Presiden arsitek/ 50

E anche molti dei morti cui erano appartenuti i vestiti che ingombravano la macchina in cui vivevano le due sorelle e la bambina con il frac erano riemersi da dove erano stati sepolti. E una sera la bambina aveva trovato le due donne davanti a un albero. Avevano catturato uno zombi e l’avevano appeso a testa in giù al ramo di un albero morto.

di in: Presiden arsitek

Poi un giorno il sole si era occultato come per una colatura di vernice di traverso l’occidente.

“È la regina della notte!” aveva gridato la donna che diceva di chiamarsi Teresa, facendo ciao ciao con la manina della bambina che teneva in braccio avvolta nel frac. “Ciao, ciao, ciao, ciao Regina della notte,” diceva la donna, in piedi sul prato abbandonato, la sua figura annerita dal lento e abissale scroscio di creature alate contro l’arancione cachettico del cielo ormai irreparabilmente contaminato dall’arrivo degli esseri.

Gli stormi avevano piegato contro il tramonto in lente e fitte linee verticali, quasi precipitando dall’atmosfera in quello che successivamente gli organi di comunicazione dell’intero pianeta avrebbero definito, con inevitabile piglio fantascientifico (poiché come nei miti aztechi non altro la fantascienza aveva imbastito, non un’adeguata linea di organizzazione, né di difesa, né di eventuale contrattacco, ma almeno questo sì, una griglia di frasi di circostanza con cui adocchiare gli inauditi eventi) “Contatto zero”, con immediata circolazione di ogni tipo di immagine resoconto reportage presso chiunque avesse gli occhi per guardare in quel momento il cielo, inclusi naturalmente i vari gradi di dematerializzazione psichica e/o sociale, a seconda delle tecnologie prima e poi delle leggi vigenti in ciascuno stato.

Teresa cantava l’aria di Mozart, la terra intorno a lei inviluppata in una tremante paralisi mesmerica cui persino lo sfarsi scolorato delle nuvole appariva partecipe.

Come una colatura di vernice, gli stormi piegavano contro il tramonto, quasi precipitando dalla stratosfera. Benché alati (di una sorta di pelle bargigliosa e nerastra che poteva forse fungere nella nostra atmosfera da scomposto paracadute – ma la meccanica del loro “volo” non venne mai chiarita del tutto) era chiaro che l’aria della Terra non era il loro elemento. Pure scendevano, per quanto era loro possibile disciplinati, cioè come oche: ma invece della tradizionale forma a > degli stormi terricoli questi scendevano verticali come colonne di pioggia, come mai nessuno stormo era mai stato visto fare, e fino all’ultimo li avresti presi per scrosci d’acqua, cioè fino a che ormai irreparabilmente vicini non ne avessi visto il corpo tozzo di pinguino, dondolante in colonna con tutti gli altri prima di lui contro il cielo ormai invisibile non sapevi più se per la notte o per l’infinito numero di esseri che stava emanando, impossibilmente librati nell’aria come lanterne di carta a dispetto della mole, e delle ali così corte e presso che del tutto spennacchiate.

Piovevano lenti, con il becco aperto eppure silenziosi (solo molto e forse troppo più tardi ci si sarebbe resi conto del loro “canto” infrasonico, e ci si sarebbe interrogati sugli effetti di un tale canto quando prodotto da miriadi di individui, e sugli influssi che una discesa verticale di tale canto–– ma a che serviva interrogarsi, ormai quello che era stato era stato), un lungo e sottile becco ricurvo di creatura africana spalancato su una gola il cui interno appariva completamente bianco, come quello di una creatura marina. Toccando a terra perdevano ogni disciplina e si sparpagliavano ruzzolando e corricchiando comicamente in ogni direzione, completamente indifferenti alle persone esterrefatte.

Come si capì quasi immediatamente dal loro arrivo, i “pinguini” (ove necessario distinguerli dai nostri, “pinguini volanti” era preferito al più cartoonico “pinguini spaziali”) piovevano di preferenza contro superfici trasparenti e solide: disdegnando bellamente l’acqua crollavano a corpo morto contro le porte e le pareti di vetro dei grattacieli, contro le finestre, le porte scorrevoli e le vetrine dei negozi, le vetrate delle ville, gli oblò, gli abbaini e i lucernari, qualsiasi lastra di vetro capitasse loro a tiro, con mira quasi infallibile, le loro grosse teste di condor spelacchiate e rosa come quelle di un neonato apparentemente immuni agli urti. Evitavano, oltre l’acqua, gli specchi propriamente detti, irresistibilmente attratti, secondo pareva, dalla riflessione parziale di un corpo solido. Miravano ai vetri: era, per quanto balorda, una precisa strategia? Già alcuni zampettavano nelle case tra i frantumi, cercando chissà cosa, cibo, magari, o un punto dove installare la bava bituminosa dei loro nidi…

