Presiden arsitek/ 46

L’indio fischiava e sospirava come un uccello trafitto, agitava le sue fronde di piume distogliendomi dal naufragio, e il riso mi aveva così scavato fin nel più intimo delle viscere che mi era impossibile fischiare e salvare il mio fratello ferito al cuore. Mi sono tirato su, esilarato dalla morte dell’indio, ho incrociato le gambe e senza che dicessi nulla l’indio mi ha consegnato il suo tamburo.

di in: Presiden arsitek

«…come nel caso della creazione di Eva, avvenuta nella forma di un sogno erotico che al nostro risveglio non svanisca e anzi ci accompagni finché morte non ci separi. Ed in ogni donna cercherà l’uomo disperatamente quello stesso allucinante miracolo, e in ogni uomo cercherà la donna quella stessa nostalgia così simile a quella per il ventre della propria madre: e insieme così orrorosamente diversa: e di morte soffusa». (da G. Giorgio, Homo omiliacus, Edizioni della Parrocchia di Newton, in corso [sine die, a dirla tutta, ostando ancora all’imprimatur varie imputazioni a carico del Nostro, cfr. infra supraque ac passim… (N.d.R.)] di stampa).

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SARAHS: Stambecchi e caproni con corna di varia forma e dimensione (quasi tutte ricurve come quelle dello stambecco, ed enormi come corni danesi, come l’intero corpo della bestia) correvano nella polvere della pianura sotto di noi. Li vedo da una finestra o da una terrazza del Pirata Ebreo dove mi sono infilata abbandonando l’architetto nel paesino francese, alzandomi pian piano e andandomene senza dire nulla e lasciandolo in compagnia, così almeno immagino, dei due pescatori che abbiamo conosciuto ieri. Insomma, che si fotta anche lui, sono sicura che l’architetto mi può aiutare come dice sempre, io però non ho proprio nessun problema, per cui che si faccia colazione con i due pescatori, io sto qui dal Pirata Ebreo.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: Ricordi soltanto che in quell’appartamento vendevano della marijuana coltivata con amore, e tu hai 17 anni. Un gruppo di ragazzi ammorbiditi dalla droga, studenti universitari nascosti sopra mucchi di stracci, stracci essi stessi, chiazze di casacche da Alichino. La lotta con le Malebranche fatta in forma di farsa per burattini era uno degli spettacoli che potevi vedere nel loro teatrino, ma non trovi più l’appartamento, il groppo che hai nel cuore, come una gelida manina stesse cercando di soffocarlo ti lascia a malapena le forze per entrare nel palazzo e perlustrare il complicatamente piranesiano giroscale. Il Teatrino delle Malebranche, non era forse anche il nome della loro compagnia teatrale di marionette? avevano una casa sul mare dove intagliavano burattini per turisti – ma con i loro burattini, quelli cioè che usavano per i loro spettacoli, con loro parlavano e li trattavano quasi come attori, e così e in nessun altro modo un attore dovrebbe accettare di farsi trattare, se non come un burattino di legno che in ogni momento puoi usare per dar vita a un diavolo delle Malebolge, gettarlo nel baule a confondersi con gli altri stracci, buttarlo nel fuoco per una finale capriola nell’inferno, venderlo a dei turisti che per caso siano capitati nel porticciolo dove hai il tuo laboratorio che tu e i tuoi amici chiamate, con voce veneziana e con la chiassosa ciarlataneria dei giovani e dei cacamarionette, Arsenale. Ma non trovi più la casa dei Malebranche cacamarionette, o per meglio dire il loro appartamento.

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A volte Gianni Sherwood è convinto di essere orfano e di vivere in un grattacielo. All’undicesimo piano del grattacielo Gianni Sherwood ormai ubriaco come gli capita sempre dialoga con sé stesso in un semisonno, alternando la propria voce con quella della madre morta. La prima volta che aveva usato quella voce il suono e le parole erano come usciti da soli, cogliendolo di sorpresa. A volte ora la notte si svegliava parlando con la voce di lei, ma ormai non si sorprendeva più. La prima volta era stato durante il pranzo, nel mezzo di un boccone di manzo, all’improvviso la voce della madre gli aveva spalancato la gola con l’aria della Regina della Notte di Mozart, e per poco non lo aveva strozzato.

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Ma era Mhanta il nome dell’impareggiabile moglie di Valmarana, una selvaggia che si era portato di ritorno da una delle sue spedizioni amazzoniche come una liana rimasta impigliata allo zaino, una vivente statuina dell’età della pietra alta più o meno come una bambina di dodici anni, bilanciata su dei piedi e delle caviglie quasi comicamente minuscoli in confronto all’espansione già materna [urbane e in realtà cafonissime risatine alle spalle dei coniugi quelle poche volte che si presentavano in quella che in mancanza di meglio o di peggio possiamo chiamare “società”, risatine delle quali i coniugi Valmarana s’impipavano totalmente, ancora compresi nella loro amazzonica e mormoratissima luna di miele, lui curvo su di lei bisbigliando nella lingua della tribù che le aveva fatto abbandonare, bisbigliando per risponderle quando lei allungando un dito verso questo o quello ne chiedeva il nome nella lingua di suo marito] dei suoi fianchi, una silenziosissima principessa barbara che odorava delle erbe marcite che si era portata dalla foresta per coltivarle nella nuova casa a Schwarzschwarz e con cui ogni giorno preparava impacchi, intrugli, pomate, salse, Mhanta rigata su ogni parte visibile del corpo eccetto il volto di un brulichio inestricabile di tatuaggi di colore quasi blu contro la sua pelle bruna, Mhanta cui nessuno per aveva mai osato fare la distratta e gioconda corte che il galateo di Schwarzschwarz impone di fare come forma di omaggio alla prima moglie di un amico, tutti si tenevano neanche troppo educatamente alla larga da quella scheggia di preistoria piovuta nei loro salotti, ma ciascuno dopo averla incontrata se la ritrovava, prima o poi, davanti: in sogno: forse a por rimedio alla malacreanza della veglia…

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MILOŠ: In una delle stradicciole residenziali del mio quartiere come in un labirinto accogliente e silenzioso. Si sentono i rumori delle persone senza vederle, non ci sono negozi qui ma ogni tanto sbirciando nei portoni intravedi cortili dove le persone hanno ammucchiato su lunghi tavolacci le cose che non usano più per barattarle con quelle che gli abitanti di altri cortili portano con sé: usare la moneta per questo tipo di commerci è considerato poco rispettoso.

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(Nuovi frammenti dal nastro della Truut, estratto primo) A volte le nuvole passavano davanti al sole, oscurando il terreno. Dall’alto e da lontano, dovevano sembrare come i corpi di giganteschi pesci preistorici. Ma per il papavero che ci era seduto in mezzo, era difficile e anzi quasi impossibile divinare la fine dell’ombra.

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…intrufolata birichina- e spietata- mente come solo un indio sa fare tra le viscere degli adorati fantasmi che usavano durante il sonno trasformare i corpi di tutti quei maschi puzzolenti e infoiati, mutilandoli di gambe e braccia per restituirgliele come aveva fatto Dio nell’Eden in forma di donna, e nel calore più rovente e cupo del sogno era improvvisamente il respiro cupo di Mhanta e i suoi occhi deficienti e celestiali ormai irreparabilmente incastonati nelle orbite cieche della spodestata adorata, Mhanta intrufolata con crudele grazia amazzonica nel groviglio di liane del sogno, Mhanta coperta di tatuaggi pelli di topo e conchiglie, bruna come una statuina di cento e centomila anni fa, Cento e centomila, le canticchiava Valmarana prima di addormentarsi premendosela contro le costole nude, i tatuaggi di lei che coagulavano in carne e poi in calore nel suo sonno, i mila e mila e mila anni come piccole collane di vetrini e di diamanti appese alla sua lingua, ai suoi seni e ai suoi fianchi di paleovergine…

