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E anche molti dei morti cui erano appartenuti i vestiti che ingombravano la macchina in cui vivevano le due sorelle e la bambina con il frac erano riemersi da dove erano stati sepolti. E una sera la bambina aveva trovato le due donne davanti a un albero. Avevano catturato uno zombi e l’avevano appeso a testa in giù al ramo di un albero morto.

Prima di andarsene, mi ha anche detto che all’inizio gli era sembrato che fosse tutto a posto, e che si era fermato a parlare con me solo perché i guanti bianchi gli erano scivolati fuori dalla tasca; e anche perché, lì per lì, gli ero sembrata bella.

“Lui, lui è Marjo Salvati!”, stava gridando il portiere indicando Luijgi, “Se ve lo dico io, che lo vedo tutte le mattine!… Lui, è lui il signor Salvati”; sulle prime, Kecilja avrebbe voluto alzarsi per dar manforte al portiere e confermare che quello era suo marito, ma si trattenne, perché fu attraversata dal ricordo, molto vago, che Marjo dovesse aver fatto qualcosa di male insieme a Giacomo, e non voleva tradirlo, almeno fino a che non si venisse chiaramente a sapere di che cosa suo marito fosse accusato.

I fogli di giornale si alzano quando tengo le finestre aperte, come qualcuno che ne voltasse le pagine nell’altra stanza. È un rumore piacevole, tanto che si potrebbe pensarci come ad uno strumento musicale passivo, come le campane a vento. Simulazione della presenza.

Se non fosse stata la droga, la guerra. Il primo segno forse lì: sparpagliate sul letto, le fogliate da diecimila lire, sciorinate una accanto all’altra, ricompensa della repubblica per il sangue nemico versato, esibite a chiunque entrasse.

Eppure un furore, l’unico degno di essere per me scolpito dentro il libro della giovinezza, lo avemmo anche noi: il giorno dopo i funerali di Berlinguer, si era alla fine oramai della scuola, mancava per entrambi un mucchietto di mesi per diventare maggiorenni, con Marcello ci andammo a iscrivere al partito.

Poi un suono che ancora gli rimaneva nelle orecchie come se tutti gli arlecchini fossero scattati sull’attenti per farlo a pezzi con le loro corna di cervo lo fece sporgere oltre la sponda del letto, e vomitò.

Pedalo in una strada in salita e sotto di me vedo la luna e l’ombra nera di un castello volante e fabbriche colorate disseminate in un prato e grido “È gioioso!” Poi sento il calore di una mano appoggiata contro la mia schiena.

Mi rigiro tra le mani una parola: incanto. Lo spunto me l’ha dato a cena una cameriera, parlando con una sua collega: “hanno messo all’incanto la casa dei miei nonni”. M’è parsa, sulle labbra di questa ragazzotta di vent’anni, un’espressione molto alta, quasi fuori luogo; poi ho pensato all’incanto che mi hanno dato le pitture dei paesaggi, delle architetture che ho visto in questi due giorni.

Anche quando è la voce narrante a garantire l’unità della narrazione – e non è dunque la trama a muovere il libro, penso su tutti al caso supremo di Proust – non per questo le altre non godono di un’identità di rappresentazione, a cui va restituita la rispettiva autonomia. Insomma, la prosa del mondo va riconosciuta nella sua eleganza, che non è quella della prosa d’arte.

“La voce di S. quando ronzava la nota sotto l’influsso della vibrazione della motocicletta che aveva finito per fondere insieme lei e suo padre non era la voce che S. aveva di solito, e non le era mai stato possibile ripetere quel suono a casa o in qualunque luogo che non fosse la motocicletta nera di suo padre che saliva verso il lago”.

«Quando ci incontravamo, in cammino o seduti nelle nostre ragnatele, ci ammusavamo l’un l’altro, senza vederci veramente o toccarci veramente, e in quel silenzioso ammusamento da insetti era contenuta per intero la nostra felicità».

Ma lo svago prediletto e dagli orridi bracchi e dai loro guardiacaccia era la morte da diporto, o come dicevan tutti Lazzaro, giuoco del quale segue qui un resoconto steso da una terza parte nei modi che la stupenda lettrice vedrà.

Il lascito interrogativo e perturbante di questo insolito e intimissimo romanzo, si prolunga ben oltre la soluzione del rebus consegnata alle sue pagine finali. Si ritrova piuttosto in un senso più profondo di pena e di meraviglia, in un fervore inquieto di pietà universale.

Per lo sguardo che rivolge al rapporto dei personaggi con la loro età, il romanzo di Inglese squarcia un velo. Nella maggioranza dei casi, avanziamo nella più assoluta incoscienza dell’osservatorio temporale, di giorno in giorno diverso, da cui ci affacciamo sulla vita. Ciò è sempre vero, ma a maggior ragione nel regno della «giovinezza permanente» a cui condanna un mercato del lavoro influenzato da un capitalismo sempre più spietato e di cui il sistema artistico contemporaneo, ossessionato dalla ricerca spasmodica della “novità”, costituisce una metafora evidente.

Era la bambinaia che a volte quasi senza svegliarla sollevava Sarahs dal divano e la portava nell’altra camera, dove le finestre e le tende erano sempre chiuse. Quando nel sogno Sarahs si avvicinava alla vetrinetta vedeva farsi sempre più grandi i volti della bambinaia e della strega riflessi nello specchio che faceva da parete di fondo della vetrinetta.