Erano piovuti anche contro i vetri della loro auto piena degli stracci dei morti, penetrandola immediatamente con il puzzo senza nome dei loro corpi e del loro fiato; troppo grossi e goffi per entrare dentro l’abitacolo avevano però pinzato con i loro becchi del tutto privi di denti qualche striscia di stoffa, una barba di sciarpe rosa e verdi come in uno sventramento carnevalesco della macchina –– e tale magari era proprio apparso alle loro zucche aliene, forse (come usa tra noi umani in frangenti del genere, le teorie germinavano una sopra l’altra affastellandosi nei depositi mnemonici artificiali singoli o condivisi o, più arcaicamente e date le circostanze coerentemente, contro gli schermi di vecchi telefoni e computer, per chi ancora li aveva) forse mai pervenute a coscienza prima di entrare a contatto con l’aria terrestre. O forse i “pinguini” non erano a propria volta che macchine dal funzionamento a noi inaccessibile, andate in tilt per un qualche sfasamento ritmico all’entrare nel giro di valzer del sistema solare o semplicemente annientate nei loro sistemi artificiali dal riflesso artificiale dei vetri (soccorrevano qui di nuovo innumeri circostanze cinematografiche, tra le più venuste delle quali era appunto la presenza imprevista dall’alieno invasore di un qualsiasi oggetto, elemento, fattore terrestre che, vedi caso, finiva per rivelarsi giusto l’elisire necessario a debellare il mostro venuto dallo spazio, il suo proverbiale tallone d’Achille); o erano forse, i “pinguini”, nel loro pianeta d’origine, altrettanto inattivi che una festuca monocellulare, e di nuovo il contatto, stavolta portentosamente corroborante, con l’atmosfera terrestre ne li aveva agglutinati inopinatamente in quei maldestri uccellacci ancora del tutto ignari delle minuzie e tortuosità della lotta per l’esistenza come la si combatte nei piani superni a quelli monocellulari, lotta che loro plàffete, avevano archiviato in un istante con un colpo d’ala bargigliosa, ma restando insieme sprovvisti del menomo rudimento guerresco, per così dire: e così, zuccate contro i vetri. Eran forse allora, i “pinguini”, congetturava taluno, il residuo di chissà quale e quanto remota esplosione stellare (di che mi dicono l’universo pullula), una nube di vita latente in attesa di incappare in una polla di sostanza tonificante e nutriente, pazienza se poi irta di irresistibili superfici contro cui affilarsi nei millenni futuri la brachievoluta capoccia. O vuoi vedere che lo spazio profondo non c’entrava per nulla e che erano stati i soliti laboratori segreti, il solito cerebro artificiale, la solita nazione nemica… Comunque non importava, dato che pareva accertato che i “pinguini” al di là dei vetri rotti e dei loro nidi puzzolenti non sembravano intenzionati a far poi molto danno, e in ogni caso il vero oggettivo problema era il congegno che era apparso sopra lo stadio di Briwen, lungo il tratto di ferrovia che collega Jakarta a Venezia e che ospitava una attività frenetica quanto imperscrutabile e nei modi e negli scopi; e indubitabilmente aliena, e in quanto di certo tecnologicamente più avanzata ed accorta dei testoni volanti, più temibile: ma forse anche più aperta a quel che noi umani chiamiamo dialogo? Bah… Quasi tutti sotto sotto trovavano che i film di fantascienza magari non ci avevano visto giusto ma almeno ci avevano visto meglio: cos’era mai questo inutile carrozzone di uccellacci zucconi e marchingegni indaffarati e indifferenti?

Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen,

Tod und Verzweiflung,

Tod und Verzweiflung flammet um mich her!

E, quel che per molti era il peggio, i serbatoi della retorica non avevano nemmeno potuto immagazzinare quel tanto per, che so, un inno An die Freude fischiato da quattrocentomila flauti dolci a mo’ di galattico benvenuto al visitatore, o un eroico ¡No pasarán! da opporre all’invasore nel caso l’alieno si fosse rivelato tale: o quel che si vuole; ma a quanto pareva né ai “pinguini” né (come vennero poi chiamati gli altri) ai “colibrì” importava un bel nulla degli umani, e quindi con questi buzzurri interdimensionali qualsiasi retorica o dialettica era, così almeno pareva, fatica sprecata. E comunque s’era ormai bell’e capita la faccenda delle craniate contro i vetri (ma il modo in cui era arrivato fin qui l’immenso stormo, in definitiva, no…), ma che combinavano quegli altri sopra lo stadio?

