia stanza al quinto piano. Il soffitto è a stampini di latta con disegni circolari bianchi come se ne vedono ancora in vecchi hotel e caffetterie, e il letto è stretto con un telaio di ferro color marrone scuro. Mi sollevo a toccare il soffitto, e vedo i disegni stampati sulla latta. Poi scendo e salgo e vado di fronte a uno specchio, ma quando levito non riesco a vedere la mia immagine. Poi arriva una cameriera con una caraffa di liquido giallastro e una brocca di liquido caldo. Le dico di non aver ordinato niente, ma è un omaggio dell’hotel. I liquidi mandano un puzzo acido e chimico decisamente spiacevole. Poi entra una donna molto brutta con bulbi sulla fronte e braccia grasse e una faccia rincagnata davvero orrenda. Poi entrano due uomini e cominciano a trafficare con un congegno elettrico ai piedi del letto. Una cosa come un condizionatore, ma ha l’aria vecchia e scassata.

Il puzzo che esce dalla caraffa e dalla brocca –– non so proprio identificarlo. Un puzzo acido e chimico che viene anche da quella brutta signora, e in effetti impregna la stanza e l’hotel. Forse è uscito dall’apparecchio elettrico attaccato ai piedi del letto. Era un puzzo inorganico e insieme un puzzo acido e marcio, come aria cattiva.

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Sto uscendo dalla finestra per assistere a uno spettacolo visto pubblicizzato da un manifesto, e qualcuno mi dice che lo show ancora non c’è. C’è un altro show adesso. Mi scordo il nome. Ho paura di svegliarmi in questo letto e capire che è stato solo un sogno. Poi mi sveglio nel mio letto a Lawrence e realizzo che il sogno nella grigia città deserta è più reale della mia vita reale qui a Lawrence.

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Ci sono alcuni alieni in abito denim blu accampati vicino a noi – Marziani, penso – e vado a trovarli. Sembrano amichevoli e un uomo si spoglia e c’è una colonna ossea che gli parte dal collo e nient’altro a parte il bacino. Dice, “Certo che ho proprio un cesso di corpo…”

Merda se è vero.

Sento caldo al piede e abbasso gli occhi e c’è una sigaretta accesa ficcata tra la suola e la punta della scarpa. Lo scherzetto del piede scottato. Quando tolgo la sigaretta, la apro in due ed è come il guscio di un mollusco con dentro dei tentacoli. Fermi, comunque, morti.

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Pensieri si alzano palpabili come una nebbia dalle pagine di Prigioniero d’amore di Jean Genet.

Non mi sono mai sentito vicino alle idee o alla gente, così invidio da una lontananza d’incomprensione chi parla della “mia gente”. Ebrei, neri, Palestinesi, Cinesi… Ma una mia associazione a simili congreghe riuscirebbe sfacciatamente dilettantesca, non andrebbe in porto. Verrei immediatamente visto come un impostore e classificato come spia. Smaschererebbero subito la commedia. Sono un pessimo bugiardo, non per via di un qualche principio morale, ma per un’incapacità di base. È che in me non c’è menzogna, né verità. Non sarei mai potuto essere un politico o un truffatore, e le persone più fondamentalmente individualiste sono i ricchi bianchi tra cui sono cresciuto.

Ivy Lee, esperto di pubbliche relazioni per i Rockefeller, era mio zio. E mi ha odiato dal primo istante. Suo figlio James parla ancora di me come “quel figlio di troia!” con il tono con cui gli Israeliani parlano del dott. Mengele perché non sono mai riusciti a trovarlo. Mendel, o è Mengle? Mi sbaglio sempre coi nomi. Perché? Perché io non ho nome. E chi assegna il destino ha deciso di non concedermi il beneficio di averne uno finto. Il lascito per me dal patrimonio Burroughs è stato di 10000 $. Più che benvenuti, all’epoca.

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A Genet interessa il tradimento, per me un concetto senza significato, come il patriottismo. Non ho niente e nessuno da tradire e di conseguenza sono un onesto incorreggibile.

Le mie attività criminali (davvero minime) erano disperatamente inette, quanto i miei sforzi di mantenere un posto in un’agenzia pubblicitaria o dovunque altro.