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Era da sempre, nell’Accademia, stato motivo di rammarico se non di vera e propria costernazione il fatto che gli studiosi delle due maggiori glorie della letteratura italiana, ossia Dante e Collodi, non avessero mai trovato di cui ridere di concerto. Deplorevole carenza cui suo malgrado accorse a porre rimedio l’insostituibile Sommariva col suo commento al tredicesimo dell’Inferno, che è di coloro ch’ebbero contra sé medesimi violenta mano. Nel luogo in cui Dante viene sadicamente invitato dal suo duca a strappare un ramo da una delle piante in cui le anime dei suicidi si sono trasformati, e strappatolo vede uscire del sangue dal punto rotto della pianta, e col sangue le parole dell’anima dannata, Sommariva credette di riconoscere un contatto con la prima comparsa di Pinocchio, che com’è noto pronuncia le sue prime parole dopo che mastro Ciliegia gli dà un primo colpo con la sua ascia. E fin qui non poi molto di che (ma nessuno si era comunque mai azzardato a tanto, perbacco, scherza coi fanti e lascia stare i Danti, aveva subito celiato a mezza voce un bello spirito durante la prima e unica conferenza che Sommariva potè tenere sul tema); senonché poi sulla base del capitolo XV del romanzo, in cui il burattino viene impiccato ad una quercia dal Gatto e la Volpe, Sommariva rincarò con l’ardore quasi sacro che gli abbagli usano procurare anche ai più avvertiti e scaltri, figurarsi poi ai cuoricini fiduciosi come il Nostro, Sommariva dicevamo rincarò, e sostenne che il ceppo di cui è fatto Pinocchio veniva in realtà da un albero del bosco dei suicidi che da neun sentiero era segnato.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: Ah, le giornate di sole al teatrino delle Malebranche, tra fischi di sole sfiatati, sospiri catarrosi di fisarmoniche fradice, zuccate di legno tra burattino e burattino, e accoccolata dietro al finto palcoscenico del teatrino, e la mia piccola scimmietta con gli occhi che parevano essere stati verniciati su biglie di vetro come quelli di chi sognavi da bambino (uscivano lunghi e colorati da un vasetto di conchiglie di tua nonna, e restavano sempre nello stesso angolo, all’ingresso del corridoio, poco prima della tenda color vomito, facendoti ridere o disperare di poter mai più di nuovo essere felice. Oggi il balsamo contro quei tagli e contro le nuove cicatrici funziona diversamente. Il tuo cuore è stritolato dalla piccola manina della Truut, e la pomata Sade non funziona nel modo miracoloso che ti sembra di ricordare ovvero che ti era stato pubblicizzato, perché la nostra memoria e la pubblicità sono ormai sposate per sempre, come nel mai scritto Dialogo tra il Ricordo e la Propaganda del mai vissuto Giacomo Leopardi.

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[Dagli atti del processo per la scomunica a divinis di don Giorgio Giorgio: copia delle pagine amazzoniche del diario del sacerdote, pagine che per motivi che saranno immediatamente chiari a ciascuno sono state battezzate scherzosamente Visio Georgij. Estratto primo] Eravamo dentro una baracca di legno in poco più di dieci, con due indios il nome della tribù dei quali non ricordo o non voglio ricordare. Parlavano in brasiliano. La cerimonia è stata preceduta da un rito che i due – un ragazzo e una ragazza incoronati di piume di uccello, forse di uccello lira – chiamavano baptismo e che consiste nell’irrorare la lingua e le labbra del baptizado con un succo molto liquido ottenuto da una qualche pianta mescolata con del peperoncino. Dovevamo tenere la lingua fuori mentre l’indio ci cospargeva di liquido con un fiocco di cotone messo sul becco di un finto uccello fatto di piume colorate. L’energia del cuore e del canto. Durante l’operazione l’indio cantava delle preghiere dopodiché i baptizadi dovevano tenere fuori la lingua secernendo saliva dentro una vaschetta di plastica per cinque minuti. L’operazione è stata compiuta due volte, dopodiché è cominciata le cerimonia vera e propria.

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MILOŠ: La gente del mio quartiere scherza sul fatto che le cose qui cambiano viaggiano di casa in casa più delle persone, e ci sono oggetti che ormai sono piccoli romanzi scritti nell’aleatorio codice cuneiforme dei graffi e delle tacche lasciate a volte anche da più di dieci proprietari, tanto che ad alcuni vecchi del quartiere capita di riprendersi una tabacchiera, una parapreistorica macchina fotografica usa e getta, un paio di guanti di cui si erano liberati anni prima, o un vecchio nastro magnetico con una voce registrata che racconta la fiaba di un papavero vagabondo che ormai qui chi un pezzetto chi un altro conosciamo un po’ tutti.

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(N.f.n.T., estratto secondo) Due cani stavano a guardia della piccola mano d’oro semisepolta. Erano talmente neri che Zampadileone ne poteva vedere con chiarezza solo i denti, e la gola rosso scuro. Abbaiavano e nello stesso tempo guaivano, come se soffrissero della loro stessa rabbia (gli occhi tristi della tigre illustrata). Ogni volta che Zampadileone provava ad avvicinarsi, i cani gli mostravano i denti. Spaventato dai due cani, Zampadileone si stava già voltando per abbandonare l’impresa, quando una voce gli disse “non mi abbandonare qui, Artigliofiore”. A Zampadileone piacque il nome Artigliofiore (o era Fiorartiglio? Chissà… i papaveri hanno una pessima memoria per le parole), perciò decise di restare. Si fermò nel punto più vicino alla manina ma abbastanza lontano dai cani, e rimase lì a pensare a come avrebbe potuto fare per aiutare la manina a liberarsi dai cani. La notte Zampadileone chiudeva la corolla e la riapriva quando spuntava il sole, ma non gli veniva mai in mente nulla. Poi successe una cosa strana: le gambe rachitiche e sottili di Zampadileone, così simili a quelle degli insetti, iniziarono a sprofondare nella terra, e sottoterra si trasformarono, come righe d’acqua che continuano a dividersi, e più si dividevano più la loro forza aumentava. Erano come serpentitalpa, che vedono anche sottoterra. Un suono come una corda di chitarra, il ronzio sotterraneo di una vespa. Il grillotalpa. Zampadileone allungò la radice più forte e più lunga, e riuscì a passare sotto i cani e arrivare fino alla manina d’oro. (Quanto ci era voluto? Un’ora, una settimana, un anno? Forse nel frattempo i due cani erano morti e erano stati sostituiti da altri due cani? Non importa, i fiori hanno tutto il tempo del mondo).

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…e quando camminavano assieme lui così allampanato e sbisciabovante sembrava un esploratore tornato dai tropici con una delle ultime autentiche cacciatrici di teste, Mhanta dagli occhi azzurri e i capelli nerissimi e appiccicosi di fumo e delle ore ma cosa vuoi poi che capisca delle ore chi è abituato a misurare il tempo con le nuvole e i denti dei coccodrilli e con i fiori che cadono nel fiume delle ore che passava a letto con Valmarana, occhi che sempre sembravano ammutoliti di stupore, e una bocca profumata di muschio che non si apriva mai se non per mostrare a suo marito le sottilissime sinuose e roventi caverne della sua gola quando la notte lui apriva le finestre perché la luna illuminasse i suoi tatuaggi che confondevano le forme del suo corpo in una corrosa geografia di racconti e ricordi…

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: Le cicatrici e i tagli non spariscono più ma disegnano viceversa sul tuo corpo dei contorni che sempre più ricordano quelli di una gabbia. Sta a te riconoscere invece le linee di una mappa, del delta di un fiume… la notte mordendo la gola di figli invisibili ti ripeti queste corbellerie, residui di religioni come lo sono le pelli dei ragni quando fanno la muta, che restano appese ai muri come spettri o spauracchi. Il segreto è farne marionette, prendere le corbellerie e dar loro i lustrini delle pelli dei Malebranche. Oggi il balsamo Sade non guarisce più le ferite ma sembra piuttosto metterne in risalto i contorni, come una decorazione di guerra.

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[Visio Georgij, estratto secondo] Ci hanno versato in dei misurini di plastica un liquido scuro e viscoso, di sapore piacevole, vegetale e dolcino come un qualcosa di marcescente, con forse note di liquirizia sempre che non sia il colore ad indurre la sensazione. La vaschetta ora serviva alle persone che dovessero vomitare. Due ragazzi – che avevo incontrato nel bosco arrivando alla casa, come me brevemente perduti in un sentiero di castagni – avevano con sé i loro personali secchielli, vecchi contenitori di yogurt. Alcuni ragazzi russi chiedevano ogni volta che il bicchiere fosse riempito fino all’orlo. Mi avevano fatto sistemare nell’angolo a sinistra dell’“altare” (un letto-casson) su cui erano accoccolati i due indios. Un golfino e una giacca di pelle arrotolati mi facevano da cuscino. Indossavo dei jeans e una camicia. Tutti gli altri si erano portati degli abiti variamente simili a pigiami. Per la mia posizione, sono stato il primo a ricevere il baptismo e la bevanda. Il primo bicchierino non mi ha fatto nulla. Gli indios cantavano nenie molto ripetitive, a volte con una chitarra e due semplici accordi. Il secondo bicchiere era forse una versione differentemente fermentata, ed era leggermente frizzante. Dopo forse un paio d’ore, ha cominciato a fare effetto. Seguivo il canto dell’india mezzo imbambolato, battendo piano il tempo contro le assi di legno della baracca. Il canto era ritmico ma gli accenti si spostavano ad ogni strofa. Quando lo spostamento mi portava sull’orlo della nausea, mi fermavo. Spesso la fine del canto arrivava poco dopo. Lungo le travi del soffitto hanno cominciato a pullulare grappoli di piccoli fosfeni sferici gialli e rossi.

