Guardare avanti

Al di là delle questioni che aveva affrontato perché rispondevano alla sua sensibilità, si stendeva un territorio indefinito che aveva trascurato considerandolo inessenziale, e che invece andava preso sul serio come non aveva mai fatto in precedenza. Il primo passo avanti doveva quindi essere un umile passo indietro.

Ormai non c’era più niente da fare. Dopo le dimissioni dall’ospedale e il terzo consulto in reparto, mentre il dottore riordinava le carte esitando ancora a comunicare l’inesorabile progresso del male, aveva capito che per suo padre non si trattava più di mesi, ma di giorni. Perciò era uscito in terrazza, sconcertando sua madre che aveva interpretato il gesto come un eccesso di indifferenza al parere del medico e più ancora di indifferenza al suo dolore e alla sua incomprensione, che avrebbero avuto bisogno di soccorso davanti a perifrasi sempre più larghe, sfumate le quali, senza tacere nulla, affidavano il messaggio alle allusioni.

Il cielo era mezzo coperto. Tirava vento.

«Se si trattasse di un caso normale», aveva concluso il dottor Urban, chiudendo la borsa, «forse potremmo fare qualche previsione, ma qui – come purtroppo mi è capitato di recente, con un mio coetaneo – le cose vanno in fretta, troppo in fretta. È tutto molto rapido».

«Ma rapido quanto?» aveva chiesto lei, dopo due minuti di attesa.

«Mah, non si può dire. Comunque rapido, meglio prepararsi».

Rientrò per accompagnare alla porta Urban, ringraziandolo per l’attenzione e la sollecitudine, anche se, aggiunse, «nel dolore è sempre difficile interpretare le questioni cliniche».

Il medico gli fece un cenno, come a significare che capiva benissimo.

Sua madre piangeva.

Dalla camera da letto, il respiro di suo padre, tramutato da qualche ora in affanno, cercava una regolarità impossibile.

Gettato uno sguardo in camera, salutò sua madre e uscì.

Nelle settimane precedenti, all’inizio della malattia, suo padre aveva addolcito alcune asprezze caratteriali e si era fatto più cordiale: non aveva più tempo di discutere, come aveva fatto per tanti anni, stava affrontando un nuovo impegno. Non aveva commentato la malattia, né il ricovero o i consulti, neanche il ritorno a casa. Non aveva reso partecipi i familiari delle sue riflessioni su quanto gli restava da vivere ma – secondo il suo uso – si era concentrato proprio su questo tempo, cercando di metter mano a qualche progetto (almeno a schizzi e a parole, se non negli effetti), lasciando il decorso della malattia a chi se ne occupava di mestiere e mostrando ancora una volta di preferire la vita e le sue possibilità alla riflessione sulla morte, come se questa non avesse alcuna consistenza autonoma e non prendesse forma se non attraverso la realtà materiale di ciò che produciamo; in questa scelta, negli sguardi che gli aveva rivolto in quei giorni, vedeva riflesso il suo sforzo di essere all’altezza della situazione, di fornire ancora una volta – col suo comportamento – un esempio. In occasione della festa di san Biagio, ormai pressoché impossibilitato a bere, davanti alla mestizia della moglie e di suo fratello Ettore, aveva insistito che si aprisse almeno una bottiglia di spumante perché era un giorno di festa.

Il cielo sembrava rischiararsi.

Lungo il marciapiede, il furgone della Novolat sostava con le quattro frecce accese per consentire lo scarico della merce. Che questa, come la sterminata moltitudine di azioni che si svolgevano contemporaneamente, condividesse il tempo di quel pomeriggio, lo toccava in modo che qualche tempo prima gli sarebbe parso irreale. Poco più avanti Vannini avanzava con Bobo, il suo spitzer, il cui sguardo esprimeva sempre una minaccia incipiente, come se non potesse fare a meno di spaventare qualcuno o forse, in modo più sottile, come se percepisse che il suo aspetto, col sinistro taglio degli occhi, poteva spaventare i passanti. Ogni giorno Vannini lo riceveva in cura da sua moglie, che lo adorava disteso sul divano, ma non quando doveva fargli fare un giro. Così, con a fianco il padrone, Bobo portava a spasso la consapevolezza di una vita mal compresa insieme alla gioia violenta di essere al mondo, scambiata un po’ da tutti per ingiuria. In quel muso indecifrabile si leggeva che l’iniquità era probabilmente la condizione più comune fra gli animali. Rimase per un istante a osservarlo. Rispetto al cane, Vannini era invece gradito ai più, dotato di un talento che nell’incontro creava un piccolo palco ideale su cui metteva in scena la sua bonomia, riservando gli argomenti seri, o le sue preoccupazioni più nere per il futuro del figlio sedicenne, solo agli amici. Vannini tirò per un istante il guinzaglio e lo salutò cordialmente, chiudendo gli occhi mentre si congedava e annuendo a lungo, tanto da far capire che anche lui sapeva. Sapeva che era tardi.

