Forse sognare.
Su Angera e il progetto Infinite Jest – serie tv

Le riviste si sono sempre nutrite della discussione interna. Visto che gli interventi di Angelo Angera sul progetto di una serie tv tratta dal romanzo di David Foster Wallace hanno destato molta attenzione, a testimonianza del dialogo interno abbiamo deciso di pubblicare un contributo di Walter Nardon.

di in: Inattualità

Più leggo le ultime notizie riportate da Angelo Angera sugli sviluppi della serie televisiva che dovrebbe essere tratta da Infinte Jest, meno ho voglia di aspettare questa serie, anzi, per quel poco che può valere la mia opinione, potrei spingermi a sostenere che, quando la serie sarà finalmente messa in onda anche da noi, mi sintonizzerò tranquillamente su altri canali del digitale o meglio ancora della rete, sempre che non decida di uscire. Eppure, tutta la Hollywood che conta, anzi, quella che in apparenza dovrebbe contare per noi – la migliore, quella un po’ alternativa, più artisticamente orientata e sottilmente anti-hollywoodiana – sembra non vedere l’ora di impegnarsi nell’impresa promossa da Scorsese. Sembrano tutti in coda per mettere la firma sugli episodi. E in effetti, poter fantasticare sulla possibilità di veder realizzati i vari episodi del romanzo di Wallace dai migliori registi, anzi dai più dotati per ciascun episodio (per ciascuna scena di un episodio, per ciascuna sequenza, inquadratura, campo, piano e così via) porta la nostra immaginazione nel regno sconfinato del desiderio. A questo punto, dovremmo sperare che i tempi di produzione si dilatino. La realizzazione completa della serie potrebbe essere una delusione non tanto per i devoti di Wallace, né perché la forma è sempre in qualche modo definitiva (e ha a che fare con la morte), ma per una ragione molto più semplice. Non è forse meglio sognare l’espressione di James Incandenza in un ufficio filmata da Paul Thomas Anderson (sì, potrebbe esserci anche lui), oppure un giovane che entra nell’Accademia tennistica filmato da Nicolas Winding Refn? Ossia, non è meglio, più specificamente, farne letteratura? Se è così, allora perché fermarsi, perché non fingere un improbabile impegno di Lars Von Trier? E altri, meno appariscenti, non solo Herzog o Lynch, ma quelli posti più indietro, pronti ad entrare in azione (Paul Haggis, James Ponsoldt, l’unico che sull’autore del soggetto si sia già espresso in The End of the Tour). E le varie zone? Proprio adesso mi è tornata una poco postmoderna nostalgia per Bergman (è sempre con me: si aggrava di tanto in tanto).

Nell’agosto del 2007, a Parigi, sono andato a vedere la mostra di David Lynch, Works on Paper alla Fondation Cartier pour l’Art contemporain. C’era veramente di tutto. Lynch non solo si è espresso come pittore, ma si è rivelato un eccellente archivista, un mago nella conservazione dei vari supporti: cartoni, tele, stoffa, fogli, foglietti, plastica. Tutto. Anche i tovaglioli disegnati in attesa dell’arrivo del cameriere, con due o tre semplici righe tracciate con un pennarello. Una serie di fogli e un paio di grandi tele che mostravano alcune analogie con i lavori di Stanley Donwood (e Dr. Tchock-Thom Yorke) per la grafica dei dischi dei Radiohead. Mentre camminavo nella grande hall, in un’altra stanza piccoli monitor trasmettevano i brevi video sperimentali in bianco e nero girati da Lynch in quegli anni e nei quali compare anche come attore. Non parlo dell’animazione di DumbLand (ad Angera sarà invece piaciuto molto Rabbits), parlo di lavori fatti in casa. Brevi episodi che mettono in scena storie minime di un mondo che gira a vuoto. Pensavo ai suoi film, che a mio avviso vanno al di là delle osservazioni di Wallace, come se l’occhio che inquadra fosse incredulo dell’evidenza di ogni rappresentazione. Come molti sanno, oggi Lynch sembra preso dal progetto di una nuova serie tv, la continuazione della sua serie più famosa, Twin Peaks; ma continua a entrare e a uscire dal progetto. Per quanto posso supporre, non credo proprio che si impegnerà nella serie Infinite Jest, neanche come attore, ma lo si può continuare a sperare.

Wallace era uno scrittore estremamente dotato, soprattutto nei saggi autobiografici. L’attenzione che si sta muovendo attorno al progetto di trarre una serie tv da Infinite Jest non è che un’espressione di affetto da parte di un pubblico di lettori molto vasto (non che si possa trarre un’equazione dal rapporto fra i fans di Wallace e quelli delle serie tv americane, ma qualcosa nel merito si potrebbe provare a dire). Forse i fans resteranno delusi. Se la passeranno appunto molto meglio quelli che Angera chiama i pre-fans, ossia in fondo i lettori, anche i lettori di letteratura, cui naturalmente possiamo ricondurre anche le congetture, le indiscrezioni, i desiderata su una serie tv. In fondo, sarebbe come dedicarsi a immaginare una sorta di Una cosa divertente che non farò mai più senza andare in crociera ai Caraibi. Vedere i nostri desideri cinematografici finalmente realizzati. E scriverne. Non potremmo prendere tutto questo come una versione singolare e aggiornata del plazer medievale?

Nella lunga conversazione con David Lipsky, pubblicata in Italia da minimum fax col titolo parzialmente mutato di Come diventare se stessi (dall’originale e un po’ più nietzschiano Although of Course You End Up Becoming Yourself), Wallace parla spesso dentro e attorno al vuoto delle proprie enormi difficoltà esistenziali – dopo un’infanzia e adolescenza che molti lettori vedrebbero illuminate dal privilegio – ma ovviamente non è qui che dà il meglio di sé. È davvero in pieno dominio del suo territorio quando racconta come comincia e procede una sconfitta: ad esempio, in modo memorabile, in vari saggi di Considera l’aragosta. Cosa possa venir fuori da una serie tv su Infinte Jest non lo so davvero ma, sebbene non siano proprio il mio genere, fra le indiscrezioni e i desiderata di Angera continuerò a preferire i secondi. Della serie, se e quando sarà finita – visto che l’avventura produttiva è ancora tutta in divenire – si potrà dire, se si vorrà, a tempo debito. Certo, si può fare letteratura anche con le indiscrezioni sulla realizzazione di un progetto, ma in questo momento i desiderata mi interessano di più, fossero pure solo un MacGuffin, un buon pretesto per parlare di letteratura, o per farne. A questi, però, bisogna aggiungere un po’ della nostra vita.

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