La biografia di Ted Morgan parte con un malinteso di base: Il fuorilegge delle Lettere. Per essere fuorilegge devi prima avere un posto nella legge da cui uscire. Io non l’ho mai avuto. Non ho mai avuto un posto il cui nome casa significasse più che la chiave di una casa, appartamento, camera di hotel. Questa posizione ossia assenza di posizione è incomprensibile per un francese aristocratico come Sanche de Gramont. Perché l’aristocratico è formato, limitato, definito dal piccolo pezzo di terra di cui lui è. L’aristocratico, il proprietario, ancor più del contadino che ara la terra. Il coltivatore può lasciare la terra. L’aristocratico potrà cambiare nome ma avrà sempre la terra dentro di sé. Parlando dei buchi neri, Sanche ha detto: “Vorrei sapere com’è la cucina”, e io ho pensato, “Sei proprio un terricolo”. Cucina! Gli alieni che mi hanno contattato sembrano non avere stomaco.

Sono un alieno? Alieno di dove di preciso? Forse la mia casa è la città del sogno, più reale della mia cosiddetta vita da sveglio esattamente perché priva di relazione con la veglia. Nella camera dell’hotel avevo paura di svegliarmi e capire che era stato tutto un sogno, la mia capacità di levitare, ma io avevo paura di svegliarmi in quel letto in quella camera d’albergo, non nella mia camera qui a Lawrence. Una nebbia grigia permea la città e non si distingue una sorgente di luce, ma riesco a vedere a una distanza ragionevole. Una luce crepuscolare priva di relazione con un’ora del giorno. In effetti qui il tempo non c’è. La signora orrenda che è venuta nella mia camera è sempre stata orrenda, non lo è diventata con l’età e il passare del tempo.

***

Brion Gysin è stato l’unico uomo che io abbia mai rispettato. Una delle caratteristiche che rispettavo era il suo tatto infallibile, smagliante, che era una delle regioni per cui era escluso e sospetto all’alta società. Non aveva il diritto di surclassarli nelle buone maniere. Ma “la crema della società” si è preclusa da sé la sorgente del tatto, che è discernimento e percezione. Incontrando uno sconosciuto lui, o meglio lei, si proverà subito a determinare la “posizione sociale” dello sconosciuto. Non c’è forza più avvilente dello snobismo, il principio femminino nel suo crudele e stronzo peggio. Ah, lady Mondana adora l’imbarazzo di sir Inopportuno quando lei, con un paio di parole col giusto tono… “Mi ripete il nome?”… sottende “inferiorità sociale” o, giusto alzando un po’ il sopracciglio, arretrando impercettibilmente: “Osceno essere strisciante, come sei strisciato mai nel mio salotto?”

Questa repellente malattia dello spirito avvelena tuttora l’Inghilterra, e fu entusiasticamente importata durante il 1890 dal gotha newyorkese. Una generosa fetta del quale sprofondò col Titanic. Mr. Vanderbilt, o qualcuno di quella sorta, e il suo valletto si misero l’abito buono e dissero: “Affonderemo da gentiluomini”. Invece un cameriere italiano si mise un vestito da donna e se la filò sulla prima scialuppa, e il colonnello Clinch Smith, vecchio soldato, si aggrappò a un pollaio e si salvò.

Sul pianeta Terra il segreto sta tutto lì. Mentre resto ammirato dall’abbagliante innocenza dell’antieroe – il capitano della nave che si veste da donna e si precipita alla prima scialuppa – di fronte all’emergenza, credo la mia reazione sarebbe di un egoismo esemplare, cioè prenderei la via facile – facile per chi non ha un sé chiaramente delineato da anteporre a qualsiasi considerazione.

[…]

Ed ora ecco a voi, miei prodi, una ricetta per fare il botulino, utilizzata con luminoso successo da Pancho Villa contro le truppe federali in Messico:

Riempite una borraccia fino all’orlo con dei fagiolini appena cotti e scolati. Chiudete e tenete a riposo per qualche giorno. Aggiungete poi qualche pezzo di carne di maiale andata a male, e sigillate la borraccia. Seppellite dieci di questi incubatori. Dopo sette giorni quasi tutti saranno rigonfi, segnale di una fiorente coltura botulinica.