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(N.f.n.T., estratto secondo) La strega farfalla. Ali molli come foglie di tabacco, ricoperte di grani di muffa nera e luccicante che bruciano il terreno dove cadono. Il papavero decise di seguire la cenere che la farfalla lasciava dietro di sé, per trovarla e ucciderla.

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Il burattino, in altre parole, sarebbe già stato in passato una persona reale: un suicida trasformato per punizione in albero, e del quale un ceppo chissà come sarebbe riuscito a sfuggire alle grinfie delle Arpie e di tutti i diavoli: e il Gatto e la Volpe due emissari celesti scesi a rimettere a posto le cose: e la Bambina coi capelli turchini un qualche tipo di demone reietto in vena di dispetti a questa e quella metà del creato, o un’anima di strega riuscita per incantesimo a sfuggire ai cerchi infernali (“Quando Pinocchio la incontra, subito prima di essere impiccato, non si presenta lei forse come una morta? Che è poi come quando Virgilio appare la prima volta a Dante, non omo omo già fui” si sbracciava e s’impappinava Sommariva davanti agli allibiti dantisti): e il bambino vero che Pinocchio si ritrova a diventare è in realtà un distillato d’inferno o di chissà cosa ma di sicuro un grattacapo quando si arriverà al giorno del giudizio e i morti si dovranno riprendere il loro corpo: ahi ahi, e ora dove lo mandiamo Pinocchio? E sarebbe, il Pinocchio di carne, anche un germoglio di morte, per via della sua genealogia: e insomma un’anima d’inferno tornata sulla terra e un inopportuno sgambetto nell’ingranaggio che si voleva perfetto della fine del mondo: un sabotatore di apocalissi.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: L’appartamento dove vendevano quella buonissima ed economica marijuana era in una posizione insolita, non facile da raggiungere dalle scale del palazzo che stai perlustrando – forse occorreva scavalcare la ringhiera e sporgersi sopra il pozzo delle scale, come uno degli inquilini dei piani più alti, un tizio che viveva con sua madre e che spesso si sentiva urlare, e che un giorno era uscito sul giroscale del palazzo urlando nei raggi di sole che fiottavano dalle finestre e gli cancellavano mezza faccia, e poi avevamo cioè dato che tu non eri ancora nata i tuoi genitori avevano sentito un tonfo dal fondo del giroscale, e come tutti gli altri inquilini si erano affacciati sulla ringhiera, simili agli antichi studenti di medicina nei teatri anatomici, e avevano guardato in giù per vedere se l’uomo non si fosse ucciso lasciandosi cadere giù per il pozzo del giroscale.

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MILOŠ: Sull’asfalto c’è un sonaglio tibetano: sembrerebbe nient’altro che un vecchio giocattolo per neonati (né è detto non venga usato anche così) ma si dà il caso che io sappia di cosa si tratta in realtà. È di legno e la sua forma ricorda quella della trottola jugoslava che la mamma mi aveva regalato un’estate di cinque o sei anni fa. Dev’essere caduto a qualcuno che presto uscirà a cercarlo, proprio nella casa accanto si vedono le tende bianche da cerimonia protendersi lentamente dalle finestre, occultando gli abitanti al mio sguardo e io al loro.

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SARAHS: Bevevamo, a casa del cosiddetto Pirata Ebreo (una dolce compagnia –una casa wunderkammer che era il suo negozio e la sua bottega –“Sei Dio?” gli chiedevano i bambini che a volte passando si fermavano a sbirciare nella sua bottega – seduti a un tavolo ovale affollato di vecchie signore felici, ragazze che preparavano da mangiare – in cucina sfrigolavano teglie luccicanti di burro e profumate di mela) un vino rosa aspretto in bicchieri bassi rotondi di un colore molto chiaro, che non avevo bevuto mai – teniamo però conto che chi vi parla, cioè io, ha un passato di alcolismo violento e molesto anche nei confronti dei propri famigliari, come non mancava mai di sottolineare il mio confessore quando ancora ne avevo uno.

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In questa storia Gianni Sherwood mi dice di avere dei figli, dice sempre “I miei figli” quando racconta della Regina della Notte che gli entra nella gola per ucciderlo, dice “I miei figli” ma mi parla sempre e soltanto di una bambina con la pelle bianchissima che a volte viene a trovarlo anche qui, pallida come un camice e con indosso la giacca di un frac quattro volte più grande di lei, Gianni Sherwood la vede strisciare verso di lui come l’ombra di una rondine per dargli un bacino, dice Gianni Sherwood, un bacino al suo povero papà, e ogni volta si mettono a ridere perché la bambina col frac non fa in tempo a dargli quel cazzo di bacino che subito si tira indietro e dice che il suo papà ha le guance spinose come un riccio, come un negozio di stuzzicadenti, come il peperoncino, come le zampine di un gatto, ogni volta una cosa diversa, dice Gianni Sherwood con gli occhi sempre più lucidi, e non fosse per il nuovo direttore e le sue manie lo prenderei a bastonate fino a fargli sputare i denti, almeno così avrebbe un buon motivo per piangere, ma il direttore che è il più malato di tutti qui dentro e forse è anche giusto così dice che no che ci vuole empatia e così ma che brava bambina dico a Gianni Sherwood, che brava figlia che hai ma Gianni Sherwood sicuro che non ci casca, quella di assecondare i matti è la più grande scemenza, non ci cascano mai, non ne ho mai visto uno cascarci, ma ti guardano come se fossi ancora più rimbecillito di loro, e anche Gianni Sherwood mi fissa immobile e come deluso mentre gli dico e ripeto che quella stronza di una sua bambina è proprio una brava bambina, mi fissa come se stesse guardando un paio di scarpe troppo piccole per lui, mi fissa poi sospira e poi di solito si mette a piangere.

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…quasi muta seguiva Valmarana nelle sue passeggiate, quasi sepolta nei suoi fianchi, il naso tra le sue costole come un bambino che non vuole guardarti in faccia, si faceva guidare dal marito sbirciando solo di quando in quando quello che c’era intorno, e i due sposi quando erano così sembravano una cosa sola, un essere scaleno e a quattro gambe non mai visto prima ma, per una qualche imperscrutabile legge estetica depositata nel cervello umano prima che diventasse umano, immediatamente accettato come tale dall’occhio, come i conquistadores a cavallo che ai primi nativi americani che li videro apparvero come centauri, il necessario complemento l’uno dell’altra, volendo girare la frittata su un côté più romantico, tanto che avresti creduto si fossero sposati e tutto il resto con l’unico sublime scopo di percorrere la terra e passeggiare per essa uno accanto all’altra…

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(N.f.n.T., estratto secondo, continuazione) Zampadileone sentì che qualcosa si era afferrato alla radice, e tirò; dietro i musi dei cani, vide che la manina d’oro sprofondava sottoterra come quella di un annegato. Zampadileone continuò a tirare, “Ma piano!” diceva sottovoce la stessa vocina che l’aveva chiamato la prima volta, e subito Zampadileone rallentò, perché aveva paura di spezzare un braccio alla madonnina sepolta, e di svegliare i cani con i lamenti di lei. “Così va bene Artigliofiore”, disse contenta la vocina; era come una fiammella che sbuffa dalla terra; i fiori hanno tutto il tempo del mondo, e Zampadileone per essere sicuro di non far soffrire la creatura d’oro impiegò più di un anno per farla passare sotto i cani.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: Nella penombra del pianerottolo interrato dove le scale finivano si riconosceva una forma allungata, ma era solo un tappeto, che l’uomo aveva lanciato giù dal suo piano per spaventare sua madre.

