Un legame ambiguo. Letteratura e territorio

Anche oggi non si sa per chi si racconta: ad esempio in rete si racconta per un pubblico sconosciuto, ma di fatto si sa sempre di più che il pubblico che andrà a cercare il nostro racconto non sarà del tutto ignoto, sarà – salvo eccezioni – abbastanza prevedibile in termini di abitudini di lettura e di preferenze. Scriviamo su riviste digitali e siti specializzati che fungono in parte da camere di risonanza delle nostre opinioni; del resto, sarebbe difficile trovare in rete un sito davvero generalista che abbia successo offrendo solo finzioni. Quindi, come prima si raccontava per una comunità stanziale su un territorio, oggi si racconta per una delle tante microcomunità o tribù digitali raccolte attorno a una manciata di siti o di riviste.

Per quanto in anni recenti il legame fra letteratura di finzione e territorio sia stato oggetto di studi e corsi di insegnamento universitari, continua insidiosamente a richiamare lo sguardo come un problema mal posto. Ogni racconto, come del resto ogni altro fenomeno, si sviluppa nel tempo; se lasciamo da parte gli sperimentalismi, il più delle volte fa anche riferimento a uno spazio ossia, nella maggior parte dei casi, a un territorio; ma questo aspetto indica una necessità funzionale del racconto, non il suo fine, che resta la rappresentazione dell’esperienza umana. Il rilievo tematico del legame è decisamente meno centrale di quanto invece l’enfasi odierna non indichi. Naturalmente, non si può dire che manchi: un lavoro sistematico impegnativo come l’Atlante della letteratura italiana uscito poco più di dieci anni fa da Einaudi lo indagava in modo eterogeneo, con contributi rivolti al pubblico accademico, i più interessanti dei quali – per quanto riguarda il mondo contemporaneo – ricostruivano in grandi quadri i luoghi della cultura di un particolare periodo, o i luoghi degli autori consacrati. Ma a un livello più in basso si trova dell’altro. In termini di grande comunicazione, il contesto retorico della promozione della ricettività e dei prodotti tipici – dall’autenticità del terroir alle promesse del chilometro zero – ha sottolineato a tal punto il carattere culturale del territorio, rivestendolo di racconti colti da una tradizione più o meno inventata, da rendere più stretto il legame con la finzione letteraria; peggio, da indurre perfino a credere che la letteratura, ridotta a storytelling, in fondo non sia che una funzione del territorio (e, per i più convinti, che le spetti il compito di illustrarlo). In questo caso, le mai del tutto sopite nostalgie di rispecchiamento incontrano nuove esigenze aziendali.

Altri inconvenienti emergono in modo irresistibile nelle occasioni pubbliche, quando si invita a salire sul palco l’autore che si è specializzato scrivendo di un luogo in particolare: «Diamo il benvenuto allo scrittore che parla della nostra città!» come se il fatto di aver ambientato un giallo, o una serie di gialli in un luogo familiare fosse determinante per qualificare il suo lavoro come «qualcosa che parla di noi». Certo, non tutto si risolve in questi termini, si sa che il punto sta nel come, e non nel cosa la letteratura dice – nel modo e non nell’oggetto di cui parla – ma quando la letteratura funziona, rendendo come si usa dire universale il particolare, tende a uscire dal contesto in cui è nata. La letteratura regionale, il regionalismo, per quanti risultati abbiano prodotto nel tempo – e vengono ascritti a questa categoria anche libri come Cristo si è fermato ad Eboli – assumono rilievo soprattutto in un’ottica storica e sociologica. Naturalmente, i testi saggistici intrattengono col territorio un rapporto che segue quest’ottica più da vicino.

Tutto sta poi a capire di cosa si sta parlando. Con ambiente in senso stretto, secondo una prospettiva di tipo fisico-naturalistico, si intende un insieme di risorse biotiche e abiotiche che interagiscono fra loro, ossia zone che ospitano organismi viventi e zone che non li ospitano. L’ambiente è tale a prescindere dagli organismi che lo abitano. Il territorio di norma indica invece una porzione più ristretta, una realtà di interazione fra essere umano e ambiente e viene quindi inteso in termini antropologici e socio-economici: si identifica nel contesto che porta inscritte in sé le trasformazioni che l’uomo ha operato sull’ambiente, il modo in cui ha interagito (più o meno bene) con le risorse naturali: un esempio è il territorio rurale. La nozione di paesaggio segue invece le vicende della Geografia. Nei Lavori preparatori dellaPrima conferenza nazionale sul paesaggio (1999) Vittoria Calzolari ha trovato una definizione fortunata: «La manifestazione sensibile e percepita in senso estetico del sistema di relazioni che si determina nell’ambiente biofisico e antropico che caratterizza il rapporto delle società umane e dei singoli individui con l’ambiente e con il territorio, e con i siti e i luoghi nei quali si sono sviluppati, abitano e operano». Molto più che nel caso di un ambiente o di un territorio, per avere un paesaggio dobbiamo avere un occhio che lo osserva. La nozione di paesaggio è stata oggetto di numerose definizioni, da quella soggettiva a quella oggettiva, da quella storica a quella culturale. La Costituzione (articolo 9, secondo comma) lo protegge insieme al patrimonio storico e artistico. In seguito sono arrivate le norme sulla salvaguardia dell’ambiente (e la recente modifica dell’articolo 9). Eppure il termine paesaggio e perfino il suo concetto, che pure hanno storicamente accompagnato la riflessione del rapporto fra uomo e ambiente, oggi sembrano usciti dal dibattito pubblico.