Mentre ancora guardava il cane si accorse che i vicini stavano rientrando a casa con la piccola Giulia, vestita di un completo beige un po’ sporco. Lei gli lanciò lo sguardo di un broncio simulato, lontano da quello contrito dei genitori, facendo intendere che non aveva alcuna voglia di andare a casa. La compassione di chi incrociava, anche quando era convenzionale – e in questo caso non c’erano dubbi – lo aiutava a sopportare il protrarsi dello stordimento che l’aveva colto nell’ultima settimana e in cui si trovava a compiere ogni cosa; uno stordimento che gravava sopra le sue azioni senza che lui potesse volgere il capo verso l’alto per comprenderlo o per affrontarlo. Cercò di intuire quale fosse il motivo di attrito fra i genitori e Giulia. In questo rivolgersi verso gli altri, nel tentare di comprendere le relazioni che li muovevano, andando fino in fondo alle loro ragioni, l’inquietudine un poco si placava, nutriva una conoscenza più ampia, più viva; e questo, oltre a essere confortante, era forse il modo migliore di rendere omaggio all’insegnamento di suo padre.

2.

Era arrivato in anticipo, sollevato di muoversi in un quartiere, Le ferne, in cui andava di rado. La aspettava vicino a Manzoni, un negozio di casalinghi che vendeva oggetti di lusso. Bianca doveva fare un regalo di compleanno a sua zia Lidia. Poiché era una donna che in fatto di arredamento – come peraltro di alimentazione – sapeva soddisfare ogni sua esigenza, la missione si complicava: dato che la famiglia le era molto grata, doveva farle un regalo oneroso, all’altezza delle sue aspettative. La settimana precedente il televisore della zia era andato misteriosamente in pezzi, ma Bianca gli aveva detto che erano orientati per un vaso. Non era seccato di aspettarla. Aveva compreso che nei casi più gravi non si diventa insofferenti per ciò che non è essenziale; anzi, proprio perché si avverte che ciò che conta non assume mai una veste concreta, si tollera un impegno con indulgenza, specie se si rivela l’omaggio a un affetto che può accompagnarci nei periodi di difficoltà. Certo, a giudicare dagli oggetti in vetrina, il dono poteva costare parecchio.

Bianca era puntuale. Camminava sul marciapiede ancora bagnato salutando con la mano. Era decisamente ben disposta. Arrivò in un istante.

«E a casa?» chiese, baciandolo.

«Come sempre, ma un po’ peggio».

«Beh, speriamo in bene, anche se non si sa più cosa sperare».

Portava un soprabito verde scuro informe, quasi senza spalle, che le cadeva addosso con grazia. Si misero a guardare la vetrina bianca con i vasi disposti attorno e sopra una tavola apparecchiata. Di scorcio, si intravedeva un angolo del negozio e qualche cliente.

 «O no, Samantha», disse Bianca, scostandosi dalla vetrina.

La scorse di schiena, vicino alla cassa.

«Sì, oggi non sono tanto in vena», replicò lui.