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[Visio Georgij, estratto terzo] Le bottiglie d’acqua che ci eravamo portati io e Luigj, che era accanto a me, sono all’improvviso apparse altrettanto belle che torri orientali, la trasparenza offuscata in un colore brunito, la loro distanza e la loro mole incalcolabili. Dall’altro lato dell’altare ho visto salire una fiammata all’alzarsi di una delle donne. Il tetto della baracca mi è di colpo apparso quello di un vastissimo e altissimo salone, quasi io fossi rimpicciolito, le assi ora percorse da brividi versicolori. Mi sono voltato verso le assi contro cui mi ero accoccolato. Vibravano di colori e sorridevano amiche. Riflessi iridescenti strisciavano ora ovunque coagulati in centopiedi o serpenti. Chiudendo gli occhi si distendevano davanti a me caverne di tentacoli con occhi di pavone, denti demoniaci e tenebre di luce, amiche. Gli indios cantavano, e io tenevo il ritmo contro il muro come un battito di cuore. L’inferno stesso era amico. Satana era precipitato nell’abisso per poter essere quello che più di ogni altro conoscesse l’infinita altezza di Dio. Solo dal punto più basso del cosmo, e solo con una vista quasi perfettissima puoi davvero vedere l’altezza di Dio.

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SARAHS: Cosa avrei raccontato all’architetto? Ero scesa lungo la stradina che va al prato, ricordando a malapena la strada tra il grigiore marrone e il porfido rosso delle case, lungo minuscole gradinate incaiche, un paesino che era un incrocio tra Nizza e Machu Picchu, cercando di trovare un punto di riferimento – poi di fronte alle targhe indecifrabili dei negozi ebraici – ma era forse un altro alfabeto ancora quello che vedevo inciso sulla pietra o in targhe di rame brunite – avevo ricordato l’ufficio postale, il moderno, italiano ufficio postale accanto a cui eravamo: sì, ecco, li avrei ritrovati facilmente, l’architetto e se erano con lui i due pescatori, ma cosa avrei detto al’architetto? I caproni correvano, il porto era invisibile, la città enorme… ero a Gerusalemme? Nella Gerusalemme difratta delle comunità e dei ghetti ebraici di ogni dove, la sola vera Gerusalemme. Un negozio/laboratorio, la casa del Pirata Ebreo –– ancora non lo sapevo quale delle due: erano comunque appese marionette e altra chincaglieria. Entrai.

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MILOŠ: Così ci capita di voler riprendere una cosa che anni fa era stata nostra solo per poterne decifrare l’usura, ricostruirne la genealogia delle sue peregrinazioni nelle case o anche solo nei cortili del quartiere, e intorno a certi oggetti ossia intorno a certi segni lasciati sugli oggetti sono fioriti racconti d’amore e di vendetta forse immaginari ma quale racconto alla fine non lo è, un epistolario sumero muto ma non meno incandescente tra amanti o nemici mortali talmente segreti da non aver nemmeno mai saputo l’uno dell’esistenza dell’altro: e le cui mani però in ugual modo hanno piegato e sottolineato le pagine di un certo libro, il cui sangue si è mescolato per caso sulla lama di uno stesso coltello, e la corda con cui uno si è impiccato ora è arrotolata nel baule di un altro, in attesa.

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In cauda venenum: Sommariva aveva serbata per ultima una postilla di non poco conto: e se Pinocchio, aveva chiesto Sommariva con aria poirottesca arricciandosi persino dei baffi inesistenti ma perfettamente impomatati, e se Pinocchio fosse ciò che era rimasto all’inferno dell’anima di Catone? Insomma non si può non ammettere che Catone è un problema nella burocrazia celeste: per quali mai raccomandazioni, per quali maneggi un suicida si ritrova nell’invidia- e inamovi- bile posizione di concierge del Purgatorio? Il modo stesso in cui il veglio apostrofa i due appena usciti a riveder le stelle, in qualche modo lo tradisce: chi potrebbe mai anche solo pensare che le leggi del cielo possano essersi rotte, se non uno che già sa che magari non si possono rompere ma ecco forzare un tantino sì? (“No no, le hai proprio rotte” aveva bofonchiato qui più d’uno, in uno di quei casi di poligenesi del lazzo molto meno infrequenti di quanto si potrebbe credere: ma questa era stata servita sul proverbiale piatto d’argento.)

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MILOŠ: Prendo in mano il sonaglio e continuo a camminare. Dalla casa sento una voce che forse mi chiama. Mi fermerò solo se qualcuno comincerà a rincorrermi: fingo di non sentire nulla.

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[Visio Georgij, estratto quarto] Esiste una linea di luce attraverso la quale l’occhio perfettissimo di Satana, risalendo lungo miriadi di strati infernali e celesti, può intravederLo, insieme agli altri angeli. Quella linea è solo per Satana, nel cuore stesso dell’inferno. Gli scorpioni e gli insetti e tutte le creature che strisciano, grovigli di ragni di tentacoli rendevano il mio cervello un prisma iridescente che ruotava mollemente contro le pareti del mio cranio. Cantavo con gli indios, cercando di intonare la nota più bassa, la nota dell’inferno senza la quale il cosmo non sarebbe completo, così quel sottile raggio di luce che dal cuore del più alto dei cieli piove fino al fondo dell’inferno è ciò che salva questo mondo dalla distruzione, e dicono che se anche per un solo secondo quel raggio fosse interrotto, ad esempio dal breve volo di una rondine che passasse proprio in quel punto, il cielo e l’inferno si separerebbero per sempre, e cadrebbero le impalcature di cartapesta che usiamo chiamare Bene e Male. Davanti all’indio un vaso di rose sembrava la testa bifronte di un alieno di corallo bianco e blu. Dietro i miei occhi chiusi si dilatavano caverne che potevo vedere a 360 gradi senza ruotare la testa perché dietro le palpebre l’occhio vede tutto e nulla gli è di ostacolo.

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(N.f.n.T., estratto secondo, continuazione) Un giorno, quando ormai si era quasi dimenticato del suo viaggio e della donnina d’oro e anzi quasi quasi stava cominciando ad affezionarsi ai due cani, Zampadileone sentì di nuovo la vocina, ma questa volta così forte che la sentirono persino i cani, che iniziarono ad abbaiare senza nemmeno capire a cosa stessero abbaiando di preciso. “Attaccata così alle tue radici sai cosa sembro? Sembro proprio una patata!” gridò la vocina ridendo, poi Zampadileone sentì come un brivido, la terra vicino a lui si spaccò; si poteva vedere una piccola testolina d’oro; i cani, scoperto l’inganno, con i denti che luccicavano si lanciarono contro Zampadileone, ma la testolina d’oro disse “Tu sei una bella vecchietta perché hai la testa grande, e tu sei una bella vecchietta perché hai la testa piccola”; subito i due cani si piegarono sulle zampe, come davanti al padrone. Poi fecero come per mettersi seduti, gli occhi cambiarono colore, la pelliccia scivolò via lasciando comparire delle vesti, e venne fuori che i due cani erano sul serio due vecchiette, una con la testa grande e una con la testa piccola. “Se non vuoi invecchiare, impicca tutti quelli più giovani di te” [Motto/Nonsense dei Nerini] disse il primo cane; “Chi mi parla alle spalle, parla alle mie chiappe” disse il secondo. La madonnina della cenere (Zampadileone ha visto la sua mano dopo aver acceso un fuoco; il fuoco ha attirato i due cani, all’inizio piccole talpe che escono mugolando dalla terra poi, a fuoco spento e con la mano d’oro che esce dalla cenere, voraci e aggressivi; Zampadileone ha acceso il fuoco seguendo le istruzioni disegnate sulla tovaglia di una taverna) aveva ancora una mano sottoterra; tirò forte e strappò le radici di Zampadileone, poi lo lasciò andare.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: Il teatrino si era manifestato la prima volta in fondo al corridoio una notte in cui quattro o cinque pipistrelli si erano arrampicati su per la tenda color vomito all’inizio del lungo corridoio della casa delle vacanze di tua madre, casa che ora era diventata la dimora dei nonni, i pipistrelli erano strisciati su per la tenda color vomito, nidificandovi e trasformandola nel sipario del Teatrino di Malebranche.