Ora, si può fare letteratura con i tre diversi ambiti: ambiente, territorio e paesaggio. A noi interessa soprattutto il secondo.

2.

Come si mostra il territorio? Con una vitalità decrescente. Nelle opere dell’antichità classica l’ambiente e il territorio emergono come qualcosa di vivo, che non solo interagisce con l’uomo, ma che coopera all’azione dell’eroe, ostacolandola o favorendola (dovremmo dire: volontariamente). Poseidone e Eolo spingono Ulisse lontano dalla rotta che dovrebbe seguire per tornare a Itaca. Le metamorfosi ovidiane mostrano in atto, per così dire, la natura divina dell’ambiente: Dafne tramutata in alloro; il gelso che muta il colore del frutto in onore di Piramo e Tisbe; Filemone e Bauci che al termine della loro lunga esistenza diventano una quercia e un tiglio intrecciati. Anche nella quotidianità rurale e pastorale, dietro la natura si mostrano gli dei (Demetra o Cerere, Artemide o Diana). L’ambiente e il territorio sono dunque vivi. Nel mondo cristiano il Creato è a disposizione dell’uomo, che deve rispettarlo, ma che ne trae i frutti di che vivere «col sudore della fronte» (Genesi, 3). Progressivamente il territorio acquisisce autonomia, non è più percepito solo come una “valle di lacrime”. A partire dall’anno Mille, l’uomo cerca di trasformarlo per elevarlo. Per la Scuola francese di San Vittore (in particolare per Ugo e Riccardo di San Vittore) l’uomo lo trasforma per restituirgli la dignità che la terra ha perduto dopo la Caduta dal Paradiso terrestre. L’agricoltura diventa così una filosofia meccanica.

Se il territorio è l’ambito dei miracoli, l’ambiente invece è il luogo dei prodigi, ma dai racconti delle navigazioni medievali in cui si mostra il meraviglioso progressivamente si passa con una sorta di normalizzazione quotidiana verso il territorio in cui il contenuto dottrinale si affievolisce fino a scomparire per lasciare sempre più spazio all’avventura. Ricordiamo che l’ambiente è anche il contesto delle fiabe (e in parte, ma meno, delle favole, che con gli animali parlanti si muovono anche su qualcosa che sembra già un territorio). Con lo sviluppo del commercio, il territorio non è più solo, anzi è sempre meno quello in cui si risiede. L’affermazione dei mercanti introduce la necessità di apprendere soluzioni per cavarsela in ogni circostanza in vari contesti. Ma se i protagonisti delle novelle usano con spregiudicatezza il loro libero arbitrio affidandosi a Dio per quel che resta, qualcosa cambia con la rivoluzione scientifica: la valorizzazione dell’aspetto matematico del gran libro del mondo incoraggia uno sguardo diverso sul territorio, che le Accademie si incaricano di promuovere. Nel romanzo il territorio ha una definizione incerta, in divenire (nel romanzo picaresco tende a una costante ostilità; nei poemi cavallereschi è favoloso, mentre la campagna inglese nei romanzi del Settecento e del primo Ottocento risulta più accogliente.) Dopo la rivoluzione industriale, il territorio torna a imporre una stanzialità sofferta e inevitabile; e sembra sempre più asservito alle esigenze umane, nel bene e nel male, fin quasi a scomparire dentro la Storia: in guerra, con la sua devastazione, e in pace, con lo sfruttamento intensivo. Il tessuto urbano diventa così fitto che il territorio si limita semplicemente alle strade o all’intervallo fra un edificio e l’altro. Nel novel si riduce alla scena su cui si svolge l’azione umana.