Come i cagnetti che, irrisi dal gatto di casa che con il più bel ciecosordomutismo alle lor strida gli lappa impunito tutta la sbobba dalle ciotole, finiscono per sfogare la loro furia piangendo e abbaiandosi contro i denti l’uno dell’altro, gli “uomini (e donne) di Stato”, erano caduti preda di un clinico isterismo del quadro di comando di cui la fantascienza non aveva creduto necessario preavvertire nessuno, e avevano trovato tempo e modo di addipanare, l’un contro l’altro armati, un intrico di baruffe, dispute, ultimatum e infine vere e proprie guerre (non ultima la biennale Guerra Austroamazzonica da cui, a dispetto di propagande avverse e capziose, è uscita vincitrice la Libera Repubblica di Waltzwaltz) che facevano un bel paio con l’ostinazione mosconica degli ormai miliardi di “pinguini” a tamburare con la fronte ogni finestra disponibile. Questo per i primi quattro-cinque anni dal Contatto zero (che in definitiva “zero” continuava e continua a rimanere), che erano stati i più caotici e i più infruttuosi.

Placati infine gli animi e pianti i rispettivi caduti ci si era infine bene o male rassegnati ad accettare la presenza di visitatori venuti fin qui dalla più profonda notte del cosmo per impiparsene completamente di noi… ma, argomentavano alcuni inascoltati spiriti sottili, chi dice in fondo che se ne impipassero? Come facciamo a sapere che ad esempio le testate ai vetri non nascondano un qualche codice? O anche: perché mai dovrebbero parlare con noi? E se altra fosse la specie vivente con cui desiderano venire a patti?… Alla fine era toccato ai soliti quattro disperati che in ogni tempo di crisi finiscono per rimettere in carreggiata lo scimmione umano trovare come addivenire ad una forma di convivenza se non con gli impenetrabili “colibrì” almeno con i “pinguini”: e fu mangiandoseli: ovviamente. Era infatti facilissimo catturarli, come ognuno può immaginare. Non era nemmeno necessaria l’esca: era sufficiente una scatolotta di vetro sufficientemente grande (più o meno come una vecchia cabina telefonica) e una delle cui pareti in vetro fosse una porta che una volta attraversata facesse scattare una molla che richiudendola impedisse all’essere di uscire.

Zertrümmert sei auf ewig alle Bande der Natur,

Verstossen, verlassen, und zertrümmert

Alle Bande der Natur, alle Baaaa…

Di solito le “cabine” (ma naturalmente le tecniche di cattura dei “pinguini” variavano di molto nelle varie parti del mondo) venivano posizionate con lo sportello a molla verso l’alto: invito irresistibile per gli esseri che si trovassero a sorvolarle, e che in breve venivano catturati nel numero di due o tre, secondo la loro mole…

***Appunti sulla caccia ai “pinguini”***

Nonostante gli sforzi di cacciatori, imbalsamatori, pellai, cucinieri, cerusici, manca ad oggi un’anatomia di qualsiasi tipo (comparata non parliamone neppure) dei “pinguini”. La pelle si è rivelata essere un isolante di quasi soprannaturale versatilità, ed è oggi il principale componente delle tute spaziali, improvvisamente tornate di moda a livello pangovernativo una volta indubitabilmente dimostrata l’esistenza di altra vita, non importa quanto laconica e/o stordita, nell’universo. La carne è generalmente molto apprezzata e può essere consumata sia cruda che cotta nelle più varie maniere: la più comune a Waltzwaltz è un polpettone variamente speziato; e, naturalmente, se ne fa ovunque anche un’ottima frittura; il sapore viene di solito descritto come una specie di incrocio tra la carne di maiale e il cuore di carciofo, la consistenza simile a quella del rombo, con delle lievi fibrosità piuttosto paragonabili a quelle di frutti tropicali come l’ananas o il durione; il profumo è più scuro e intenso rispetto a quello della carne, con una punta di petricore; dalle nostri parti la si preferisce accompagnata a vini bianchi fermi, ma la discussione in merito tra i sommelier è ancora accesa, la rissa sempre dietro l’angolo; quanto al resto, gli organi interni, la cui presenza è provata da lastre effettuate in vivo, evaporano dall’albedo laringea della creatura una volta che questa venga soppressa, ovvero lasciata morire di soffocazione dentro la vetrinona in cui si è intrappolata. Lo stesso vale per le ossa, che le lastre mostrano reciprocamente disarticolate e perciò adatte a scompaginarsi e riconfigurarsi in intelaiature mutevoli e forse affatto incostanti. Non è stato possibile osservare un sistema circolatorio o nervoso, e gli organi che è stato possibile osservare risultano tutti asimmetrici e dagli scopi del tutto sconosciuti. Di recente sta prendendo piede l’ipotesi che gli organi e l’ossatura dell’animale vadano incontro ad una prima forma di dislocazione e deterioramento già per effetto delle lastre, il che renderebbe affatto impossibile uno studio anatomico dell’animale. L’eliminazione dell’animale avviene di solito per “soffocazione”, termine di comodo in assenza di una prova certa della presenza di organi atti alla respirazione. In realtà, dato che l’essere non viene di fatto privato di aria, il termine è comunque improprio. È sufficiente lasciare gli animali intrappolati nel contenitore di vetro perché in breve esalino la caratteristica nube bluastra che segnala l’avvenuta evaporazione degli organi, e la morte. Le ipotesi riguardo la causa della morte oscillano tra l’impedimento a muoversi (è capitato che esemplari non molto grandi e intrappolati in cabine non perfettamente costruite riuscissero a liberarsi, benché molto malridotti, sbattendo forsennatamente contro le pareti della vetrinona fino a forzarle dall’interno), la prolungata separazione dai propri simili (non è dato vedere esemplari in volo da soli), un’eccessiva esposizione alla gravità terrestre (in apparenza stravagante, questa ultima ipotesi è confortata dall’osservazione che i “pinguini” di solito non restano a terra per più di un paio d’ore, e di solito dopo essere atterrati si lasciano andare verso l’alto fino a sparire alla vista – ogni tentativo di attaccare un sensore a una delle creature per avere qualche lume sui suoi spostamenti è stato infruttuoso: dopo poco tempo, i sensori vengono rintracciati a terra, l’essere cui erano stati applicati sparito chissà dove –– di una certa qual refrattarietà alla gravità terrestre potrebbe essere indizio anche l’astronave fluttuante sopra lo stadio di Briwen, che pare sorretta senza l’ausilio di alcuna energia, sempre che il moto frenetico dei “colibrì” dalla terra all’astronave non sia da considerare la ragione della sospensione nel vuoto dell’astronave ––– i sensori che si sono potuti avvicinare non hanno rilevato attività di alcun tipo, né nello spazio tra l’astronave e il terreno né nel sottosuolo dove, come pare, i “colibrì” svolgono le loro invisibili manovre prima di ritornare nell’astronave –––– buona parte se non tutte le guerre recenti avendo avuto come pretesto una discussione su chi avesse il diritto di precedenza ad avvicinarsi all’astronave per instaurare un contatto con i “colibrì”, si è infine stabilito che la zona dello stadio di Briwen è da considerare territorio extraterrestre, i cui confini potranno essere oltrepassati solo dietro lasciapassare rilasciato dalle autorità aliene, dove ve ne fossero).