Spalmabile su frutta, carne, verdura, applicabile su rovi o pezzi di vetro. Bambini guerriglieri colpivano le guardie con cocci o sassolini inzuppati nel botulino. Basta aguzzare un po’ l’ingegno. I modi sono molti e non ci vuole poi granché per Sistemare la Faccenda. Una signora apre un barattolo di fagioli fatti in casa. Se ne mette uno in bocca, lo sputa e si lava la bocca col collutorio. Dopo tre giorni muore per avvelenamento da botulino.

***

Si può dire che i sogni sui bagagli sono anche sogni sul tempo: bagagli e viaggi sono sempre condizionati dal tempo. Così poco tempo e così tante cose da mettere in valigia. Ogni cassetto o armadio che apro trabocca di oggetti che devo mettere in valigie troppo piccole per contenerli. Ecco un altro cassetto, un altro armadio stracolmi di vestiti. Nell’inguine si sta raccogliendo una tensione che potrebbe culminare nell’orgasmo. Nella mia esperienza i sogni bagnati spesso mancano di un chiaro contesto sessuale. Per esempio, due o tre anni fa ero a Los Angeles al binario di una stazione dei treni con Antony Balch (che all’epoca era già morto). Il treno sta partendo e io corro in diagonale verso di esso. Il treno prende velocità. Ce la farò? Mi sveglio eiaculando. Nei geroglifici egizi il fallo eiaculante compare spesso in contesti non-sessuali. Può significare “testimoniare a un processo”, “alla o in presenza di”, o “prima” in senso temporale.

L’orgasmo nei sogni di bagagli può essere interpretato come una eiaculazione di tempo compresso. Questa notte ho sognato un sogno di bagagli al contrario. Non riesco a trovare la cerniera della mia valigia. (Niente di strano dato che non possiedo una valigia così.) Ogni armadio e cassetto che apro è vuoto. Ora ci sono due donne nella mia camera d’albergo con antiquati strumenti da esploratore come quegli eleganti cannocchiali di ottone e strumenti di navigazione che si trovano da certi antiquari. Ora vedo una piccola pistola fatta come un orologio d’ottone con proiettili affusolati di calibro sconosciuto. Ovviamente non potrei passare la dogana con quella, quindi nego che sia mia. Mi sveglio con un’erezione. I sogni di bagagli si annichiliscono come materia e antimateria. Si impone un’interessante questione: Il sesso ha qualcosa ha a che fare con il sesso? Tutto il rituale del sesso, il corteggiamento, lo stesso desiderio, gli ansimi e il sudore e le posizioni, una finta mentre i reali pulsanti sono premuti fuori scena?

Come se uno eseguisse tutta una complicata cerimonia per produrre la luce e poi un altro, a un dato momento, schiacciasse l’interruttore. Perché sogni sui bagagli o il tempo provocano l’orgasmo in un ultrasettantenne? Forse tra sesso e tempo c’è la stessa intima relazione che tra sesso e morte. Sia il sesso che la morte hanno come argomento il tempo.

Il Regno dei Morti è identificabile da certi indizi: Conosco tutti e tutti sono morti, Mamma, Papà, Mort, Brion Gysin, Ian Sommerville, Antony Balch, Michael Portman (Mikey), Kells Elvins. C’è sempre qualche problema per avere la colazione o in ogni caso qualsiasi cibo. La scena di solito è una sezione, tre o quattro isolati di Parigi, Tangeri, Londra, New York, St. Louis. E al di fuori di questa desolata claustrofobica zona? Cosa c’è oltre l’Universo in Espansione? Risposta: nulla. Ma??? Niente ma. Non c’è altro che tu-io-loro… possano vedere o sperimentare coi loro sensi, i loro telescopi, i loro calcoli.

Secondo John Wheeler e la sua Fisica del Riconoscimento, nulla esiste finché non è osservato da un “osservatore ricettivo del significato”. Be’, ciò di certo non vale per l’osservatore. Come potrebbe qualcosa esistere finché lui non lo osserva? Ma lui dovrà anche comprenderlo, registrarlo su un qualche strumento. Per essere osservato e quindi esistere, l’ancora inconcepito stato o essere deve produrre un effetto misurabile. Si direbbe che questi fisici facciano mille sforzi per stabilire ciò che appare ovvio. Come potremmo misurare qualcosa che non avesse effetto su nulla?