Ma chi racconta il territorio e che ruolo gioca il territorio in questi racconti? Il territorio, o meglio la sua civiltà materiale, esprime i costumi di una comunità che vi è stanziata. Chi si muove fa esperienza, cresce. In certe culture l’uscita forzata dalla comunità rappresenta un rito di passaggio puberale.

Nel citatissimo saggio sul Narratore di Leskov, Walter Benjamin ricordava che i narratori veri sono di due tipi: chi non si allontana mai dalla comunità e ne diventa per questo memoria, come l’agricoltore, o potremmo dire il calzolaio di un tempo; oppure chi viaggia, come certi artigiani o i mercanti che ogni giorno escono dalla comunità e quando vi rientrano riportano le novità o avventure che sono loro capitate in un altro contesto. Potremmo riassumere la faccenda in questo modo: da una parte il custode dei racconti di una comunità e di un territorio, dall’altra l’esploratore. Chi viaggia conosce le novità, chi resta vede stratificarsi il passato. In questo modo sono fiorite migliaia di narrazioni nelle quali il territorio non è mai irrilevante, né anonimo (è il nome che diamo ad abitudini e culture diverse). Giustamente Benjamin ricordava che «l’orientamento pratico è un tratto caratteristico dei narratori nati». Anche oggi un pranzo di artigiani può stupire per gli innumerevoli aneddoti. Cosa si racconta, quale forma prende la narrazione? Un fatto singolare, un exemplum, un racconto che mirano a un consiglio utile in senso morale, o regolamentare, o ancora e più semplicemente pratico.

A chi si rivolge la narrazione? A lungo si è detto che un racconto si rivolge alla sua comunità; poi invece, a partire dall’età moderna e dalla stampa, grazie al romanzo ci si è rivolti a un pubblico sconosciuto, a uno spazio ulteriore rispetto a quello comunitario. Il romanzo diventa l’atto sociale di un uomo solo, che non trae le sue storie dall’esperienza, ma esprime «il profondo disorientamento del vivente». Questo ha retto dalla modernità fino al primo Novecento, con una singolare ripresa nel Secondo Novecento attingendo linfa dall’Europa centrale, dal Sudamerica, da certa America del Nord.

Siamo ancora dentro quell’orizzonte? In termini teorici lo si può rivendicare, ma ormai ci troviamo da un’altra parte. Anche oggi non si sa per chi si racconta: ad esempio in rete si racconta per un pubblico sconosciuto, ma di fatto si sa sempre di più che il pubblico che andrà a cercare il nostro racconto non sarà del tutto ignoto, sarà – salvo eccezioni – abbastanza prevedibile in termini di abitudini di lettura e di preferenze. Scriviamo su riviste digitali e siti specializzati che fungono in parte da camere di risonanza delle nostre opinioni; del resto, sarebbe difficile trovare in rete un sito davvero generalista che abbia successo offrendo solo finzioni. Quindi, come prima si raccontava per una comunità stanziale su un territorio, oggi si racconta per una delle tante microcomunità o tribù digitali raccolte attorno a una manciata di siti o di riviste che tornano a pagamento, mentre anche l’editoria (nelle scelte degli editor) si rivolge a un pubblico definito, con testi che sembrano sempre meno “scritti” e che molto probabilmente soffriranno per primi la concorrenza dei testi prodotti dall’intelligenza artificiale generativa.

Quanto al reportage, in questi anni è piaciuto perché sembra derivare dall’esperienza, non si rivolge a un particolare tipo di pubblico e richiede al lettore un impegno generico. Apparentemente, mostra in opera un’esperienza diretta e non un’invenzione (quest’ultima non è democratica: nelle finizioni c’è chi è bravo e chi lo è meno, fatto che suscita invidie inevitabili nel popolo dei social che si pensa scrittore; un’esperienza su un territorio sembra invece dare meno problemi perché almeno in apparenza la possono vivere tutti). L’autore del reportage non incontra difficoltà a motivare la ragione per cui prende la parola: ci è stato di persona, ti racconta ciò che ha visto. La domanda è: che ruolo gioca il territorio in tutto questo e in quali forme?

3.

È stato detto più volte, anche autorevolmente, che nessuno ha un’impressione più viva delle strade della Castiglia di inizio Seicento del lettore del Don Chisciotte, dove queste non sono mai descritte. Per quanto vera, oggi questa affermazione suona fastidiosamente letteraria. Il Don Chisciotte si è allontanato molto da noi: la sua ironia, come la saggezza popolare di Sancho, suonano remote.