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(“Bene!”, strilla il nuovo direttore quando gli parlo di come piange Gianni Sherwood, e salta in piedi da seduto che era, e va su e giù per lo studiolo finché tutti e due non abbiamo il mal di mare a cercare di guardarci negli occhi tra quel va e vieni, “Bene! Lacrime! Lacrime! Lacrime e ancora lacrime! Meglio di mille pastiglie, glielo dico io! Che pianga, che pianga e torni in sé,” e cosa ci torna a fare vorrei dirgli io, poi chi lo viene a trovare la notte, se lo mette lei direttore un frac quattro volte più grande e va a dargli il bacino, perché io no di certo direttore, così vorrei dirgli ma poi mi dico che l’empatia vale anche per lui anzi soprattutto per lui perciò faccio di sì con la testa e mi pinzo il naso come se quasi quasi stessi anch’io per piangere)

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…e le poche volte che parlava con la voce soave di una lupa ferita che si lamenta nella sua tana erano quasi tutte parole inventate che solo lei e Valmarana capivano e che ogni volta lo mettevano di un umore indescrivibile sempre che non si possano considerare una descrizione gli aghi di luce che fiorivano a perforargli le pupille e abbandonandolo così, cieco e felice, parole che a chiunque altro sembravano cretinate da ritardati, come sbisciaboante, e che erano come nuovi serpenti usciti dalla pelle morta della vecchie parole della tribù di Mhanta, parole che a furia di amore e di passeggiate la donna aveva finito per dimenticare. Restavano ancora appese in qualche angolo della disperatissima zucca di Valmarana, come altri hanno foto ricordo incorniciate d’argento sul pianoforte…

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Ossia: Catone viene promosso al desk purgatoriale, e sia: ma ora della pianta in cui Catone era intrappolato che si fa? Ahi ahi, e qui nessuno ci ha pensato (“Nessuno!…” sibilava Sommariva facendo fischiare il microfono, deciso foss’anche a morire sul rogo per ciò che quel nessuno implicava…): che si fa di questa pianta? Lasciarla qui con le altre non si può: e mica la possiamo mettere in un vaso, dove lo metti poi un vaso con una pianta quaggiù nell’aria persa… Bah: bah (qui Sommariva si sdoppiava e triplicava in una specie di immaginario consulto tra i diavoli lasciati a sciogliere quel “glitch” <sic: e piuttosto sorprendentemente, almeno per uno come il Nostro> celeste): bah: e che dobbiamo fare: sai che c’è, facciamone della legna e buonanotte. E l’albero, lui, zitto e mosca, buono buono: altroché! E quando ti ricapita di scappare dall’inferno? Ché a quanto pare tra le radici della pianta era rimasta impigliata la parte di anima di Catone votata alla morte: e quella era l’anima che mastro Ciliegia aveva sentito parlare, un distillato degli impulsi suicidi di Catone, un distillato giovanissimo dato che Catone a quegli impulsi aveva dato sangue in vita solo una volta, e quindi quella parte della sua anima non si era potuta pienamente sviluppare, così come insegna l’esempio di Jekyll… Ma qui Sommariva si era infine accorto di stare parlando ad una sala ormai vuota. “Mi riservo comunque di concludere il discorso alla pubblicazione degli atti,” borbottò giusto per darsi un minimo di tono. Atti che naturalmente non videro mai la luce.

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(N.f.n.T., estratto terzo) “Torna a casa” gli disse il vecchione dopo aver preso i due cani con sé, “torna a casa e fai un buco sotto al tuo letto; lì troverai cento volte tanto ciò che hai donato”. Martellino [nota per la lettrice e per il lettore che si sono distratti, magari perché nel frattempo sono invecchiati insieme: si tratta di una laconica e non troppo acuta marionetta stregata con un mantice di fisarmonica al posto del torso] fece un rumore forsennato, come una tempesta di grandine intrappolata in una cassa da morto, mentre il vecchione si trasformava in una specie di gigantesco leone di fuoco / leone giocattolo in fiamme, ma Zampadileone rise e disse che Dio gli aveva fatto vedere che la sua promessa si sarebbe avverata, perché davanti a lui che non era che un artigliofiore il Vecchione era diventato più accecante a spaventoso di cento leoni. Zampadileone tornò a casa, chiuse tutte le finestre perché nessuno vedesse cosa stava facendo, si infilò sotto il letto e incominciò a scavare. Scava e scava, alla fine trovò qualcosa di liscio: uno scrigno (una scatoletta, per la verità, ma dato che era sottoterra Zampadileone dice sempre che era uno scrigno); non era molto grande, ma Zampadileone pensò che comunque poteva ben contenere un centinaio di monete.

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MILOŠ: L’interno dei sonagli tibetani, e questo naturalmente non fa eccezione, è scavato da una sottile rete di gallerie – i più antichi hanno gallerie scavate da tarli, meno pratiche da un punto di vista sonoro ma più efficaci per la preghiera, almeno così dicono i più consumati pregatori – rivestite con arte sopraffina e inaudita da una sottilissima lamina di metallo dentro la quale vengono fatti rotolare minuscoli grani di sabbia.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: Il primo spettacolo del teatrino aveva preso il via con il sipario color vomito ancora abbassato, un debole crocchiare di testoline e mani di legno come una fanfara di nacchere lontane, ma era naturalmente un tranello: è quando il pubblico (ovvero la vittima) del Teatrino alza il sipario o anche solamente ci sbircia sotto, che il teatrino propriamente si installa ovvero, secondo altri preferiscono, nidifica.

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[Visio Georgij, estratto quinto] Dentro di me una tenebra infinita mi parlava amica. I diavoli si prostravano e allungavano davanti a me, sbranando neonati, incrudelendo sopra l’innocente fiducia di bambini, ma ogni strato del cosmo, era amico. Cantavo una sorta di rauco mormorio, e scendevano pareti babiloniche mentre i tentacoli aprivano denti di coccodrillo, poi dal fondo della tenebra l’indio ha cominciato a cantare una canzonetta di ubriachi che ridono, e l’inferno si è dissolto in un salone in festa come nel dia dos muertos, il filtro demoniaco un comune e gioviale beone pronto alla risata e all’abbraccio con tanto di gran pacca sulla spalla e bacione baffuto sulle guanciotte, ah ah ah ah ah ah ah! Cantavo le risate insieme all’indio e la morte con il suo tradizionale abito da scheletro ballava con me, i demoni e i tentacoli si srotolavano in lunghissimi stendardi della Libera Repubblica Austroamazzonica di Waltzwaltz e la immensa esilarante stupidità di tutti gli uomini di ogni tempo, la cretineria infinita dell’unirsi insieme in nazioni e del convincersi di essere popoli mi si rivelava finalmente come nient’altro che un gigantesco pretesto di baldoria e montagne russe.

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E però, cazzo! No: no: no e poi no. (Questo è Sommariva, che tornato a casa se na va su e giù per il suo studio come un leone fresco di cattura nella gabbia dello zoo) No. Meglio sarebbe stato per il burattino morire appeso alla quercia e tornare a ricongiungersi all’albero maledetto del girone infernale da cui era stato sottratto: ma tant’è, indietro non si può tornare, e allora… e allora sai che ti faccio?

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SARAHS: Una marionetta piuttosto grande, un Pulcinella con un abito di colore francescano. Non vedevi nulla del volto, interamente nascosto nel tessuto ruvido e sicuro. C’era la maschera, e per occhi due gocce di vetro che davano al pupazzo una dolcezza da cane. Il corpo era amorfo, quasi fosse privo di gambe. Le braccia di lunghezza diversa, le mani indefinite ma non nascoste nel sacco, forse fasci di rametti o piccoli artigli inoffensivi, braccia pendule – il tessuto sopra la sfera che faceva da testa si piegava un po’ sulla faccia e sulla nuca, dando l’impressione vivida del berretto di Pulcinella e di una sorta di linea del naso fermata da una maschera. Un’opera di pregio. Altre persone si erano intanto addossate a me, turisti felici. Controllavo le tasche, dovevo stare attenta che non mi rubassero nulla, specialmente il telefono e le carte, le banconote… “This is no good” borbottai. Una ragazza mi chiese in inglese “What’s the meaning of that…” io risposi in inglese che non sapevo, come lei non ero di qui (mi chiedo se il gruppo di persone non fosse un gruppo di sognatori sparsi per il mondo… devo procurarmi quel sloftware per verificare chi nel mondo una certa notte ha fatto il tuo stesso sogno: però ogni volta devi star lì a trascrivere comunichi gli elementi del sogno, poi il software ti connette con chi ha fatto un sogno simile al tuo… o non è così? quali nuove scoperte potrei fare? quali nuovi incontri? quali imbrogli? quali lacrime?) e lei subito si scusò “I’m sorry, it was really disrespectful from me to ask you that”; tutti erano cordiali e io ero felice di potere usare il mio inglese. Poi venne uno degli artigiani, giovane, bel teatrante guascone, e prese proprio il Pulcinella Francescano. I prezzi erano scritti col pennino su vecchie etichette adesive in cornici ottocentesche, a deboli fronzoli. Erano ragionevoli ma non vedevo quello del Pulcinella, che era la marionetta più grande. Lui ne parlava (in francese?) con toni caricaturali da Spaccamonti; chi voleva il Pulcinella? Lo prenderò io, mi dissi, e nel tempo che ci misi a pensarlo una ragazzina silenziosa con spessi capelli corti, pallore nordico, niente affatto malsano, bellissima, una ragazzina con labbra carnose e sguardo perduto di chi legge troppo, fece un passo avanti: a lei andò il Pulcinella.