Avida lettrice di «Fatti concreti», Samantha promuoveva gruppi di acquisto contro la grande distribuzione; ogni volta che le capitava di incontrarlo non finiva mai di istruirlo sugli ultimi sviluppi – «visto che hai questa sensibilità» – cercando enfaticamente di conquistarlo al suo gruppo, vale a dire alla compagnia di chi cercava una vita più vera e che la domenica dialogava su questi temi dandosi appuntamento per faticose e appassionate escursioni montane. «Sarai d’accordo anche tu che l’informazione fa schifo», aveva concluso il venerdì precedente. Lui la stava a sentire, senza però avere accesso al conforto che la convinzione di stare dalla parte giusta portava evidentemente con sé. Anzi, il più delle volte, tornando a casa avvertiva il peso di un discorso appagato della sua sola astrazione, lontano da una verifica sempre rinviata.

«Torniamo dopo?».

«Sì, ma possiamo anche dare un’occhiata da un’altra parte, non devo mica prendere per forza qualcosa qui».

Tre giorni prima Bianca lo aveva tirato fuori di casa per evitare che fosse assorbito solo dal dolore e dalla prospettiva che sua madre aveva imposto a quelle settimane, in cui sembrava che nessuno avesse più diritto di parola.

«Certo, però, anche Samantha», fece Bianca «di tutte quelle che conosco mi sembra la più fissata».

«Ti chiede una sorta di dieta del pensiero, o meglio un digiuno: non puoi mai dire qualcosa che non riguardi le sue convinzioni. Se le parli di libri, se non trattano almeno un po’ della fame o del terzo mondo non c’è niente da fare».

Anche se un anno prima Samantha lo aveva aiutato più volte a imbustare gli inviti per una serie di conferenze sul turismo rurale in cui si era trovato a dare una mano, le divergenze con lei erano divenute sempre più complicate.

Presero per il centro.

Non si era ancora scoperto come il televisore della zia fosse stato distrutto, o per meglio dire, non si capiva «chi l’avesse buttato giù dalla mensola», disse Bianca. La zia escludeva Carmela, la donna delle pulizie, che con lei condivideva – benché in forma puramente contemplativa – la passione per i soprammobili. Alberto, l’unico figlio della zia (era rimasta vedova cinque anni prima), viveva a Copenaghen con la famiglia e rientrava solo un paio di volte l’anno. Escludendo un vicino in pensione, restavano solo le sorelle, i nipoti e un paio di amiche quasi coetanee della zia.

«C’è tutto quello che serve per un giallo», concluse Bianca.

«Sì, dovremmo solo trovare chi lo risolve».

«Beh, potremmo anche pensarci noi, non credi?».

Rise un po’ a fatica, come se lo stordimento allontanasse ogni prospettiva spensierata, che rifiutava inconsapevolmente perché il suo pensiero era rivolto da un’altra parte.

«Da chi partiresti?»

«Da mio cugino Bruno: è sufficientemente un coglione per aver pensato una cosa del genere».

 «E quindi?»

«Niente, la zia era andata dall’oculista, accompagnata da Emilia, mia cugina, e quando è rientrata ha trovato il televisore sul pavimento».

«Potrebbe anche essere caduto da solo».

«È quello che pensano i miei, se non fosse che la zia aveva inserito attorno ai supporti due anelli di metallo che a suo dire lo rendevano più stabile. E che sono rimasti al loro posto».

«E allora tu hai pensato a Bruno».

«Beh, è un coglione e in più ha le chiavi dell’appartamento. Per un certo periodo era lui che la portava in giro. Non si capisce come campi: prima ha fatto il commesso in un negozio, poi ha lavorato come impiegato in una finanziaria (ma è durata poco, e ci ha rimesso dei soldi). Credo che adesso lavori per una società che fa siti web. Sembra il candidato ideale e per questo lo so che dovrei scartarlo, ma trattandosi di lui direi che dovremmo tenerne conto. Poi punterei su Fernanda, un’amica della zia parecchio maldestra».

«E se scopri chi è stato?»

«Niente, non è che debba portarmi qualcosa; lui si prenderà le sue colpe».

«Ah, allora lo fai per giustizia».

