Se questo è un servo.
Noticine alla Lettera al personale scolastico di Lucia Azzolina

Minuzie, si dirà: ognuno è libero di avere lo stile che gli pare. O no? Secondo noi no: un ministro non è libero mai: è viceversa un servo. E dal servo della cultura esigeremmo, in ogni occasione, degli scritti che non sembrino redatti con la penna in una mano e il telefonino nell’altra, cinque minuti prima di andare in onda (ovvero, dato che oggi si preferisce così, in rete...).

di in: Banchi

Con deliberato ritardo, diamo una sbirciata alla Lettera al personale scolastico (31 agosto 2020) del Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina. Quando i tempi si fanno o meglio si credono concitati, nulla giova di più di uno sguardo inattuale.

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Testi come la Lettera di Azzolina hanno per solito lo scopo non dichiarato di riuscire anodini e in definitiva cullanti, come dire un “per tutti e per nessuno” inverso rispetto a quello di Nietzsche: e in questo diamo atto all’Azzolina di aver compiuto la sua missione. La sensazione fortissima e un filo terrorizzante è quella di un testo assemblato da una di queste nuove “intelligenze artificiali” (sulle virgolette poi, e altrove) capaci di produrre articoli di senso compiuto su temi a piacere raccogliendo qua e là dichiarazioni e frasi quanto mai generiche e sciape –––– ci piace immaginare la Lettera recitata su un palco à la Lynch da un lettore robotico “intelligente” in grado di dare “espressione” al testo, di “enfatizzare” con misura… Forse questa sarebbe la più giusta esecuzione di ogni recente discorso rivolto “alla popolazione”, dagli auguri del presidente della repubblica in giù: un happening per intelligenze artificiali in cui, di fatto, nothing happens.

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Sugli scopi di grigia, doverosa e dovuta rappresentanza della Lettera scendono però alcune crepature che, come stecche sull’esercizio di violino di una genericamente ottocentesca nipotina, importunano il torpore di chi legge: ad esempio, certo tono da ramanzina affabile (leggiamo un «lasciatemelo dire» e altro su cui torneremo tra poco); stravaccato karate spezza-periodi («Sarà un anno duro. Ma anche l’inizio di un percorso diverso»), in una imitazione dello stile giornalistico intesa di certo a “mettere a proprio agio il lettore” (ma un potente che ostenta disinvoltura mette solo tristezza) e indizio del fatto che per Azzolina lo stile e la lingua giornalistici sono lo stile e la lingua, come vedremo più giù; indecisione sul facoltativo galateo linguistico del prima-le-donne/ricordarsi-delle-donne (a un «con le nostre ragazze e i nostri ragazzi» fa seguito poco dopo un «ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze»; stesso discorso con «nel cuore di studentesse e studenti» in coppia con «spieghiamo agli studenti e alle studentesse» – e in tre altri punti troviamo poi gli studenti da soli –– forse le studentesse erano andate a truccarsi); infantilismo (una delle più ridevoli e da noi perciò più amate idiosincrasie della retorica di questo governo): qua e là nella lettera si respira un clima da “credevate che non ce la facevamo e invece visto? ce la facevamo” («In molti avevano messo in dubbio la nostra capacità…», «In pochi hanno poi voluto raccontare con quale spirito di servizio…», e così via: che tenera ♥), con tenui sprazzi di, come chiamarlo? giochisenzafrontierismo («nessuno in Europa si è impegnato così tanto») –– e se ritiriamo in ballo quella vecchia carnevalata televisiva è perché non possiamo fare a meno di figurarci la Azzolina in testa a una giocosa gara europeggiante su variopinti banchi a rotelle… (che ne è poi stato di quegli aggeggi? per un bel po’, sui giornali e nelle parole della stessa Azzolina il “banco monoposto” avrebbe dovuto essere un esilarante seggiolone a rotelle che avrebbe fatto la gioia del Pierino di Alvaro Vitali; poi ad un certo punto, pùf, il banco a rotelle è sparito dai rotocalchi e il banco monoposto si è rivelato essere quel che la parola dice che è: un banco normalissimo, per uno studente solo. Forse influenzati dalle monoposto motociclistiche, Azzolina e con lei i media non avevano capito bene cos’è un banco monoposto? Non sappiamo, però la sfacciata damnatio del banco a rotelle viene perpetrata bellamente anche nella Lettera, come dire “chi, io i banchi a rotelle? ma quando mai…”: «Daremo alle scuole 2,4 milioni di banchi nuovi monoposto. Uno strumento per distanziare i ragazzi, per la sicurezza […]. Abbiamo letto di tutto su questi banchi. Il dibattito è stato a tratti surreale, lasciatemelo dire». E lasciamoglielo pure dire, ma di tutto quel deprimente dibattito la cosa più surreale è stata senz’ombra di dubbio l’apparizione televisiva di Azzolina appollaiata su un malfermo trabiccolo palesemente scomodissimo e altrettanto palesemente inutile per «distanziare gli studenti» – tra l’altro, per chiudere malignamente questa adiposa parentesi: quel «banchi nuovi monoposto», un po’ spettinato nell’ordine dei modificatori, ci sa di correzione dell’ultimo minuto e quindi, come ogni cosa fatta in velocità, di sintomo, di rivelazione: prima, così supponiamo, era solo «banchi nuovi», poi Azzolina: “Ah già: monoposto: ci va o no? Sì? Ma siamo sicuri che non vuol dire che ha le rotelle?”; e così hanno aggiunto al volo il monoposto, ma in un punto insolito, dove il termine riesce perciò espressivo: «nuovi banchi monoposto» sarebbe stato l’ordine per così dire più liscio, o al limite «banchi monoposto nuovi» –– è anche questo un residuo, minimo, del surrealismo del dibattito – surrealismo tutto governativo, con buona pace di Azzolina: sotto la cenere di quel monoposto fuori posto, brucia ancora il ricordo della cavalcata sul seggiolone ruotante.)