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(N.f.n.T., estratto terzo, continuazione) “Pater noster Pater noster Pater noster…” questa era la voce di Martellino che cantava la sua preghiera come un disco rotto. Zampadileone prese in mano lo scrigno; non si riusciva a capire se fosse di legno o di pietra, o di metallo; Zampadileone pensò che per capirlo sarebbe stato sufficiente buttare lo scrigno nel fuoco; si rigirò la scatola tra le mani; vide che sul coperchio c’erano dei segni; non erano dei veri e propri segni per la verità, era più come se per caso le venature di quel legno (allora doveva proprio essere legno) avessero preso una forma curiosa, simile a un segno ma senza essere un segno.

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MILOŠ: Non appena lo si prende in mano, dal sonaglio esce un sospiro sonoro continuo, come una fanfara lontana, non importa quanto fermo lo si tenga: con tale arte sono scavate le gallerie che, affinché i grani inizino a scivolare e sibilare lungo i sottilissimi corridoi metallici dentro il corpo del sonaglio, è sufficiente il moto tenuissimo del sangue nel palmo della mano.

A chi non piace rubare?

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SARAHS: L’artigiano/guida ci portò verso l’ingresso, e cominciammo a indovinare il vasto e forse sanificato locale della bottega vera e propria. Parlava della storia della bottega (forse un’antica stalla o una cantina? come quel vecchissimo e vastissimo negozio di pietre nel centro del rione texano di Briwen); avevo indovinato vecchi carillon, scrigni d’avorio o legno di fiume scuro e levigatissimo, telai di ferro ricurvi, scrigni un po’ allargati verso l’alto, senza angoli, vagamente liberty, di un liberty bucaniere ecco. Che avevo incontrato l’Ebreo Bucaniere, ecco cosa avrei detto all’architetto: ecco perché l’avevo abbandonato. Era triste, in questo momento? Avevo spento il telefono e non l’avrei acceso. C’erano anche, forse anzi erano già lì, i due pescatori.

Cercavo di capire i prezzi dei carillon. L’ebreo bucaniere tolse da una parete un grande pannello di vecchie assi tarlate e scavate, un oggetto come avrebbero potuto farlo gli artigiani giù a Newton: credo una sorta di radio verticale, un modello antichissimo, militare? un prototipo settecentesco? Uno stratificarsi di strumenti nel corso di una storia centenaria del telaio? Certo un oggetto di enorme valore, che l’Ebreo Bucaniere mostrava a una signora venuta espressamente per vederlo.

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Per risolvere il nodo pinoccatoniano che non gli dava pace, Sommariva si dedicò per un certo tempo ad elaborare una Continuazione del romanzo eretico (eretico, beninteso, verso l’inferno) di Collodi. Ne sopravvive solo qualche abborracciato schizzo, che offriamo qui alla lettrice e al lettore perché ne traggano diletto, o ammaestramento, o quello che pare a loro.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: L’entrata dell’appartamento, come cerchi di ricordare salendo un affastellarsi caotico di scale, potrebbe persino trovarsi nell’intercapedine tra un muro e l’altro, e l’ingresso avere l’apparenza di un portavivande, di un quadro o di uno specchio, nella migliore tradizione del Teatrino e dei suoi trucchetti da quattro soldi. La notte si potevano sentire le ali di cuoio dei burattini sbatacchiare contro gli scatoloni e contro le vecchie lampade ammucchiate dietro la tenda color vomito in cima al lungo corridoio, le ali sbatacchiavano trasportando i burattini su e giù per l’angusto spazio dietro il sipario del teatrino, a caccia di farfalle e cicale notturne. Attirato dal rumore e dal movimento della tenda color vomito, una notte uno dei cani aveva infilato il muso dietro la tenda, e ne aveva avuto un occhio tutto maciullato, quasi succhiatogli fuori dalle orbite da uno dei burattini piovutogli sulla testa come una buffa mascherina nera. Non riesci a ricordare se la casa era la stessa, non riesci a ricordare, non puoi mia piccola scimmietta ricordare che quella che stai ricordando è la casa dove tua nonna è stata trovata morta, e non la casa che stai cercando, ma ormai non fa nessuna differenza perché io non sono lì con te. Alcune notti dopo trovi una terza casa, una villa fasulla su una collina. Fasulla perché l’apparente e un poco esoterico sfarzo – un’ampia vetrata piramidale sul tetto della camera centrale proprio sopra l’ingresso colonnato, il parapetto a colonnine di cemento del terrazzo attorno al quale gravita una colonia di pipistrelli diurni le cui ali bianche talvolta screziate di occhi pavoneschi, lepidotterei, curvano insieme alle foglie dei cedri il colore della luce, quasi si fosse dentro un vecchio caleidoscopio di cartone, dove detriti di fiori e insetti si ammassano in un triangolino di specchi in perenne e il più delle volte inosservata –– i tuoi terrori da bambina quando mi chiedevi cosa accadesse nel tubo di cartone la notte quando nessuno guardava, e per quanto ti sforzassi riuscivi al massimo a indovinare qualche minuscola ombra dentata che, ed ecco il terrore, col favore della tenebra avrebbe potuto coagulare in qualcosa di vivo e risalire la canaletta di specchi e intrufolarsi sotto le tue palpebre e sprofondare nel bianco del tuo occhio facendone poltiglia –– ma sui volti degli invitati cadono ombre variopinte come sui fantasmi in fiore dei quadri di Renoir –– l’apparente sfarzo non può nascondere il tono grigio-blu dell’erba – semi piovuti da chissà dove sono sprofondati e marciti nel giardino, decomponendosi e fermentando in quei ciuffi d’erba grigio-blu spessi e gommosi come animaletti morti, inestirpabili a tenacissimi, della consistenza del caucciù, che da sempre rendono il giardino un terreno infido in cui si inciampa di continuo e dal quale per certe scimmiette di mia conoscenza non era raro tornare con un ginocchio sbucciato, ma ora naturalmente nessuno ci metterebbe mai piede.

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[Visio Georgij, estratto sesto] Mi voltavo poi di nuovo a guardare la parete accanto a me e oh meraviglia, tutti quanti i vecchi del mondo che sul letto di morte si erano voltati contro il muro e senza più parlare con nessuno erano morti si erano voltato contro il muro non per morire da soli ma per poter ridere un’ultima volta insieme agli spiritelli che musavano musìn musino dalle pareti come foche cretinotte che scivolano esilarate su per un’acqua verticale, e questo ridere in segreto era la vera morte, una deficientissima e cosmica risata tenuta segreta a tutti gli uomini fino al momento della morte, la rivelazione finale che tutto il creato non è che pura purissima deficienza, il figlio cretino di Dio e cosa ancora più cretina il suo unico figlio, creato creatino creato cretino creato cretino crocchiano i denti dei morti prima di morire e ridono in secreto se-creato cretinismo crocchiando quando muoio qua qua quack quando muoio io ma muoio ma muoio ma muoio o no? Ah ah ah ah ah ah ah! Ballavo contro le assi del letto altare sognando di essere già chiuso tra le assi di una bara a ballare tic tac cric crac contro il legno della mia bara la mia bara tutta mia, picchiavo le mani contro le pareti felice e beato come un vampiro draculetto nella sua bara un neonato nella culla rimbecillito da tutti quei faccioni più grandi di lui che gli si chinano sopra ridendo e ridendo e ridendo, ah, che infinita fratellanza nella irrimediabile stupidità degli uomini, docta ignorantia, che razza di paroloni adorabilmente tronfi, solo un cretinone arcobalenone di uomo poteva venirsene fuori con questa minchiata scozzese, un imbecillotto con le palle al vento sotto la gonna e la cornamusa sotto l’ascella come un testicolo di balena, docto ci sarai tu, ignorantone, cosa credi, qui siamo dal primo all’ultimo uno più cretino dell’altro, ah ah ah ah ah ah ah! Lo stupido amore degli uomini, come è stupido stupido stupidissimo il loro amore più tonto ancora di quello dell’egregio cavalier Leontaurontontopythoccus Chrystiltopapyrinchius dal cul pelato, ma cosa corri a fare così felice dietro alla prima banderina e alla prima trombetta che passano!