[…]

Ed eccomi qua nel Regno dei Morti con Mikey Portman. Condividiamo un appartamento di due stanze con un bagno in mezzo. La camera di Mikey è inoltre fornita di una veranda notturna. Ci sono due letti affiancati in modo da toccarsi, materassi dall’aria lanuginosa, tappetini, trapunte, cuscini con federe di velluto giallo e oro lise e a sbrendoli. Sembra la camera della maîtresse di un bordello, manca solo un cagnetto pechinese asmatico. A quanto pare una vecchia signora tedesca, abbottonata fino allo stretto colletto di trina, scarpe nere, è stata alloggiata da noi per la notte.

Mikey è vicino alla veranda notturna, avvolto in una coperta rosa. Gli dico che dovrebbe lasciarla dormire in uno dei letti. Dopotutto, lui può sistemarsi in veranda. E mi hanno assicurato che lei non si spoglierà nemmeno.

“No, non ce la voglio qui.”

“Dài, puoi stare in veranda. Ci sono due letti.”

“E se volessi dormire qui?”

Inutile. La Morte non lo ha cambiato; è sempre il solito egoista, egocentrico, viziato, insofferente, debole Mikey Portman.

Poi vedo un cagnolino nero che sbircia dall’uscio del bagno, aperto… cane tutto nero, nero lucido… lunga museruola appuntita, tremula come la bacchetta di un rabdomante.

“Da dove sbuca quel cane all’uscio? Che ci fa lì?”

“Chi se ne frega?” Succo concentrato di Portman l’insofferente.

“Usciere…. Cane all’uscio,” dico.

Non mi risponde. Ovviamente dovrò far stare la vecchia tedesca in camera mia, che è una copia di questa camera eccetto i letti più piccoli.

Su un aereo e sta andando giù e io so che è la realtà.

Nessuna sensazione onirica… Andiamo giù. Lungo tutto il corridoio i passeggeri sono in piedi e guardano qualcosa che io non riesco a vedere perché mi bloccano la visuale.

Comunque, atterriamo sani e salvi e arriviamo in una città che ricorda il centro di Montréal.

“Sono uno di quelli che sognano Montréal?”

Un quadro racconta una storia rendendo simultanei momenti e posizioni differenti. Cézanne mostra una pera vista da vicino, da lontano, da varie angolazioni e sotto una luce diversa… la pera all’alba, a mezzogiorno, di sera… il tutto racchiuso in un’unica pera… tempo e spazio in una pera, una mela, un pesce. Natura morta? Niente affatto. Mentre lui dipinge, la pera matura, marcisce, si secca, si gonfia.

Un esempio da un mio quadro: Un ponte allagato, distrutto, visto di lato. Da lontano, visto frontalmente, arriva un camion, il guidatore vede che il ponte è andato, primo piano del suo volto, paura e concentrazione scritte in faccia mentre slaccia la cintura di sicurezza. Tira i freni. Per l’osservatore tutto accade nello stesso momento.

Prendiamo un quadro di Brion Gysin: Periferia di Marrakech. Motorini e biciclette fantasma. Motorini e biciclette reali. Un posto in cui il pittore è stato più volte in momenti diversi. Camminando vede un motorino di ieri, dell’altr’anno. Magari anche di domani, dato che dipinge da un punto al di là del tempo.

Coi sogni è lo stesso: raccontano storie, tante storie. Sto scrivendo una storia, chiamiamola così, sulla Mary Celeste. Dipingo scene della storia che sto scrivendo. Il racconto zampilla chiaro e fresco: i Bambini Celesti e le Azorre… digressione e parentesi, altri dati apparentemente slegati dall’epopea della Mary Celeste, poi di nuovo lampeggia la storia… una lunga parentesi. Stop. Cambio. Via.

Dovrei riordinare e sistemare queste cose in una sequenza razionale? I fatti della Mary Celeste da una parte? I sogni di volo dall’altra, e da un’altra ancora i sogni del Regno dei Morti? Impacchettare i sogni? Ciò implicherebbe un ripiego sull’indifendibile assunto di un osservatore onnisciente in un vuoto atemporale. Ma l’osservatore osserva vari dati, associazioni lampeggiano sul passato e sul futuro.