L’eliminazione mediante armi è molto meno semplice di come si potrebbe pensare: i “pinguini” essendo verosimilmente in grado di spostare a piacimento i propri organi, non è di fatto possibile trovare un punto nel loro corpo colpito il quale si possa assicurare una morte rapida. Le persone che ad ogni modo, con gran fatica e, è da credere, con enorme sofferenza della creatura, sono riuscite ad uccidere un “pinguino” (il metodo più rapido ossia meno lento e meno dannoso sia per la carne che per la pelle è risultato essere quello delle bastonate) hanno accusato un crescente malessere generalizzato durante l’operazione, aggravatosi dopo la morte dell’animale e con sintomi assai variabili da soggetto a soggetto; gli esami medici avendo dato esito negativo, è ancora oggetto di dibattito la natura, probabilmente neurologica, del malessere, nonché la sua durata e la sua effettiva sparizione con il tempo. Tutti i soggetti riportano, anche a distanza di anni, episodi talvolta debilitanti di riacutizzazione dei sintomi accusati durante l’uccisione dell’essere.

Come anticipato più sopra, i “pinguini”, apparentemente muti, emettono una serie di infrasuoni la cui natura è ancora tutta da chiarire non comparendo, sulla base delle osservazioni svolte finora, un vero e proprio organo di fonazione – né è del resto minimamente chiaro in che modo i “pinguini” si nutrano. Quella che sembra essere la loro gola, dai vari esami radiologici risulta volta per volta ed esemplare per esemplare collegata a punti e organi completamente diversi del corpo, e a volte richiudersi immediatamente sotto il collo. Recentemente T–––š B––––k ha avanzato l’ipotesi che i “pinguini” e forse anche i “colibrì” possano condividere alcune delle caratteristiche morfologiche del somaroconiglio, come potrebbe far pensare la capacità di trasformare a piacere i propri organi interni. Data la comprovata tossicità della carne di somaroconiglio, l’ipotesi ha destato un certo allarme nella crescente comunità di degustatori di “pinguini”, allarme che come assicurano le autorità sanitarie del pianeta è ingiustificato, dato che nessuno degli esami tossicologici condotti finora e costantemente aggiornati lascia pensare che la carne di “pinguino” sia minimamente dannosa per l’organismo umano.

***

…ad ogni modo, fintantoché non fossero completamente sviscerate tutte le caratteristiche nutrizionali della creatura se ne raccomandava, un tantino ufficiosamente, un consumo moderato.

Aaaaah…, Bande, alle Bande der Natur

Lontano, nei campi lungo le ferrovie di Schwarzschwarz che erano l’abituale dimora delle due donne, la bambina cresceva, morendo di noia, di risate, di fame, di stanchezza e di tutto ciò di cui i bambini muoiono ogni giorno crescendo: e senza mai arrivare a riempire il frac, dal quale non si separava mai.

