Una fedeltà appassionata.
Milan Kundera e l’arte del romanzo

Walter Nardon, che di Milan Kundera è studioso da decenni, ricorda la figura dello scrittore scomparso pochi giorni fa con una carrellata sulle sue opere, che in Italia hanno avuto spesso una difficile, faticosa ricezione.

Se la forza di uno scrittore non si vede solo dalla qualità dell’immaginazione, ma anche dal pensiero critico con cui reinterpreta il presente e la tradizione della sua arte, allora Milan Kundera è stato senza dubbio un grande scrittore. Dal punto di vista romanzesco, Lo scherzo, L’insostenibile leggerezza dell’essere, L’ignoranza portano con sé, oltre all’invenzione di personaggi tridimensionali, anche un’indimenticabile tensione emotiva, che Kundera non reputava così importante nella composizione, ma che evidentemente, quando le storie intersecavano i drammi di cui è stato testimone e vittima, restituivano sulla pagina una maggiore consistenza. Attraverso la vicenda del poeta Jaromil, La vita è altrove esplora invece il nesso sentimentale fra il lirismo e l’orrore politico, tema pressoché inesauribile. Amori ridicoli e Il libro del riso e dell’oblio sono invece romanzi in forma di variazioni. Kundera, che aveva ricevuto una solida formazione musicale ed era figlio di un pianista allievo di Janácek, ha sempre evidenziato anche dal punto di vista teorico il suo debito di riconoscenza nei confronti della musica (soprattutto per le forme della fuga e della sonata). Il modo in cui ha esplorato i temi del presente è diventato quasi esemplare; ad esempio nella riflessione sul Kitsch, che deve molto a Hermann Broch – l’autore da cui è stato maggiormente influenzato – ma che procede in piena autonomia, rivelando come la rimozione arbitraria di ciò che non si vuol vedere, ossia della «merda», sia il primo passo della sensibilità verso l’accettazione dell’autoritarismo. Così il modo in cui ragionava sul diverso atteggiamento di uno spettatore davanti a un concerto di musica classica rispetto a un concerto rock che reclama l’identificazione, l’estasi collettiva propria di una partita di calcio, più che la fruizione artistica (e che ripresenta il problema del lirismo, bestia nera di ogni conoscenza romanzesca).

La riflessione sulla Storia si coglie nel destino della coppia formata da Tomás e Tereza nell’Insostenibile leggerezza dell’essere, dove il ritorno in patria – da cui erano riusciti a fuggire – abbraccia consapevolmente la fine della lotta per l’affermazione sociale, una sorta di diserzione che si vede in modo compiuto sia in Ludvík nello Scherzo, sia, altrettanto memorabilmente, nel personaggio di Angès nell’Immortalità. C’è poco da fare, la concezione che elaboriamo della Storia è spesso figlia dei nostri fantasmi, che non reggono alla prova del tempo: questa rivelazione ci spinge verso la saggezza dell’esilio esistenziale, che ci induce a comprendere con maggiore apertura la condizione umana, a partire dalla nostra. Sul piano della scrittura, proprio questo abbandono della lotta, ossia di un modello romanzesco hegeliano completamente esausto, è stato messo in luce da uno dei maggiori studiosi di Kundera, François Ricard, attraverso la lettura che Kundera ha fatto dell’opera di Kafka, liberata dal misticismo di Max Brod, e riconosciuta come un momento di passaggio radicale del romanzo nel Novecento, nel quale si varca senza timore la soglia dell’inverosimiglianza (o dell’indecidibilità di ciò che si sta leggendo: basterebbe infatti una sola frase iniziale che chiarisse che tutto ciò che segue è un sogno e subito Il Processo assumerebbe un altro significato).