[…]

Strade di New York all’alba. Sto tornando dal centro al mio hotel sulla Cinquantesima. Bene, sento la chiave nella tasca. In un mercato alcune persone stanno vuotando sacchi di spazzatura. I sacchi vengono scaricati da un camion. Qualcuno ha trovato una pistola. Da idioti restituirla, penso. I:n cima all’ultimo piano di un alto edificio guardo giù per uno stretto condotto per l’aria, tubi e scale di ferro per 150 metri. Perché camminare? Mi lancio da un balcone di ferro e nuoto nell’aria verso la zona residenziale.

Incontro due angeli nudi sui sedici anni. Dicono che è il loro primo volo da soli. La città si stende circa trecento metri sotto di noi, in belle sfumature pastello… tutto davvero idilliaco. Trovo una specie di cibo liquido in una mangiatoia d’argento. Sembra crema pasticcera e ha un sapore delizioso… Ne assorbo un po’ attraverso una qualche osmosi. (Mi ricorda un sogno recente, un caffè di Tangeri e diversi vecchi amici che arrivano. Vecchi amici che come Slim non ricordo di aver mai visto prima, ma che hanno lo stesso un’aria familiare.)

Il titolare porta fuori una tavoletta simile a un lingotto, lunga una ventina di centimetri e marrone in superficie. Ne taglia un lato e dentro c’è un ripieno cremoso… sembra crème brûlé, è chiaramente deliziosa e io la sto mangiando con gli occhi. La chiamano Caramella per gli occhi… la aspiro attraverso gli occhi. (A tre anni credevo che si vedesse con la bocca. Allora mio fratello mi disse di chiudere gli occhi e aprire la bocca e così capii che non potevo vedere con la bocca… però si dice mangiare con gli occhi.) Poi, sempre portandomi dietro la mangiatoia d’argento, mi poso coi due ragazzi angelici su un balcone dove ora abita il Colonnello Massek dell’agenzia pubblicitaria Van Dolen, Givordan e Massek, dove ho lavorato nel 1942. Lui, il Colonnello, dice che posso andare a pranzo. Gli dico che ho già mangiato. Il balcone è a trecento metri sopra la città… Una vista stupenda.

“Bene,” dico, “andiamo.”

Uno dei due ragazzini dice di “esserselo perso” ed è un bel po’ giù. Mi sollevo a un metro da terra per prova, ma nessuno dei ragazzi dell’ufficio sembra notare nulla, così mi libro in quello che ora chiamo il “mio elemento,” fuori attraverso le nuvole, anzi mi siedo su una nuvola, cosa che posso fare perché sono privo di peso. Fluttuo, solitario come una nuvola, e la vista è davvero mozzafiato e non ho più alcuna paura di cadere. Non ho più un corpo da far cadere. Solo io e la mia ombra. Passeggio per New York sopra le vie.

Non c’è fretta… nessuna fretta.

[…]

Un sogno molto realistico su un hotel nel Regno dei Morti. Tutte le porte sono aperte. Sto andando da qualche parte e in camera ci sono agenti di frontiera. Non trovo i bagagli. Una piccola valigetta di tela grigia. La aprono e tirano fuori la mia Colt 45. Sembra una cosa seria.

Esco in cerca della colazione. C’è il servizio in camera? Pare di no. La sala da pranzo è vuota… un paio di camerieri seduti ma niente cibo.

***

Una grande festa con caviale e un sacco di cibo raffinato. Ci sono Brion e Jacques Sterne. Il gioco è Non farmi mangiare.

***

Giovedì. Se non ricordo male, il giorno in cui sono nato. Cercavo di radermi, su una scala messa in una doccia. John de C. esce dalla doccia avvolto in un asciugamano. In uno specchio di metallo, luce incerta, la mia faccia sembra molto più giovane, una faccia da sbarbatello diciottenne. (La stessa faccia rosso scuro di uno dei miei ultimi quadri? o era un altro sogno?) Trovo del sapone e mi insapono la faccia. Mi raderò usando il sapone, ma ora non trovo il mio rasoio d’oro.