Minuzie, si dirà: ognuno è libero di avere lo stile che gli pare. O no? Secondo noi no: un ministro non è libero mai: è viceversa un servo. E dal servo della cultura esigeremmo, in ogni occasione, degli scritti che non sembrino redatti con la penna in una mano e il telefonino nell’altra, cinque minuti prima di andare in onda (ovvero, dato che oggi si preferisce così, in rete…).

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Altri due passi un po’ più incespicanti.

Il primo:

«In molti avevano messo in dubbio la nostra capacità di organizzarli in presenza, allarmando su possibili fughe di commissari e presidenti di commissione.»

«Allarmando su possibili fughe»? Ci sembra un uso un po’ bislacco del verbo allarmare. Vocabolario alla mano, allarmare ammette un uso intransitivo solo nella forma pronominale allarmarsi, altrimenti è transitivo. Azzolina lo usa in modo intransitivo nel senso leggermente sfasato di “diffondere notizie allarmanti”. Di nuovo: una piccolezza, magari nemmeno un vero e proprio errore: ma è, perlomeno, uno strattone alla parola. È come se nel mezzo di un discorso pubblico sfuggisse un lieve, rapido rutto.

(Segnaliamo, en passant e senza che importi per ciò che stiamo dicendo, un neologismo non ancora accolto nei lessici: allarmare per “attivare l’allarme” di un antifurto, usato nei manuali di istruzioni in coppia col gemello siamese disallarmare.)

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Il secondo inciampo è, per noi che amiamo l’arte del racconto, più disturbante.

«[…] e attorno a questa nuova attenzione per il sistema scolastico sono emerse narrazioni spesso semplificate, alcune volte allarmistiche, quasi sempre ingiuste sul personale scolastico»

«[…] le narrazioni secondo cui non ci saranno corsi di recupero perché i docenti si rifiutano di farli»

Che sono queste «narrazioni»? Non ricordiamo di aver letto o sentito in nessun momento racconti o testimonianze aventi gli insegnanti come protagonisti negativi. Dicerie, sì: affermazioni, anche: ipotesi, magari: narrazioni? No. È chiaro (nella seconda frase citata ci pare lampante) che qui il senso di narrazione non è affatto quello di “racconto”. È un qualcosa di più impreciso e instabile, non semplice da isolare (ovvero, chi ci ama ci segua: perché da qui il cammino si fa un po’ più accidentato).

Ci sembra che nelle due frasi la parola narrazione sia stata posta, come dire, su un piano semantico inclinato, che l’ha fatta rotolare a ridosso del significato di “diceria” o peggio “fanfaluca”. Di cosa parla Azzolina quando parla di narrazione? Proveremo a spiegarlo, ma intanto è evidente l’assunto che ha innescato un tale uso della parola. Non avrà ben chiaro cosa narrazione significhi, ma di una cosa Azzolina è certa: dove c’è narrazione, c’è puzza di maldicenza.

Siamo i soli a sentire un brivido di spavento?

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Estensivamente, narrazione può indicare il modo «di presentare, di interpretare una vicenda oppure una storia personale» (Zingarelli), col che cominciamo ad avvicinarci a quello che forse Azzolina intendeva. Ovvero la retorica della narrazione. Possiamo ricordare anche la narratio dei latini, ma qui conta che tale accezione del termine è stata di recente influenzata dall’ingresso in italiano della parola inglese storytelling.

Storytelling è “l’atto del narrare”, e quindi di nuovo “narrazione”, con accento spostato appunto sul modo. In inglese il termine ha, oltre che un significato letterario, una precisa connotazione politica, nel qual caso indica la capacità di dare alla propria argomentazione una forma narrativa, in modo da renderla più coinvolgente; in particolare, nello storytelling la narrazione ruota intorno all’esaltazione di una persona o di un partito o di una certa linea politica, che attraverso il racconto si fa epos seduttivo per l’elettorato. Vengono in mente le sornione considerazioni di Luciano su Ulisse alla corte dei Feaci, come anche le cupe riflessioni di Arendt (nonché, già che siamo davanti al portone della scuola, di Alfieri) sui rapporti tra letteratura e potere. L’inganno letterario può essere portatore di verità se l’opera resta nel regno estetico, ma può accartocciarsi in tranello quando lo scopo è solo politico.

