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Si può dire, riabilitando una nobile nozione, che Maino, a suo modo, si pone nel solco di una lunga tradizione letteraria italiana, quella del plurilinguismo. […]. Quale scrittore italiano, negli ultimi trent’anni, ha avuto il talento e la forza di riprenderla in mano? Quale scrittore ha considerato l’espressione del contenuto narrativo come un vero problema da risolvere? Chi si è azzardato a plasmarsi uno stile o, meglio, quella lingua impossibile che è ogni lingua letteraria? Praticamente nessuno. Nessuno, tranne Francesco Maino.

Al primo contatto, il cuore di Miloš ebbe un guizzo improvviso e viscido, come un’anguilla cui abbiano tagliato la testa, tanto che Miloš sobbalzò nella cassa, facendola traballare. Cercò la maniglia che gli era stata indicata per uscire dalla cassa. Ma era nudo dentro la cassa, ricordò, e non aveva voglia di farsi vedere così dal presidente. Sentì che qualcuno, forse Decor, gli passava un fazzoletto sulla fronte, prima ancora che lui si rendesse conto di essere madido di sudore.

Le dimensioni del pesce mi impedivano di salire sul posto del passeggero, così il venditore sistemò me e il mostro di dietro, insieme alle cassette di arance. Finalmente sdraiato e in procinto di ricevere le cure mediche, non potei fare a meno di osservare di nuovo l’enorme animale, che, addossato al mio corpo, mi doveva dare, nella penombra del furgone, l’aspetto di una grassa sirena mezzo morta.

Come se al MASaMenCul avessero non dico il bandolo, ma almeno una festuca dell’arazzo indemoniato che chiamiamo la realtà! Come se non parlare della realtà fosse un reato! Giusto! Il reato di lesa realtà! E cos’è poi la realtà, attaccavano i più pensosi della famiglia, sprofondando dipoi in narcibirintiche meditazioni che il più delle volte finivano per sfociare nel gran mare del politico e del dematerializzato…

La Gipsi/ 4

di in: Captaplano

Con il 1994 si chiudono gli anni Novanta, diceva la GIPSI che aveva vent’anni nell’Ottantanove, e che con le letture furenti e gli amori universitari aveva di già terminato la propria formazione. Anche per il mondo l’appuntamento a qualcosa di nuovo daterà 11 settembre 2001.

Succede qualcosa: l’orco e la vittima dietro di me si fanno sempre più lontani, come ci fosse un nastro trasportatore in moto sotto la fanghiglia, e infine scompaiono sotto il pelo dell’acqua. Forse non erano che proiezioni, o forse dovrei già cominciare a ridere perché sta arrivando il finale della barzelletta.

Mi sveglio in camera mia. Mi metto a pulire il pavimento con una scopa di paglia. Ricordo quando ho comprato quella scopa, e nello stesso tempo so di non aver mai avuto una scopa di paglia. Il giallo dei suoi fili e l’arancione e il verde dei cordini che li tengono insieme sono l’unico colore nel grigio della penombra. Sotto il calorifero, tra il pavimento e le pareti della stanza corre un distacco di un paio di centimetri, da cui indovino il piano inferiore e ancora più sotto le profondità del palazzo in cui vivo, le sue tubature e i suoi ingranaggi, giù fino al fango rovente del centro della Terra.

La donna con la roncola si arrampica su un albero e con un colpo secco della lama decapita uno scoiattolo. È, a quanto è dato sapere, la prima morte filmata da Adra. La cinepresa non riesce a cogliere gli ultimi istanti di vita dell’animaletto, il rigirarsi spaesato degli occhi ormai separati dal corpo, il tremore di una zampina, l’accovacciarsi innaturale e un po’ esilarante del corpo decapitato.

E anche molti dei morti cui erano appartenuti i vestiti che ingombravano la macchina in cui vivevano le due sorelle e la bambina con il frac erano riemersi da dove erano stati sepolti. E una sera la bambina aveva trovato le due donne davanti a un albero. Avevano catturato uno zombi e l’avevano appeso a testa in giù al ramo di un albero morto.

Prima di andarsene, mi ha anche detto che all’inizio gli era sembrato che fosse tutto a posto, e che si era fermato a parlare con me solo perché i guanti bianchi gli erano scivolati fuori dalla tasca; e anche perché, lì per lì, gli ero sembrata bella.

“Lui, lui è Marjo Salvati!”, stava gridando il portiere indicando Luijgi, “Se ve lo dico io, che lo vedo tutte le mattine!… Lui, è lui il signor Salvati”; sulle prime, Kecilja avrebbe voluto alzarsi per dar manforte al portiere e confermare che quello era suo marito, ma si trattenne, perché fu attraversata dal ricordo, molto vago, che Marjo dovesse aver fatto qualcosa di male insieme a Giacomo, e non voleva tradirlo, almeno fino a che non si venisse chiaramente a sapere di che cosa suo marito fosse accusato.

I fogli di giornale si alzano quando tengo le finestre aperte, come qualcuno che ne voltasse le pagine nell’altra stanza. È un rumore piacevole, tanto che si potrebbe pensarci come ad uno strumento musicale passivo, come le campane a vento. Simulazione della presenza.

Se non fosse stata la droga, la guerra. Il primo segno forse lì: sparpagliate sul letto, le fogliate da diecimila lire, sciorinate una accanto all’altra, ricompensa della repubblica per il sangue nemico versato, esibite a chiunque entrasse.

Eppure un furore, l’unico degno di essere per me scolpito dentro il libro della giovinezza, lo avemmo anche noi: il giorno dopo i funerali di Berlinguer, si era alla fine oramai della scuola, mancava per entrambi un mucchietto di mesi per diventare maggiorenni, con Marcello ci andammo a iscrivere al partito.