Lei rise. Erano arrivati davanti a Prandi, un negozio di piccoli elettrodomestici e oggetti di design, uno di quelli che presentano ai clienti una serie di proposte fuori del comune, dedicate a chi vuole avere l’aria di fare un regalo poco impegnativo, ma ricercato; insomma, a chi non si è trovato a comprare la prima cosa che gli è passata per le mani, ma che ha dedicato del tempo al destinatario del dono. In realtà questa ostentazione di una ricerca prolungata si otteneva semplicemente entrando nel negozio e dedicando al regalo, più che un istante di attenzione in più, una cifra poco più alta del previsto (anche se si doveva riconoscere che gli oggetti costavano molto meno degli articoli di Manzoni). C’erano stereo di design, piccole radio colorate, tutta una serie di accessori per telefoni cellulari, pupazzetti di gomma da attaccare all’antenna in grado di catturare le onde elettromagnetiche in eccesso, secondo i produttori. E poi orologi da tavolo e da parete. Zaini di nylon.

Dietro di loro, una voce li costrinse a girarsi: «Siete indecisi, eh?». Era Margherita. Raccomandò a Bianca di avere in casa almeno un oggetto di Prandi, anche di minima dimensione e perfino non funzionante, pena la caduta di ogni considerazione sociale («senza, neanche i vicini ti guarderanno più in faccia») al che Bianca confermò di essere lì proprio per fare il suo dovere («ma, come sai, fare il proprio dovere è difficile»). Poi, guardando verso di lui, Margherita smorzò il suo entusiasmo. Intuito ciò che stava per accadere, per non dar spazio ai discorsi di circostanza, Bianca replicò che in effetti, di Prandi si sarebbe potuta comprare anche solo la borsa arancione, da tenere in bella vista in atrio, per mettere subito in chiaro le cose con gli ospiti. Si fecero due risate a cui cercò di partecipare anche lui.

«Beh, statemi bene».

«Che dici?» fece Bianca «io entrerei».

Nello stanzone color miele c’erano cose insospettabilmente eleganti, disposte secondo un allestimento da museo d’arte contemporanea. Bianca si fece dire se avessero anche uno scaffale per i vasi. Mentre seguiva il commesso, lui si era attardato su alcune borse tedesche di tessuto nero, vicino alla console dei videogiochi. Più in là, altri oggetti, come piccoli metri retraibili da usare come portachiavi, oppure una serie di portamine di grossa dimensione, destinati agli architetti in cantiere. Nelle varie serie di oggetti si poteva quasi disporre una sorta di indice tematico delle professioni. Prese uno dei metri portachiavi grigi, lo sfilò e rimase a osservarlo, poi lo consegnò al commesso. Pensò che suo padre avrebbe gradito. Intanto Bianca aveva preso in mano dei vasi asimmetrici smaltati di bianco.

«Sono in lega di alluminio» disse il commesso, un tipo basso che chiamavano Geronimo, «Non si direbbe, ma sono molto leggeri».

«Beh, cadendo questi non dovrebbero rompersi», disse Bianca.

«Speriamo di no. Al limite potrebbero sbrecciarsi».

Il vaso, dalla base a trapezio, saliva curvando verso destra di circa trenta gradi; il colore garantiva un alto grado di adattabilità a un arredo esigente come quello della zia Lidia. In realtà erano un paio di vele, si vendevano a coppia: centotrentamila lire in tutto.

Bianca lo guardò cercando un’espressione di complicità.

«Per essere belli, sono belli», disse lui.

Sembravano di buon augurio.

3.

I vari episodi di quel periodo si riflettevano sulle difficoltà con le quali metteva mano a qualsiasi progetto, anche se, a differenza di quanto era accaduto in passato, non incidevano sullo studio, che anzi proseguiva con la regolarità di un mestiere acquisito. Certo, un’immagine lo accompagnava in ogni istante. Semisdraiato su una poltrona, suo padre guardava dalla finestra oltre la tettoia dei vicini, verso il cielo coperto. Non si lamentava, se non per le labbra che non accettavano ormai più che un fazzoletto bagnato. Sua sorella, che l’aveva assistito per tre ore, aveva detto: «Niente. È stato tranquillo tutta la mattina». In realtà, nel suo tormento segreto le cose da fare si erano moltiplicate, alternate a brevi riflessioni sullo stato della famiglia, le uniche in cui si riaccendeva.

Eppure nei piccoli oggetti disposti nell’atmosfera di Prandi, che profumava di essenze agrumate, lui scorgeva innumerevoli possibilità; una fame di futuro, risalita interiormente dai recessi della coscienza, induceva anche lui a guardare avanti o forse, in modo più elementare, lo tentava a uno sguardo più concreto.