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MILOŠ: Dopo una svolta vedo in terra un secondo sonaglio, grande il doppio del primo. Appena lo raccolgo. inizia le sue variopinte e, infinitesimali e arrotolatamente chilometriche viscere iniziano a risuonare, la sabbia scivola contro le ramificazioni metalliche diffuse all’interno del corpo del sonaglio come un lichene interiore abbarbicato dentro la materia. Ricordo vagamente un qualche significato spirituale in ciò, una delle infinite pietrificazioni dell’anima con cui da sempre ci perseguitano le religioni.

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(N.f.n.T., estratto terzo, continuazione) All’inizio, lì al buio del buco scavato sotto il letto, Zampadileone non li riconobbe, ma quando portò lo scrigno alla luce per vedere meglio, si accorse che sul coperchio (adesso sembrava più metallo; “che razza di scatola è?” disse Zampadileone, e si accorse di stare tremando come se di colpo il burattino feroce dell’inverno fosse precipitato giù per il camino) erano incise, ma sempre come per caso, come se ad inciderle fossero stati la sabbia e i sassi quando lo scrigno era stato sepolto, o le sue stesse unghie, o quelle di un cane, quando era stato dissotterrato, erano incise le figure dei due cani della donnina della cenere. Uno dei due cani teneva un gomitolo di lana e passava il filo all’altro cane, che a propria volta con quello stesso filo stava annodando un gomitolo. Zampadileone non sapeva decidersi ad aprire la scatola; “Perché adesso sulla scatola ci sono quei due maledetti cani? o forse sono solo graffi?” pensava, e pensava anche a quando aveva guardato negli occhi del Vecchione e ci aveva visto tutte quelle cose, e aveva paura che le cento monete potessero diventare come cento occhi d’oro, e non riusciva ad aprire la scatola. Dicono che sia ancora lì, la scatola sempre chiusa, intrappolato sotto un qualche letto di una qualche vecchia casa, sempre che le ruspe non abbiano già buttato giù tutto.

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Ritorno agli inferi. Materiali preparatori di un romanzo per bambini finti, di G. Sommariva.

(Estratto primo) «Divenuto infine un uomo maturo, dopo aver molto visto e molto viaggiato o viceversa nulla visto e nulla viaggiato (non fu certo l’ottenuta carne a liberarlo dell’arte della menzogna) Pinocchio scoprì infine di non poter riconoscersi nei propri figli, ai quali tutti mancava, così diceva scuotendo il capo e da tutti incompreso, mancava loro la raideur (nemmeno la moglie, una pasticcera di Piacenza che aveva perso una gamba quand’era bambina, sapeva dire dove mai il marito avesse imparato il francese). La direzione della scuola in cui era stato assunto come giardiniere cominciò a trovare sempre più frequenti indizi di negligenza nel suo lavoro. L’edera che cresceva su uno degli angoli esterni dell’edificio e che in autunno colorava di una falsa fiamma il muro grigio della scuola, non più potata finì per chiudere un saldo e meduseo artiglio attorno alle finestre della prima elementare, e divenne infine una tana di calabroni. Il giardiniere sosteneva di non potersi più in nessun modo convincere a togliere una sola foglia da quella pianta, che sosteneva di sentir sospirare. I pochi che avevano una qualche contezza delle origini dell’uomo tacevano, per paura di essere presi anche loro per matti. I bambini della prima classe, osservavano i rami che serravano la finestra della loro aula, cercando di sentire le loro voci. In autunno le foglie rosse potevano, a noi che non avevamo mai visto il mare, apparirci come coralli, e farci sognare di fantasmi di pirati che come le streghe del fagiolo magico arrivavano fin nelle nostre finestre a cavallo dei rami di corallo dell’edera. Con un taglierino, io avevo inciso sul tronco le mie iniziali, imitando altri monelli. Dopo aver inciso la seconda A, mi accorsi che il giardiniere mi era proprio alle spalle. Mi prese di mano il taglierino; incise qualcosa anche lui poi se ne andò senza dirmi una parola. Aveva inciso le parole “Dammi la morte”, con accanto un sole sorridente. Ne ebbi incubi per il resto dell’anno, e ancora oggi non riesco a guardare il sole senza immaginare uno dei suoi raggi attorcigliarsi intorno al collo del giardiniere per esaudire il suo desiderio. Esaudire il suo desiderio mi diceva il sole sorridente, e il pensiero che il desiderio della morte fosse in qualche modo incomprensibile ma essenziale legato all’edera e al sole, e che l’edera pur non potendo parlare avesse in qualche modo convinto il sole a strangolare il giardiniere mi strappavano al sogno, ma ancora galleggiava davanti a me il volto del giardiniere il cui desiderio era stato esaudito. Urlavo in lacrime. Dammi la morte. Su quella pianta c’era anche il mio nome. Il sole sorrideva sui disegni degli altri bambini. Quando uno dei calabroni aveva quasi ucciso con una puntura uno dei bambini, il giardiniere era stato licenziato. Prima di andarsene però aveva deciso di dar fuoco al nido di calabroni, bruciando così tutta l’edera e danneggiando l’ala della scuola. Così almeno si dice: il giardiniere è scomparso prima che glielo si potesse chiedere».

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…finché i coniugi Valmarana durante uno dei loro vagabondaggi tra le viuzze e le palme di Briwen a Jakarta non avevano incontrato Brušek che con l’infallibile e invisibile bisturi di ogni scienziato purosangue aveva subito inchiodato il senso delle parole gorgogliate dagli abissi celestiali della gola di Mhanta, e traballando sulle ginocchia già allora scricchiolanti e malferme aveva detto che non esistono parole che altre parole non possano bene o male decifrare, “Nemmeno nel segreto notturno e sacro di un letto nuziale”. Poi, Valmarana come sempre del tutto annichilito da quello che ridicolmente insisteva anche di fronte a sua moglie a chiamare il proprio padrone, Brušek aveva preso la mano di Mhanta, invitandola nell’altro laboratorio. La donna l’aveva seguito, quieta e silenziosa. Quel giorno si era per la prima volta dipinta le unghie con dello smalto rosso.

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[Visio Georgij, estratto settimo] L’indio fischiava e sospirava come un uccello trafitto, agitava le sue fronde di piume distogliendomi dal naufragio, e il riso mi aveva così scavato fin nel più intimo delle viscere che mi era impossibile fischiare e salvare il mio fratello ferito al cuore. Mi sono tirato su, esilarato dalla morte dell’indio, ho incrociato le gambe e senza che dicessi nulla l’indio mi ha consegnato il suo tamburo. L’india accoccolata contro la parete sopra il letto altare, il suo tepore ardente quasi visibile contro il fondo tenebroso dell’altare, ha cominciato a carezzare lenti accordi dalla chitarra; mi sono adagiato nel palpito delle corde con il tamburo mentre lei accelerava sempre di più il ritmo, e io con lei. Il ritmo usciva dal fondo del tamburo come un respiro o una parola segreta e intraducibile, ogni tamburo non è altro che una pulsazione di sospiri, l’aria passava per il tamburo come per un grosso cuore che io tenevo in braccio, con la mano sinistra pizzicavo e carezzavo e colpivo la pelle del tamburo mentre l’india cantava e suonava la chitarra. Solo ora mi rendo conto che, lei sul letto altare ed io accoccolato ai suoi piedi, ci siamo amati nel modo più puro, che è quello di chi sacrifica e strappa il cuore e taglia la testa ad ogni conoscenza e getta il cuore e la testa tagliata ai piedi dell’altare. I tatuaggi e le conchiglie e gli occhi morti dell’india come di pietra azzurra palpitavano come tizzoni brevemente accesi da un alito invisibile. Suonavo il tamburo e sopra di me sorridevano tutti i miei morti tirandomi per scherzo capelli e ho cercato tra loro il riflesso ridente di Gianni Sherwood, e solo ora mi viene in mente che ogni lampo di luce di ogni serpente e ogni pavone era identico alla tremenda e fugace risata che mi si era irradiata nel cranio il giorno che è morto. Il demone si congedava lasciando dietro di sé dei naufraghi risanati.

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MILOŠ: Il bambino vero torna burattino di legno, dico sollevando il secondo sonaglio – è grande poco meno di un fiasco di vino, e il suo peso ha quella mobilità interna della cose vive –– è il pietrisco che ha dentro, che ininterrottamente si sversa lungo nanometrici cunicoli… Il suono dolcissimo si diffonde dal sonaglio come una modificazione del cielo.