A volte la donna che si chiamava Teresa sistemava tutti gli stracci dei morti sul giardino e raccontava alla bambina la storia di questo o quel morto, ogni volta differenti dato che ogni volta i vestiti venivano ricombinati in maniera diversa, e così le storie non erano mai la stessa e nello stesso tempo sembravano sempre tutte uguali.

– Mi racconti la storia del frac?

– C’era una volta un diavolo volante che lavorava in un circo…

Come tutti, anche avevano dovuto ricoprire i vetri della macchina con delle griglie metalliche di quelle che la polizia usa durante le sommosse, e che a quanto sembrava erano sufficienti per distogliere i “pinguini” dai vetri delle automobili. All’inizio gli incidenti provocati da picchiate di stormi sulle autostrade erano stati innumerevoli, e si era pensato di trovarsi davvero davanti ad un’invasione con tutti i crismi cinematografici del caso.

– …era triste, perché ormai sua moglie non tornava nemmeno più a casa la notte…

Tutti i bambini si erano messi a ridere, quando il primo giorno all’asilo aveva detto che viveva dentro un’auto in un prato. Avvolta nel suo frac sopra il grembiulino arancione, era stata assegnata al gruppo delle Coccinelle, e una coccinella di carta le era stata appiccicata con lo scotch sul bavero del frac. I primi giorni si era accoccolata contro la sabbiera, muta e guardinga come un animale tolto alla sua tana, perennemente sepolta sotto un arruffo di capelli che, giocando gli altri bimbi intorno a lei, si coprivano sempre più di sabbia. Ogni tanto da quel gomitolo sbucava un dito per strappare una margherita, e chi si avvicinava abbastanza avrebbe potuto indovinare sotto il velo dei capelli le minuscole stelle furenti degli occhi, che non chiudeva mai.

E gli altri bambini e le altre bambine, per esempio

– Ma questo orologio però è finto.

– No, non è finto!

– Ma non va.

– E allora. Anche se non va è vero lo stesso.

– Ma non dice l’ora.

– Dimmela tu.

– No.

– Neanche se ti dico un segreto?

– Quale.

– Prima dimmi l’ora.

– L’ora è già passata. Prima dimmi il segreto.

– Te l’ho detto.

– Ma qual è.

– Adesso non posso più, ci sono––

– Ciao, chi è quella lì?

– Andate via, stiamo parlando.

– Perché.

– No adesso che ci sono loro non posso più dirtelo.

– Deve dirmi una cosa, voi––

– E allora andate via voi scusa, noi––

– E poi c’è anche quella lì.

– Quella lì quella lì quella lì

– Dorme.

– O forse è scema.

– Quella lì lì lì lì lì.

– Dài dimmelo.

– Quella––– cosa fai?

– Ciao. Ehi? Ciao? Stiamo giocando agli Scoiattolo con le carteschiolatt–– Carte Scoiattolo. Ciao?

– Dimmelo in un orecchio.

– No. Puzzi.

– Ma è scema davvero?

– Tappati il naso.

– Carteschiolatta! Ciao?

– Basta lasciala stare.

– Che c’è?

– Lasciala.

– Ma scusa ma magari vuole giocare. Ciao?

– Vieni–

– Mi sono sbagliato? Uffa. Pesca–

– Ossa rotte.

– Dillo, non ci sentono se me lo dici in un orecchio.

– Cosa?

– Cos’ha detto?

– Ha detto “ossa rotte”.

– Ossa rotte?

– Hai detto “ossa rotte”?

– Lasciala.

– Chi ha detto “ossa rotte”?

– Lasciala, dài, pesca.

– Va bene. Uno due tre. Il Centauro! Questo ti spazza via dall’universo.

– Dov’è la suora? Ho paura.

– Perché?

– Invoco lo Scoiattolo!

– No!

– Voglio la suora.

– Perché?

– Suor Giuseppina! La bambina nuova ha detto “ossa rotte”. Suor Giuseppina!

– Non ti sente.

– Non si può quando il Centauro è così perché prima devi entrare in uno Scivolo e non siamo ancora dentro il Parco.

– Non c’entra, lo Scoiattolo––

– Suor Giuseppina!

– Perché piangi?

– Piange?

– Cosa c’è?

– Perché piange?

– Ha paura delle ossa rotte.

– Ma chi è quella bambina.

– Suor Giuseppina!

– Lasciala stare.

– Dài non piangere, non è successo niente.

– Brutta! Vai via!

– Cosa c’è.

– Ha detto “ossa rotte”.

– Vai via! Vai via! Brutta!

– Ma non diceva a te.

– Perché piange?

– Le ha detto “ossa rotte” e allora si è spaventata.

– Ma hai detto che è scema.

– Ma no ma non lo so io se è scema. Lasciala stare. Diceva “ossa rotte” a me.

– Dài, non piangere.

– Vuoi giocare a carte con noi?