***

Ristorante Wheeler… piccino… la cameriera avrà visto la 9mm H&K nella mia fondina sotto il cappotto?

Il Regno dei Morti. Niente colazione. Niente alcolici. Niente pranzo.

***

Il vecchio fantasma di famiglia è in salotto, collegato alla Gatta Rossa, che è appena saltata giù dal letto ed è corsa là. Mi rimprovero: “Va’ là fuori e affrontalo brutto vigliacco.”

Una paura vergognosa. Esco. La gatta striscia sotto una rete di filo di ferro che sostituisce la porta d’ingresso e scappa fuori. Sento i suoi miagolii.

Esco nel plenilunio d’argento, nel bruciante plenilunio, la luce di Margaras il Gatto Bianco. Nella luce del Gatto Cacciatore ogni cosa nascosta viene rivelata. Alla mia sinistra vedo sagome arlecchine, chiare e nitide nella luce bianca.

Chi è il fantasma in salotto? Come fare per distaccarmi da me e affrontarlo?

***

La risposta a ogni domanda sarà rivelata quando smetterai di fare domande e cancellerai dalla mente l’idea di domanda.

***

In una biblioteca qualcuno butta in terra un vecchio libro con una copertina rossa rigida. Lo raccolgo e leggo il titolo: Felici lacci.

[…]

Il sogno che sto per riportare illustra l’inadeguatezza delle parole quando proprio non ci sono significati equivalenti. Cominciamo col dire che non è un sogno in senso stretto, essendo del tutto alieno rispetto a qualsiasi esperienza da svegli. Una visione? No, nemmeno. Il meglio che so trovare è: una visita. Ero lì. Potessi disegnarlo o dipingerlo fedelmente, o meglio ancora, avessi una telecamera…

A piedi giù per un viottolo. Tutta la zona sembra al chiuso – cioè, lo si deduce: non vedo mai né il cielo né altro al di là. Alzo gli occhi e vedo un bel ragazzo forse diciannovenne a un balcone con un ragazzo più vecchio, sui ventitré. Il balcone sarà a una decina di metri sopra il viottolo, e il palazzo è a mattoni rossi. Non so come, raggiungo il balcone. Dentro c’è uno stanzino con alcune altre persone.

Il ragazzo indossa una camicia bianca con una cravatta bianca. Ora il giovane più vecchio prende una balestra, solo che al posto di sporgere ai due lati l’arco è messo in verticale sull’asta. Il ragazzo mette l’arco tra le gambe dell’altro – c’è una freccia incoccata (punta da caccia a doppia lama, lunga otto centimetri, base di cinque centimetri) e puntata all’inguine del ragazzo – e preme il grilletto. Per qualche motivo la freccia non ferisce il ragazzo. Realizzo che deve trattarsi di una qualche prova e che sono il prossimo. Non arretro né batto ciglio. L’arciere dice che ho superato il test e ora sono uno di loro. Ci stringiamo le mani.

C’è uno che non ha superato la prova. Sembra più una bambola che una persona, con quella che si direbbe una testa removibile. Dopodiché ci mettiamo in fila uno dietro l’altro, e mi mostrano come intonare i nostri muscoli in modo da diventare un unico corpo. Mi insegnano un’altra cosa sull’equilibrio o il movimento, che non arrivo a capire. Vorrei approfondire ma non ora: tornandoci più tardi. Quindi prendo nota del posto.

Guardo giù per il viottolo, che è un po’ simile a un aeroporto, e mi incammino. Arrivo in fondo, e alla mia destra c’è una piazza di circa venti metri per lato. Sui tre lati edifici di pietra bianca, ma niente finestre né porte. Giusto un paio di feritoie o di passaggi rotondi.

La piazza aveva in qualche modo a che fare con la religione cristiana. Non vedo nessuno ma sento di essere osservato. Tutt’intorno i muri della piazza c’è quel che pare un qualche tipo di decorazione di vetro, ma non sono sicuro se sia in vetro, né riesco a farmi una chiara idea del suo aspetto.