 Pagati i loro acquisti, uscirono.

 «Mi sono dimenticata di dirti una cosa. Non so quanto possa essere vera. Sembra che Clara stia per lasciare Lingue per mettersi con un elettricista che lavora all’azienda idroelettrica, un bresciano, Paolo Govoni. Non ha detto nulla a nessuno, naturalmente, ma la cosa va avanti in segreto da un po’».

Non che questo fenomeno di per sé uscisse dal ventaglio del possibile, ma quel che lo faceva sembrare improbabile era proprio ciò che invece, a ben vedere, poteva averlo favorito. Poche persone si erano premurate di mettere in chiaro quanto detestassero il quartiere in cui erano cresciute più di quel che aveva fatto Clara; poche ne avevano messo in evidenza i limiti, rivendicando l’aspirazione a un contesto più alto, secondo un modello fin troppo noto a cui aveva inconsapevolmente finito per aderire.

«Sì, l’ho sentito anch’io. Camillo l’ha fatta breve: “È sicuramente incinta”. In effetti, sarebbe una spiegazione, vista poi la sua famiglia, ma non è detto che sia vero».

«Beh, vedremo. Comunque, su Carlo non saprei che dire, ma certo sua madre la prenderebbe malissimo. Te la immagini, a non avere una figlia laureata?»

Rise di nuovo, un po’ a fatica.

Difficile capire cosa l’istruzione dei figli potesse significare per chi la prendeva sul serio. Un mutamento d’orizzonte che oltrepassava la realtà circostante verso un territorio più vasto; il sogno di un diverso ruolo sociale, più ambizioso e competitivo; l’illusione di appartenere a un mondo non meno fatato di quello dei romanzi sentimentali del primo Ottocento, o delle stesse speranze di Clara, un mondo che non aveva più nulla a che fare con la polvere dei campi e che i saggi accademici promettevano come un avvenire vibrante, luminoso. Tutte ragioni che avevano messo in dubbio il suo, di studio. Poi qualcosa aveva definitivamente smentito sia questa prospettiva, sia la sua, mettendolo davanti ai suoi limiti. Una mattina, in piazza Duomo, aveva incrociato il compagno di classe di un suo amico, un certo Ostuni, che conosceva poco. Si era fermato per un momento a parlare e questi gli aveva espresso tutto il suo entusiasmo per lo studio con un’adesione emotiva incontrollata, che riversava all’istante su ogni argomento, trattandolo per voci sommarie: ogni risposta assumeva così un rilievo generico, pressoché inconsistente. Non era tanto una questione di sensibilità, non erano le sensazioni a stimolarlo. Per lui gli interrogativi teorici venivano a disporsi l’uno accanto all’altro su un ideale tavolo di lavoro attorno al quale si aggirava con l’eccitazione di chi stia per scartare troppi regali.

 Sulle prime voleva trattarlo con condiscendenza; subito dopo, però, si fece strada una sensazione più amara e determinante. Al di là dell’ironia che avrebbe potuto esercitare su un entusiasmo così pago di sé, si era reso conto di non essere poi tanto meglio di Ostuni; per quanto avesse fatto qualche passo in più, non si era allontanato da quello stadio elementare al punto da aver raggiunto una consapevolezza piena delle questioni. Per anni la sua stessa concezione dello studio era stata rivolta troppo a se stesso, crescendo di astrazione in astrazione fino a condurlo lontano dai fondamenti di una disciplina. Al di là delle questioni che aveva affrontato perché rispondevano alla sua sensibilità, si stendeva un territorio indefinito che aveva trascurato considerandolo inessenziale, e che invece andava preso sul serio come non aveva mai fatto in precedenza. Il primo passo avanti doveva quindi essere un umile passo indietro.

«Io non credo che Clara possa piantare l’università,» disse, mentre si rigirava il metro nella tasca, «se davvero fosse incinta potrebbe interromperla per un po’. Ma per quanto lei sia capace di piantare tutto di punto in bianco, alla fine proseguirà».

«Non lo so. Non ho mai capito cosa abbia per la testa».