In Italia storytelling ha attecchito in ambito letterario (viene usato al posto di narrazione per fare sveltamente riferimento alle teorie narratologiche angloamericane; lo usa anche, in modo più inane, quello stesso tipo di persona che preferisce dire plot invece di trama), in quello del marketing (si creano storytelling per un prodotto o di un marchio), e naturalmente nella cronaca politica: ecco La narrazione di Renzi non può sopravvivere al no di Paolo Franchi, in cui per tornare a noi viene esplicitata la sinonimia tra storytelling e narrazione: «stavano tutti, prendere o lasciare, dentro un discorso, anzi, dentro il discorso (se preferite: lo storytelling, la narrazione) di Renzi». La narrazione di Renzi è dunque il modo in cui Renzi presenta se stesso come racconto, in modo appunto da sedurre (in senso quasi latino) l’elettore. Ancora però non ci siamo: la narrazione azzoliniana non ha a che fare con lo storytelling politico. La prova? Si mettano degli storytelling al posto delle narrazioni nelle due frasi incriminate: risulteranno semanticamente troppo ingombranti per quello che Azzolina sta dicendo.

La sezione dei neologismi nel sito Treccani registra, nel 2017, sempre in ambiente giornalistico, un nuovo uso del termine narrazione, ancora più vicino a quello azzoliniano: stavolta, e in competizione con narrativa (calco del falso amico – mai termine fu più azzeccato – narrative), narrazione viene di recente usato «per descrivere una forma di comunicazione con un’esposizione argomentata che riflette al meglio la propria visione, i propri valori e i propri obiettivi». Stiamo quindi parlando di un ministro dell’istruzione che in una lettera ufficiale al personale scolastico decide di utilizzare un neologismo giovanissimo, e quindi ancora fortemente instabile, e prodotto inoltre da un mondo, quello dei giornali, linguisticamente magmatico quando non capriccioso? No. In realtà è ancora peggio di così: «non ci saranno corsi di recupero perché i docenti si rifiutano di farli» non è affatto una esposizione argomentata che riflette etc.: è semplicemente un’illazione malevola. Stiamo dunque parlando di un ministro dell’istruzione che non è nemmeno in grado di utilizzare correttamente i neologismi prodotti dalla lingua di cui è adepto. E tra tutti i neologismi che poteva maltrattare, ha pensato bene, rivolgendosi alla scuola, di usare narrazione.

Sul serio: siamo i soli a provare un senso di spavento?

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(Ci inquieta un sospetto: filtra forse attraverso Azzolina, lungo canali diciamo così inconsci, un’idea sempre più diffusa di narrazione come intrattenimento e quindi in fin dei conti innocente favoletta con cui rilassarsi prima di tornare alle cose serie? Ovvero, di narrazione come merce da acquisire e consumare, e non più forma specifica della conoscenza e dell’esistenza? Ovvero ancora, di narrazione come uno dei mezzi del consenso, placida coltre in cui chetare/sfogare frustrazioni, delusioni e amarezze assortite? Perché Azzolina ha potuto stravolgere a tal punto il significato di narrazione senza che nessuno battesse ciglio? Se nella narrazione non sappiamo più trovare qualcosa di decisivo, finiamo col rendere più instabile anche il senso della parola che la indica. Insomma: dietro questa erosione del senso di narrazione – si tratti di quella avventurosa ma comunque ragionata dei media o di quella avventatissima di Azzolina – non sarà in agguato, ormai da tempo e anche in ambienti culturali più elevati di quanto non siano i giornali o i ministeri, un progressivo svuotamento del senso della narrazione?

Si dirà però che con questi lambiccati timori pretendiamo un po’ troppo da Azzolina… È che dietro quelle «narrazioni» ci pare di indovinare la nube corrodente e tossica di cui il ministro è parte forse inconsapevole, ma non per questo innocente.)

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Le «narrazioni» di Azzolina ci hanno fatto sentire un po’ come Alice in conversazione con Humpty Dumpty. In Through the Looking-glass il dispettoso ovetto sostiene di poter usare le parole dando loro il significato che pare a lui. Vale la pena di rileggere lo scambio (la traduzione è nostra):

«“Quando io uso una parola”, disse Humpty Dumpty con un certo tono sprezzante, “essa significa ciò che io scelgo significhi – né più né meno”.

“Il problema”, disse Alice, “è se si può far significare alle parole cose tanto diverse.”

“Il problema”, disse Humpty Dumpty, “è chi è che comanda – tutto qui”»

Chi è che comanda? Non un ministro, un ministro mai: un ministro è, o avrebbe dovuto essere, un servo.