Diverso, ovviamente, è il ruolo che il territorio gioca nelle narrazioni che lo assumono per tema, che vanno dai resoconti degli storici classici al Milione di Marco Polo, o dai rapporti, come quelli scritti da Machiavelli, o come il Diario di bordo di Antonio Pigafetta che racconta il giro del mondo compiuto dalla spedizione di Magellano. Da una parte, quindi, troviamo i racconti di finzione di chi potrebbe anche non muoversi mai dalla propria stanza; dall’altra quelle forme di racconto che derivano dallo spostamento su un territorio, o perfino dall’esplorazione di un ambiente. Qualche esempio: gli esploratori in Antartide, o sull’Everest, Bruce Chatwin in Patagonia, V. S. Naipaul nella caligine in India, fino ai racconti di territorio degli antropologi, anche degli antropologi del presente e dei non-luoghi. Più in dettaglio, si è detto giustamente che Se questo è un uomo di Primo Levi è un emblema di realismo topografico. Nei libri di W.G. Sebald il territorio è l’elemento individuato geograficamente, eppure ancora vago, su cui si stratificano le esperienze e il dolore dei personaggi; in modo decisamente diverso, più dettagliato – anzi quasi petulante – questo avviene anche in Vite che non sono la mia di Carrère.

Nei racconti di finzione il territorio appare come un elemento decisivo per definire il contesto e anche qualche svolta narrativa. È quel che succedeva nella Londra di Moll Flanders, ed è ciò che accade un secolo dopo nella Londra dickensiana o nella Parigi di Balzac. Un sordido territorio urbano, pieno di opportunità e di pericoli. Vale anche per la Parigi di Baudelaire, oppure per quella spettrale del Tempo ritrovato di Proust. Il funerale di Digman nell’Ulisse di Joyce è l’occasione per vedere cosa sia la città di Dublino nella famosa giornata di giugno, ma in questo grande libro restano soprattutto i rapporti fra i personaggi: il dialogo fra Dedalus e il preside della scuola dove insegna per me conta più delle descrizioni dei passanti (e si sa che il libro viene corredato da una carta topografica della città).

La questione centrale è proprio questa: descrivendo un territorio se ne scrive sempre involontariamente una carta sentimentale. In Lolita di Nabokov, specie nella seconda parte, l’odissea per l’America è anche un racconto del territorio che si sviluppa in modo non programmatico. L’atmosfera degradata e claustrofobica è resa con precisione definitiva.

Le attività umane, nel loro svolgersi, disegnano ambiti territoriali che non sempre coincidono con la geografia di riferimento e presentano interessi particolari evidenziando conflitti e opportunità. Per questo gli autori più efficaci nel far emergere il territorio sono i narratori dei rapporti di forza: Stendhal, Manzoni, Sciascia.  Dalla Certosa traiamo un’impressione estremamente precisa del ducato di Parma. Sono le tensioni fra i personaggi che reggono le vicende di Fabrizio, del Conte Mosca, della Sanseverina a rendere vivo il territorio (in fondo era così anche per la mitologia, quando le tensioni nascevano fra gli dei e gli eroi). Seguendo varie urgenze Manzoni racconta la desolazione rurale della campagna di Lecco e la Milano sudicia e sfarzosa dell’occupazione spagnola. E così in Sciascia: meno il territorio è descritto e più risalta. Vale per Il giorno della civetta e per Il contesto.

Un’eccezione, con qualche analogia, va fatta per un ambiente e un territorio-limite, ossia il mare. Come per la montagna più aspra, nei racconti di mare l’ambiente interpella l’immagine che abbiamo di noi stessi e l’esigenza di onestà verso noi stessi. I racconti di mare isolano l’uomo: pensiamo ad alcuni grandi personaggi, dal capitano Nemo a tutta la ciurma del Pequod – Tashtego, Queequeg, non solo Achab – da Billy Budd al Marlow e al Lord Jim di Conrad e anche a Jim Hawkins di Stevenson. Quanto al mare come territorio, abbiamo il porto, la pesca di cabotaggio, quella che non si spinge mai troppo al largo con le opportunità e le varie disgrazie (i Malavoglia e Il vecchio e il mare).

4.

Sul finire degli anni Cinquanta, con un’intuizione felice divenuta in seguito quasi proverbiale, Jean-Luc Godard aveva distinto i registi che camminando guardano per terra da quelli che invece guardano ciò che li circonda. I primi “vedono” la realtà assorbendola involontariamente e inventano tutto; i secondi invece non vedono niente, osservano, fissano lo sguardo sul dettaglio da cui partirà una vicenda. Fra questi ultimi citava Hitchcock, ma potremmo dire anche Antonioni, il primo Wenders; fra i primi, Rossellini, Bergman, Fellini. Kubrick sembra del secondo tipo, ma in realtà è del primo. De Palma è del secondo tipo, Lynch del primo. Tarantino è uno che guarda per terra, come Paul Thomas Anderson. Va così anche per gli scrittori: chi guarda a terra, fa sua la realtà e la reinventa con l’immaginazione, altri invece fanno nascere il racconto dallo spazio.