– No. Voglio la suora.

– Ma poi ci fa tornare dentro.

– Vado dalla suora.

– Aspetta, dài, giochiamo a––

– Prova a––

– Vado dall––

– Indovina cosa dico? Eudododogiobedo.

– …

– Eudododogiobedo.

– Cosa?

– Edododododododo––

– Diddo du, ddo digeddo dedde badode bede.

– È ubriaco?

– Dài, pesca.

– Eudododogiobedo.

– Cosa?

– Eudododogiobedo.

– Ma è una parola? Stavo andando dalla s––

– È. Ud. Ododogio. Bedo.

– Cosa vuol dire, non capisco niente. Mogio mogio?

– O-do-dò-gio.

– Cos’è–– ah. Orologio. Orologio vero. Mollati il naso, non capisco niente.

– Adesso dimmi il segreto.

– Non parlare così forte. Ti sentono. E anche lei.

– No, stanno giocando.

– Orologio. Pesca.

– Orololololologio vero. Pesca.

– Hai visto. Ci sentono. Stupido.

– Tanto non capiscono.

– Pepepepepepepesca.

– Tu non capisci.

– Orororororororo.

– Lolololololololo.

– Andate via.

– Giogiogiogiogiogiogio. Un altro Centauro!

– Ma andate via a giocare? Stiamo parlando.

– Che segreto è.

– È perché non lo capisci, che non capisci che è un segreto ma i maschi non capiscono mai niente.

– Spiegamelo allora.

– Tanto non capisci niente è un’ora che te lo spiego.

– Per favore. Io ti ho detto l’ora.

– Non è vero.

– Ho pescato un folletto!

– E allora dimmi l’ora.

– È mezzogiorno e cinque. E adesso dimmi il segreto.

– Un piccolo innocente folletto…

– Cinque cosa.

– Minuti. Il segreto.

– Questo è un vero orologio.

– …e il tuo guerriero finisce prigioniero della maledizione di Nita.

– Dimmelo.

– Cosa.

– Il segreto.

– Te l’ho detto.

– Che segreto è.

– È un segreto––

– Imbrogliona.

– No non è un segreto che––

– Io l’ora te l’avevo detta.

– Mah–––––– ahia!

– Stupida.

– Mi hai fatto male.

– Perché io ti ho detto–––

– Perché mi hai fatto male.

– Perché io ti ho detto il segreto–– ti ho detto l’ora e tu non mi hai detto il segreto.

– Voglio andare via, voglio––

– Che deficiente adesso che le hai fatto del male––

– Ce ce ce ce ce ce ce centauro.

– Un altro? Ti giuro che se hai il culo di mio padre ti ammazzo.

– Non le ho fatto male è lei––

– Sì che mi hai fatto male.

– Ma sarai imbecille, aveva appena finito di piangere. Cacchio mi è caduto il cent–– scusa? Me lo ridai?

– È lei che non mi ha detto il segreto.

– Te l’ho detto, sei tu che sei stupido e non l’hai sentito.

– Ma piangi anche tu?

– Ciao? Ci senti? Me lo ridai?

– Ma guarda che––

– Te l’ho detto.

– E qual è.

– Ciao? Bambina? Mi ridai il Centauro?

– Che scherzavo.

– Mi rid––

– Ossa rotte giù per il burrone.

– Cosa?

– Cos’ha detto?

– Niente, non ascoltarla.

– Ha detto “Oss––”

– Niente.

– Suor Giuseppina!

– Ma sei scemo sul serio.

– Ciao? Mi ridai la carta?

– Non ci sente. Prendigliela e basta.

– Prendigliela tu.

– No.

– Hai paura?

– No.

– O o o o o o ssa ssa ssa ssa ssa ssa ro ro ro ro ro ro ro––

– Non ho paura.

– E allora––

– Bambina?

– Prendile la––

– Bambina?

– Non chiamarla, prendile la––

– Sei una zombi?