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IL PADRE DELLA BAMBINA COL FRAC: Inoltre in qualche modo tutti, che di solito si rifugiano in quella sorta di terra di nessuno tra il giardino e l’ingresso colonnato, dove sotto una pergola si imbastiscono buffet in piedi (nessuno oserebbe mai sedersi) e ci si sforza di essere cordiali l’uno con l’altro e insieme si fa di tutto per evitare di mettere un piede o nel colonnato o nel giardino, e così come particelle di gas sbatacchiano pigre nel loro bravo recipiente la conversazione ai buffet della villa è una nebulosa incerta di battute che non superano mai i tre quattro scambi perché in breve il perenne spavento che opprime tutti gli invitati – ma meglio non farne parola, poiché come dice qualsiasi dilettantesca quanto si voglia pellicola cinematografica, “Il Male si nutre delle nostre paure” –– distoglie ciascuno dalla conversazione impedendogli di seguirla, chiudendogli con un rombo di pensieri senza nome le orecchie, e così linee liquide di silenzio percorrono il buffet, e un valzer mutilato spintona le persone obbligandole come per un chissà quale oscuro contrappasso a cambiare di continuo il compagno di conversazione; il brusio e la chiacchiera sono dunque continui, ma privi di una vera direzione, di un vero centro.

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(Ritorno agli Inferi – Estratto secondo) «Scontento della carne, abbandonò la moglie e i figli per poter tornare a diventare una marionetta. La moglie raccontò poi che negli ultimi tempi le capitava di vederlo parlottare con la sua gamba di legno. Si legava dei fili ai polsi e alle caviglie e restava così in attesa di una croce da marionettista che, come un tempo era stato una marionetta senza fili, lo facesse diventare ora un uomo azionato da fili; era forse quello il passaggio ultimo per tornare quello che era? I vecchi al porto scuotevano il capo. Che importa qual è o quale non è la fiaba che raccontano su di noi? Nessuno può tornare a quello che era. Tanto varrebbe a un abete voler tornare pinolo, verme a una farfalla. Quanto a lui, la fiaba non raccontava come era potuto finire sul tavolo di quel falegname. Il legno viene dagli alberi, e gli alberi che parlano e soffrono se li sfrondi sono quelli in cui sono imprigionate le anime dei suicidi: che fosse quella la via per tornare a ciò che era stato? Ma gli era venuto anche in mente che forse era capitata una cosa diversa da com’è scritto nei libri. Forse un frammento di un’altrui anima era scivolato nel legno per contatto. L’idea gli era venuta vedendo la gamba di legno di sua moglie: non poteva essere che, a furia di stare in contatto con un corpo umano, una cosa sviluppasse ragione propria? Pinocchio era andato a chiedere lumi a un sacerdote di Waltzwaltz di nome Giorgio Giorgio, e»

(continua)

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Gianni Sherwood si mette a piangere e con voce sempre più impiastricciata di quella specie di catarro lacrimoso che viene ai frignoni mi appoggia una mano catarrosa sul collo e mi dice “Avrei potuto altrettanto bene non esserci per i miei figli, ogni conoscenza o non conoscenza da me accumulata per loro perduta, mai condivisa, e la fine della mia vita sarà la fine di un nonnulla risucchiato e reso invisibile dalla sua obbedienza,” mi dice Gianni Sherwood mentre io cerco inutilmente di staccarmi la sua mano dal collo, gliela spezzerei quella mano, ma Gianni Sherwood piange e si aggrappa al mio collo come se lo stessi salvando da una tempesta e avvicinando a tre millimetri dalla mia faccia la sua bocca appiccicaticcia di minestra e di pianto mi bisbiglia con fare da cospiratore, “Poiché ogni obbedienza è morte”.

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SARAHS: Inizialmente l’artigiano giovane ci aveva tenuti sulla soglia, sempre più stretti, poi (io ero stata la prima) avevamo pian piano cominciato a filtrare e disperderci all’interno, badando sempre meno al ragazzo, che parlando con tono sempre più normale si era infine unito all’Ebreo Bucaniere e era poi passato nelle cucine. Rompere il cerimoniale in modo impercettibile, forzare la legge fino a stravolgere tutto. Langue e Parole. Dirac e la materia. Non mi serve nemmeno più stare con l’architetto, so già a memoria quello che penserebbe prima ancora che me lo dica, ma si può dico io essere già come una moglie quando ho a malapena vent’anni? Poi mi ero seduta anch’io al tavolo. L’Ebreo Bucaniere faceva da anfitrione, ed è venuto fuori che si trattava un famoso scrittore/attore/musicista ebreo. Non aveva la barba che portava nelle foto che mi hanno fatto veder e che era il modo in cui il pubblico era abituato a vederlo, e i capelli se li era tagliati da solo, con codini da ovvio bucaniere e un orecchino che forse era un ago da pesca. Cioè un amo. Ci saremmo fermati a mangiare qualcosa: avrei mangiato doppio, quando poi sarei (fossi?) tornata dall’architetto. Portarono quel vino di colore violetto slavato, aspretto e un po’ mosso. Avrebbe sentito il mio alito. Il vino era buono, e i colori e la voglia di unirmi alla ciurma, ma il pensiero dell’architetto ormai stava scavando ovunque infinitesimali pozzi artesiani di antimateria e di vuoto… mi ero affacciata alla finestra, sulla città lontana e la prateria. Il sole tramontava nella bruma. Cosa avrei detto all’architetto? Si sentiva abbandonato e triste con i due pescatori? Sotto di noi, i caproni, i tori e gli stambecchi correvano.

Aspetta, erano pescatori o erano due vecchiette? Ieri sera c’era troppo casino e eravamo tutti e due così ubriachi che adesso non mi ricordo nemmeno più. Non posso più restare qui, devo tornare indietro.

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[Visio Georgij, estratto ottavo] Erano passate più di dodici ore, durante le quali non mi ero mai mosso dai miei cenci contro il letto altare; non avevo toccato nemmeno una goccia d’acqua, non mangiavo nulla dal giorno prima, la gola completamente asciutta dopo aver attraversato il deserto degli arcobaleni neri il cui morso è sempre mortale, le cui scaglie di madreperla sono altrettanti occhi fraterni, e la cui carne è un unico labirintico cuore, viva viva viva la morte, viva la foresta. Ho preso il terzo bicchiere, un sorso piccolissimo, e i contorni e i colori e le dimensioni sono tornati quelli consueti, il lungo e ampio salone di tentacoli di nuovo una baracca. La marea delle visioni andava e veniva in ondate sempre più lente e rade, “Viva la medicina!” gridava l’indio, “Viva la foresta!” diceva l’india accoccolata tra le lenzuola del letto altare, “Viva! Viva! Viva!” rispondevamo tutti, e “Viva la morte” ho detto io, e nessuno mi ha risposto. Ho chiuso gli occhi e mentre l’india riprendeva a suonare da sola io battevo a ritmo la nuca contro le assi di legno, ad ogni colpo un brivido nero si dilatava nel mio cranio; e un profondissimo tunnel rotondo si srotolava davanti ai miei occhi chiusi, una burella da Arne Saknussemm lungo la quale sprofondando, o risalendo, come attraverso la Terra, ho creato di nuovo il mondo. Quando ho riaperto gli occhi l’indio mi teneva per mano, e ogni volta che li richiudevo sorprendevo degli animali dileguarsi tra le mie palpebre, uomini col volto di farfalla, un muso di lemure che sbirciava nei contorni delle assi di legno, miscugli di arti occhi e orecchie e bocche e corpi di pesci, di uccelli e di serpenti, artigli e architetture che crollando si ricostruivano immediatamente come quando facciamo ruotare un caleidoscopio, un corridoio di luce fasulla.

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MILOŠ: Devo nascondere anche questo sonaglio: come per l’altro, è sufficiente avvolgerlo in uno straccio perché il suono si plachi. Mi allontano senza fretta, stringendo a me i due fagottini. Continuo a camminare mentre dietro di me la voce di una donna mi chiama senza troppa convinzione. Sparisco ancora una volta nel labirinto, timido minotauro, la voce dei due sonagli ormai morta.

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Poco prima che Mhanta sparisse con Brušek dietro la porta bianca, Valmarana si era accorto che sua moglie si era, chissà come e chissà quando, tolta le scarpe, e il suo piede nudo fu l’ultima cosa che vide di lei prima che si dissolvesse nella penombra. Ora solo, nel calore delle minuscole orme dei piedi di Mhanta che già svaniva dalla scacchiera delle piastrelle Valmarana con allucinata e dolorosissima chiarezza vide prosciugarsi la propria anima, per sempre prigioniera di un maleficio che né lui né Mhanta avrebbero mai compreso, ma che oscuramente tutti e due avrebbero vissuto con l’abbandono estatico dei martiri e degli amanti di ogni tempo.

[continua l’11 febbraio]