Ribaltamenti

A cura di Francesca Andreini

Il respiro mi accompagnava ormai senza che ci pensassi e avevo questa connessione con tutto, senza sforzo e senza pensiero. E all’improvviso mi è arrivato un brivido. Non fisico, però. O meglio, l’ho sentito nel corpo ma era più profondo. O più superficiale, forse. Una scossa, come se mi si fosse infilata l’anima in qualche presa di corrente. E la presa era tutta intorno a me, ed era anche il mio corpo.

Per questo l’immagine dei monaci chini sul loro disegno continua a creare nella mia mente un’impressione gioiosa; anche quando lo hanno finito, anche quando il disegno è ormai cancellato. Perché stanno rappresentando la futilità del tutto, l’eterna trasformazione, sì, ma nella bellezza.

Posso tirarmi giù dagli scaffali, allora. E tenere il passato con me, senza paura di annullarlo. Accanto ai miei gesti e sentimenti di ora. Posso anche lasciarlo andare, perché in realtà lui è già oltre. Sta in ogni particella di dopo che esiste.

Il vetro si è squagliato lentamente, un pezzetto per volta, e ha colato una visione trasparente e pura. Creare qualcosa fuori dagli schemi soliti. Nostro. Vero. Navigare di nuovo verso qualcosa, qualsiasi cosa, insieme.

Mi poteva succedere davvero sempre, anche in una giornata di sole pieno, con il manubrio della biciclettina che scintillava, il vento sulla faccia, le mamme sedute sulle panchine e l’acqua dell’Arno che scorreva accanto. Tutto bello e tiepido e luminoso, fino a quel momento di tristezza, che bloccava le cose al loro posto e me le faceva immaginare finite, lontane, desiderabili e perse.

“È in coma, non la può sentire,” ha detto l’infermiere, mentre con gli occhi continuava a seguire lo schermo. Finché i tracciati sono scesi, si sono appiattiti del tutto.

Medico. Commercialista. Ingegnere. Perfino storico dell’arte suonava bene. E io? Letterata…? Le serate con gli amici erano diventati momenti strani, in cui si parlava di cose adulte, a tavola: ambizioni, curriculum spediti, titoli di studio da portare con orgoglio agli incontri di lavoro.

Noi bianchi cattivi e egoisti che non dividono, come fanno loro, tutto quello che hanno. Chi ha, deve dare, da quelle parti; ai parenti, ai vicini di casa o ai poveri del quartiere. C’è una porta aperta, all’ora dei pasti, e l’obbligo di nutrire chi passa, se ha fame e si siede con te.

La mia pancia cambiava addirittura forma, con bozzi che si spostavano qua e là, e dovevamo monitorarla, ammansirla con le medicine e tenerla ferma perché, non si sa come mai, a volte succede così: la creatura vuole nascere troppo presto e alla mamma tocca stare con il corpo immobile e una flebo per braccio, nelle braccia bloccate sul lettino.

“A un certo punto ho trovato una colonna di camion che dal nord andavano proprio a Firenze. Mi hanno lasciato salire su uno, era coperto da una rete e mi ci sono aggrappato per ore… sotto c’era l’esplosivo. L’ho capito solo dopo del tempo cos’era: era l’esplosivo con cui i tedeschi hanno fatto saltare i ponti, a Firenze, per cercare di fermare gli alleati…”.

Niente acqua dal cielo, niente strepiti o cambiamenti sulla terra. La gente ferma sotto il giogo delle tradizioni immutabili e della dittatura spietata ma invisibile. Paciosi, ingabbiati, mi sembravano i Siriani. E lenti anche nel dolersi delle questioni loro. Pericolosa? No, mai. Rispondevo a chi si stupiva della mia fiducia e del mio affetto. La Siria che conoscevo era così, e non mi lasciavo disturbare dai segnali di pericolo. Come il nome stesso del luogo in cui vivevo: Dimasq.

Sensazioni di un futuro che sapevo ci sarebbe stato, in qualche modo. Sapevo che, da ragazza, avrei cercato di nuovo questa possibilità di essere persa da qualche parte del mondo. Quando, con lo zaino in spalla, mi sarei lasciata andare a strade assolate e vuote, a paesaggi senza arrivo sicuro, a itinerari scelti dalle correnti del vento.

Le mie mani aggrappate alle sbarre del lettino sono uno dei miei primi ricordi. Una sensazione che ho ancora sui palmi: le sbarre di legno tondo, con una parte che si slargava nel centro, per decorazione, a cui mi afferravo scuotendo piano, senza far rumore. Ero nel cuore della notte, nel cuore della casa e [continua]

Erano strette, quelle curve, molto strette. Non bisognava guardare da altre parti, non bisognava ascoltare la musica o l’amico. Solo guardare e tenere lo sterzo ben saldo, calcolare bene quanto girarlo, e quando; prima che finisse la curva, girare veloce dall’altra parte. Una volta, un’altra. Un’altra.

Che è cosa ancora più strana, considerando che non era solo un cibo avariato e quindi non sano. Era anche cibo putrefatto; un organismo che è passato dal mondo dei vivi, delle sostanze che ci sostengono, che bruciano dentro di noi facendoci muovere, interagire, sviluppare cellule necessarie e tutto il resto, al regno immobile in cui le cose si trovano in una dimensione fredda, silenziosa, che ci nega nutrimento, ci blocca, ci fa deperire e infine sparire.