Mi lascio la piazza a sinistra e c’è una zona come un salotto o una sala d’aspetto con vasi di piante e due tizi seduti su un divano, uno dei due ricorda vagamente Jacques Stern, e gli chiedo se si chiama Stern. Ne arrivano altri: uno ha una faccia strana, larga, e un sorriso che pare dipinto. Mi si rivolge cerimoniosamente e gradirebbe presentarsi, ma non afferro il nome. Mi sa che dovrei tornare dove ho stabilito una connessione e sono stato accolto.

Però ora guardo giù per una traversa e un po’ distante c’è un palazzo molto alto… Forse due o trecento metri, attorniato da altri edifici in pietra rossa. Ha un aspetto decisamente alieno e maestoso e voglio vedere l’interno dei grandi edifici. Il tetto ha una forma ad arco… come un immenso hangar.

Arrivo a una porta di quercia gialla, spingo e apro… lungo un vasto corridoio fino a un’ampia camera. Ma questo non è l’interno del grande edificio. Neanche lontanamente così alto. Bello grande, però. C’è una quantità di gente lì, vanno di qua e di là, immersi in chissà che ricerche. Vengo attaccato da un cagnetto malefico che mi azzanna la mano. Fa male. Riesco a spostare le sue zanne su un altro cagnetto, ispido e nero.

Sono seduto accanto a una gabbia rotonda… come la voliera di uno zoo. Nella camera c’è un po’ di persone vestite con degli abiti da cerimonia: un presidio, realizzo. Seduto accanto a me su un alto sgabello o sedia c’è un ragazzo piccino, alto al massimo una spanna, ma robusto e col testone. Ha una faccia perfettamente liscia, come ceramica. Una faccia bellissima e perfetta. Tace, immobile. Mi allontano verso una porta, sempre in cerca dell’interno del grande edificio. Voltandomi, vedo un ragazzo alto poco più di un metro con un volto di bellezza sovrumana e una giacchetta di pelle… come il personaggio di un mio quadro, Il Giardino della Rosa Magica.

Gli ho lanciato solo un’occhiata da sopra la spalla. Se n’è accorto? Non credo. In effetti nessuno in questa zona si è accorto della mia presenza. Cane a parte. Il ragazzo o uomo in miniatura seduto di fianco a me poteva anche essere una statua di ceramica. Nessun movimento, nemmeno un battito di ciglia.

Apro una porta, che mette in un locale quadrato, scatolesco, circa quindici metri per lato e alto dodici. Pareti e pavimento sono bianchi, ma diversamente da Piazza Cristianesimo questo sembra legno bianco lucidato e il locale è fuor di dubbio coperto, diversamente dalla piazza, che è senza tetto… anche se il cielo non si vedeva. Questo locale in legno mi ricorda un quadro surrealista con casette per uccelli e lontane figure in corsa. Si sente un ronzio, il locale trasmette lo stridore di una minaccia. Come se spinto da molle qualcosa potesse sbucare dal muro, o il locale restringersi di colpo a casetta per uccelli.

Mi sveglio ma è più come un rientro. Questa esperienza non mi dà la sensazione di un sogno. È del tutto reale. Sono lì. Nello stesso tempo è certamente, e spiacevolmente, aliena. Non ho la sensazione di avere il controllo, in particolare nelle due piazze bianche. In entrambe si percepisce un pericolo potenziale – un pericolo incalcolabile. Nota che non c’è confine tra strade e case private – ogni porta appare aperta. Questo confine è una convenzione terrestre che in quelle zone non vale.

Stanze private? Strade? Che significano tali distinzioni?

[…]

Il testamento di uno scrittore, il soffio della bonaccia nelle Terre Occidentali. Diretto al di là può iniziare fremito lungo la vela. Scrittore, dove vai? A scrivere. Eccoci in testi già scritti sul cielo. Dove scrivere gli serve più. Un lieve sismico col libro felino. Ricorda sempre, l’opera è la vela maestra per buscare le Terre Occidentali. I testi cantano. Tutto è erba e cespugli, un deserto o un dedalo di testi. Ecco qua… mai riusare una stessa porta. Cielo in ogni direzione… sulla parola per parola. La parola per parola è parola. Dalla vela occidentale fremito di candele sul tavolo del country club del 1920. Ogni pagina è una porta su tutto quanto è permesso. La delicata scialuppa tra questa e quello. Le tue parole sono le vele.

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