Nella riflessione sulla pratica narrativa condotta a partire dall’Arte del romanzo, Kundera ha segnato alcuni passaggi divenuti ormai quasi proverbiali, dalla definizione di personaggio come «io-sperimentale», alla convinta affermazione del romanzo come arte nata nella prima modernità col riso di Rabelais e costitutivamente diversa dal romanzo ellenistico: un’arte fondata sul presente, sulla mobilità di un personaggio privo di destino; in primo luogo, se vogliamo, fondata sull’inafferrabile Panurge di Rabelais. Ma nei Testamenti traditi Kundera ha ricordato anche come il miglior saggio scritto sull’arte del romanzo sia Menzogna romantica e verità romanzesca (1961) di René Girard e l’ha fatto in un tempo in cui molti promuovevano ben altre prospettive. Ha poi ricordato instancabilmente come il romanzo sia stato centrale nello sviluppo storico della civiltà europea, arrivando a sostenere che se nel corso della modernità si fosse data un po’ più importanza a Cervantes che a Cartesio, forse Husserl avrebbe sofferto meno per la scomparsa del Lebenswelt. Nella pratica, con Il libro del riso e dell’oblio ha sperimentato una composizione libera, apparentemente ai limiti della forma-romanzo, che in realtà considerava la più vera celebrazione delle possibilità espressive di questa forma narrativa. Composto in sette parti – come spesso i romanzi di Kundera – privo di unità d’azione, con frequenti interventi autobiografici, il libro è forse l’artefatto più complesso della sua carriera, tale da non persuadere tutti gli interpreti. Ne parlo perché nelle varie voci che garantiscono coerenza al libro compare anche il narratore come personaggio dell’autore, il «Milan Kundera» che ricorda eventi della sua giovinezza non in chiave soggettiva, ma in stretta relazione allo sviluppo del romanzo. Questa soluzione oggi è molto diffusa.

Non amava tornare sui suoi esordi, sui sui libri di poesie, sul suo primo saggio, né sui Proprietari delle chiavi, un’opera teatrale del 1962. La prima svolta avvenne nell’anno successivo, in cui pubblicò i primi racconti del ciclo di Amori ridicoli, che segnò di fatto il passaggio alla prosa. Nel 1967 uscì Lo scherzo, che per varie ragioni cambiò la sua vita, anche per l’interpretazione che se ne diede in Francia l’anno successivo, per la prefazione di Aragon alla traduzione francese e, vale la pena di ricordarlo, per i carri armati russi per le strade di Praga.  Dopo alcuni anni di grande difficoltà e isolamento, Kundera e la moglie Vera nel 1975 si sarebbero trasferiti in Francia. L’attenzione ossessiva per il catalogo delle sue opere, per le traduzioni (in special modo per quelle francesi, che di fatto in parte ha ritradotto) e per la sua lingua d’adozione, in cui ha scritto gli ultimi quattro romanzi, ne fa un esempio di dedizione al lavoro d’artista poco incline agli scritti di occasione ma non per questo isolato dal suo tempo. E così infatti, pur conducendo una vita estremamente riservata, è stato presente nei Seminari parigini e nella vita della rivista «L’Atelier du roman», ancor oggi attiva, nata da quei seminari, da sempre diretta da Lakis Proguidis. In Italia, nonostante la scrupolosa attenzione riservatagli dall’editore Adelphi, la sua riflessione teorica, così personale e idiosincratica (con gli eccessi che questo comporta) non ha incontrato grande fortuna. Il Seminario Internazionale sul Romanzo, che abbiamo fondato più di quindici anni fa all’Università di Trento con Massimo Rizzante e Stefano Zangrando – seminario diretto fin da allora da Rizzante, che di Kundera è stato allievo, ed è studioso e traduttore – nelle sue varie vicende e articolazioni gli deve molto, ma credo sia così per chiunque in questo periodo si sia avvicinato alla narrativa.

Un commento su “Una fedeltà appassionata.
Milan Kundera e l’arte del romanzo

  1. Massimo Rizzante

    Bravo Walter!
    Tra tanti articoli di scrittori e giornalisti improvvisamente illuminati sulla via di Brno,
    il tuo pezzo mostra che non tutto è perduto.
    ciao
    massimo