Ah già, gli zombi: me n’ero scordato. Il fenomeno della resurrezione spontanea dei morti essendo occorso più o meno nello stesso scorcio di tempo dell’atterraggio dei “colibrì” e dei “pinguini”, era stato inevitabile che i due fatti venissero messi in correlazione: anche perché di nuovo, in malora tutta la cinematografia! Sulle prime, vittime di un curioso automatismo indotto dall’esperienza surrogata dello schermo, non erano stati pochi a tirare la fucilata di prassi nel cranio degli zombi onde arrestarne la furia omicida: senonché di furia ce n’era assai poca, e assai pochi erano anche gli zombi, questo sia per la pratica sempre più diffusa di incenerire i morti (c’era comunque, ça va sans dire, chi sosteneva che anche le ceneri, ove fossero state romanticamente disperse in luoghi – di solito prossimi all’acqua – cari ai trapassati, potessero–– ma il resto se lo racconti ciascuno da sé come meglio crede, siamo ormai tutti quanti provetti segugi addestrati alla trama e all’intrigo cinebrivido), sia perché i corpi mantenuti interi erano comunque saldamente imprigionati nelle loro bare, quasi sempre ormai in loculi murati, e perciò anche fossero tornati in vita hai voglia a grattare con quei quattro ossi di dita contro il calcestruzzo. Non solo: nel giro di due-tre anni il cadavere normalmente si riduce a uno scheletro che (almeno qui il cinema ci aveva azzeccato) non può in nessun modo essere riportato in vita. E perciò gli zombi erano una manciata per ogni centro abitato, né poteva propriamente dirsi che fosse il loro un ritorno alla vita, quanto piuttosto un retrocedere (o innalzarsi? a fronte della santissima vita delle erbe e degli alberi, il dubbio è sempre più forte) verso il regno vegetale, un dissanguamento fungino d’ogni umore, una fermentazione d’ogni psiche in micorriza fiorente. Laberinto in fiore de’ morti. E i vivi? Potevano (secondo centro dell’ottava arte) essere mutati anche loro in zombi da un morso, maaaa… ma, perplessi fucilatori a parte, i vivi non vedono che denti e budella, poiché i morti hanno ormai capito che non esiste né è mai esistita per l’uomo altra parola che il morso. Ossia, secondo omilizzò un tal don Giorgio Giorgio, sacerdote da tempo in odore di scomunica per certo suo eccentrico sistema nella condotta del proprio gregge, “Negli zombi è perciò poeticamente erronea ogni rabbia di cui le nostre favole li hanno sempre locupletati: il morso contagiante viceversa si manifesta, come ognuno oggi può vedere, con la stessa meticolosa e anestetica dolcezza di una liana carnivora, il cui tosco ti impedisce di avvertire la ferita mentre essa beve il tuo sangue, e tu dolcemente, come per una droga che ti sia stata fatta mangiare, scivoli dallo stato di vivente in quello di zombi, che altro non è se non un languido inarcarsi della terra nel corpo dell’uomo: e nell’essere tutto, un panico sponsale come quelli delle divinità prima che Cristo venisse a struggerne ogni fibra. E l’esplosione della testa con cui i vivi, noi vivi crediamo di neutralizzarli non è che il definitivo ricongiungimento alla madre e sposa [benché da quel pulpito, le parole di don Giorgio Giorgio corrispondevano a comprovata realtà: a far saltar per aria la testa degli zombie, ne usciva una nuvola azzurrognola non troppo diversa, soggiungeva alcuno, ma comunque diversa, altri ribatteva, da quella esalata dai “pinguini” in hora mortis, nuvola di spore: che andavano a infettare il terreno, e il malcapitato che successivamente ne avesse aspirato i miasmi: e aggiungiamo subito qui prima che me lo dimentichi, Che il numero degli zombi in ragione di tutte queste circostanze aumentava. Ma torniamo a don Giorgio Giorgio, che ogni volta che toccava il tema Madre-e-Sposa s’incendiava d’eretici furori] – Che tutto l’orrore della storia umana non sia che la conseguenza dell’aver creduto l’incesto, il più naturale e divino degli impulsi [la frase, più e più volte ripetuta nelle più disparate omelie, si era col tempo ritornellizzata e ripotenziata a mantra, e nessuno del gregge ormai se ne scandolezzava più, e quasi ormai la bisbigliavano in secondante antifona] un atto contro natura? Non è lo stesso riarticolarsi di Dio in Trinità effetto della Sua fecondazione della più bella delle sue figlie? E vittima della Sua unità, non poté fare altro che di nuovo generare se stesso in Teoclone [tale la neonimìa con cui talvolta si rivolgeva al Figlio di Dio], poiché un nuovo tzumtzum [ignari di teologia ebraica, i fedeli qui supponevano una qualche celia, a un bicchiere di troppo, a un principio di Alzheimer o altre più rare malattie neurologiche] avrebbe spazzato via il Creato––– Non mi ricordo più cosa c’entravano gli zombi ma eccoli, miti come ombre [non casuale, il termine di paragone: poiché più di un esperto aveva creduto di poter riconoscere un legame di natura ancora “tutta da esplorare”, con i parassiti noti localmente come ombrosi], gli zombi condividono con gli angeli l’antropomorfia, in armonia con l’inumanità”. Ed era, questo inarcamento della terra così liricamente tratteggiato dal sacerdote, effettivo: e insieme incomprensibile. Gli zombi, per dire, fiorivano di tra le pieghe della carne perduta, pacificamente allungati sul terreno: alcuni emettevano perfino delle sottili radici, quasi marionette i cui fili si inabissassero nel suolo, ed erano questi i più pericolosi, perché infine quasi del tutto fusi con il terreno diventavano di fatto indistinguibili per l’incauto passante che vi si fosse seduto nei pressi. E il morso era realmente dissimulato da una sostanza anestetizzante che si sviluppava nella saliva degli zombi. Né l’infezione era scontata: addentata la preda, lo zombi ne doveva succhiare gli umori per almeno una quarantina di minuti perché il non ancora isolato fattore metamorfico potesse avere modo di installarsi nel corpo dell’ospite. E la fioritura degli zombi, con i suoi profumi e il suo corteggio fatato di impollinatori, e la pace che ciascuno di loro portava dipinta sul volto sempre più simile a una zolla di terra avevano fatto sì che non pochi umani prendessero la decisione di farsi mordere e infettare, e dimenticare lentamente la pena delle loro vite. Il decorso era dei più dolci che si possano immaginare (cinematograficamente ne sarebbe uscito un giulebbe di tenere lacrime e reiterati congedi dai cari e dalle proprie memorie, di fiori notturni còlti direttamente dalle proprie cervici, di progressiva comprensione e fusione con il regno vegetale, con la vasta e luminosa – tale la descrivevano gli zombi poco prima che svanisse anche l’ultimo minuzzolo dell’anima loro – alchimia della terra); ma era infine una morte: a metamorfosi avvenuta, cessava ogni pulsazione del circolatorio e ogni attività cerebrale o nervosa, e gli zombie andavano di norma a ritirarsi verso le foreste e i prati, in attesa forse del passante da mordere – non era molto chiaro, il ritmo vitale essendo talmente rallentato che al momento le evidenze erano troppo poche per capire se gli zombie mordevano i potenziali ospiti per nutrirsi o obbedendo a chissà quale cieco impulso di questa oscura e forse aliena sindrome.

Molteplici le ipotesi sull’origine: che fosse un effetto secondario del mescolarsi alla terra degli organi nebulizzati dei “pinguini”, che mescolandosi a non so che fungo o che radice avrebbero poi contaminato intere regioni (pareva assodato che alcune zone andassero più soggette di altre all’infezione)? Che fosse invece un obiettivo deliberatamente perseguito dai “colibrì”, e il loro frenetico andirivieni tra l’astronave e il terreno dello stadio di Briwen una paziente contaminazione del pianeta? O forse l’invasione non era da mettere in conto, e occorreva invece soffermarsi sul processo di dematerializzazione dell’uomo ormai in corso da tempo, processo che ora avrebbe finito per innescare una risposta dell’organismo che, ritrovandosi ormai privo di una psiche, ne cercava un’altra nel sottosuolo?

“Scacciati dall’Eden, Adamo ed Eva infine vi fanno ritorno trasformando sé stessi in Giardino e diventando essi stessi il nutrimento dell’Albero della Conoscenza”, si congedava don Giorgio Giorgio, ripreso finalmente il filo e la via del missa est.

E anche molti dei morti cui erano appartenuti i vestiti che ingombravano la macchina in cui vivevano le due sorelle e la bambina con il frac erano riemersi da dove erano stati sepolti. E una sera la bambina aveva trovato le due donne davanti a un albero. Avevano catturato uno zombi e l’avevano appeso a testa in giù al ramo di un albero morto. Il corpo della creatura si muoveva debolmente, frusciando di sue nuove radicole, presso che insensibile alle lame con cui le due donne gli stavano pazientemente perquisendo i visceri ormai quasi risucchiati nella nuova forma dell’essere. La bambina si era accucciata accanto alla testa dello zombi appeso, stillante di molli resine che stavano creando una pozza sotto di lui.

Quando la bambina si era avvicinata al suo sorriso, le era sembrato che la testa sillabasse un afono “Eccoti qua”. Poi le due donne avevano cosparso lo zombi di benzina e avevano dato fuoco a lui e all’albero.

“Come è avvenuto che i nostri due mondi si incontrassero? E se anche questi alieni, e i mostri che si sono generati dal nostro incontro, fossero parte di un più grande mistero? Poiché non esiste per noi che siamo in questo mondo mistero più grande: che due naufraghi perduti in un mare infinito si ritrovino infine uno davanti all’altro. Rendiamo grazie a Dio.”

Alcuni anni dopo, nel primo giorno alle scuole elementari, Miloš non si sarebbe ricordato della bambina con il frac che aveva fatto piangere l’altra bambina all’asilo. Che due naufraghi si incontrino nel mezzo dell’oceano: il più grande mistero.

Senza ricordarsi di lei, Miloš l’aveva incontrata anni dopo nel cortile ancora vuoto della scuola elementare, tutti e due lasciati lì con un anticipo di un’ora sull’inizio delle lezioni, le samare che giroscendevano dal cielo come insettini meccanici scappati da un disegno di Leonardo da Vinci. Non aveva riconosciuto il proprio e il di lei naufragio, né i mostri che erano di là da venire. Ma le aveva dato un pezzo di mela che si era portato da casa e dopo un po’ che erano rimasti in silenzio seduti sui gradini di cemento le aveva detto: “Diventiamo amici?”

[continua il 22 giugno]