Negli ultimi anni si è parlato spesso dei libri di Celati: quelli degli anni Settanta fanno pensare più al primo atteggiamento; quelli degli anni Ottanta, al secondo. Narratori delle pianure, Verso la foce, Quattro novelle sulle apparenze sono libri che nascono in questo contesto, scritti per lo più in varie riprese, dopo aver camminato ogni giorno per la Pianura Padana. Questo restare in attesa di qualcosa che sta per succedere, o cogliere appunto una modifica minima in un paesaggio come evento rivelatore di ciò che cambia e di ciò che invece sembra rimanere costante è un esercizio utile, a patto però di non fermarvisi. Ma anche Collezione di sabbia di Calvino fa pensare al secondo tipo di sguardo, e così lo fanno – è cosa fin troppo nota – i libri di Daniele Del Giudice. Qui il racconto nasce da una lieve, a volte quasi impercettibile infrazione delle apparenze.

Il post-modernismo americano è pieno di luoghi inventati, dichiaratamente finti. George Saunders, uno dei narratori odierni più interessanti, ha ambientato vari racconti in parchi a tema. Anche lui è uno scrittore che, per così dire, cammina guardando a terra. In Bengodi e altri racconti narra storie divertenti e terribili di persone costrette a lavorare in condizioni umilianti. Nel racconto La fallita campagna di terrore della disgraziata Mary capita un incidente apparentemente da poco: una scolaretta in gita rompe un’ala a un’anziana che in un parco a tema fa la comparsa travestita da angelo. Naturalmente, poiché il cliente ha sempre ragione, l’anziana non può lamentarsi troppo: ferma la piccola ma è bloccata dalla guardia del parco che le chiede come osi attentare all’autostima della bimba. Dunque, poiché è direttamente responsabile del suo costume di scena, deve farsi carico della spesa. Il fatto è che il costume di scena è caro. Poiché è povera (e poco pagata) non è in grado di ricomprarlo. Il capo, il signor Spencer «dice che che siccome gli gira bene mi concede due settimane per ripagare le ali prima di licenziarmi». Il racconto continua poi con la vendetta dell’anziana che riesce solo in parte e un finale tragicomico in cui le salvano la vita suo malgrado.

Un’altra raccolta di Saunders, Pastoralia, si compone di un racconto lungo, che dà il titolo al libro, e di cinque racconti brevi.

Il racconto lungo narra la storia di un uomo che in un altro parco a tema recita il ruolo di cavernicolo; come tale è costretto non solo a vivere, ma a non interagire con gli ospiti del parco e a mangiare carne cruda o poco cotta, per essere precisi «capra arrosto». Non può neanche interagire a parole con la sua collega Janet (i cavernicoli non parlavano). Se lo fanno, possono essere segnalati; anzi, loro due devono controllarsi a vicenda. Ma l’attrazione in cui lavorano è in crisi e non viene quasi nessuno. Il protagonista ogni giorno riceve istruzioni via fax e ogni sera deve compilare un questionario sulla sua giornata. Al mattino riceve dall’alto una capra che deve scuoiare; poi lui e la sua collega devono cucinarla al fuoco e mangiarla. Ma l’amministrazione ha problemi, non sempre gliela manda; quindi devono mangiare cracker di nascosto e patire la fame. La sera, entrare ciascuno nella «Zona separata», compilare comunque il modulo sul gradimento del partner. Alcuni spettatori chiedono curiosità sui cavernicoli. Janet risponde, anche se non potrebbe. A fine visita la Pagella del cliente è ottima, ma devono tenerla nascosta, visto che lei ha parlato. Il territorio, anche se è finto, è più vero del vero (perché lo sono i rapporti di forza e semplicemente lo sono i rapporti umani). Nella stessa raccolta, un racconto che si intitola Le cascate, ha al centro un dilemma: quando qualcuno sta per annegare e non si è capaci di nuotare sarebbe opportuno astenersi dall’intervenire, per evitare che i morti possano essere due, invece che uno. Il fatto è che non ci si può astenere sempre.

Nota. Di seguito i testi a cui si è fatto riferimento. Il contributo di V. Calzolari, in Prima Conferenza nazionale per il paesaggio. Lavori preparatori, Roma, Gangemi Editore, 2000, p. 56. Il saggio di W. Benjamin, Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov è compreso in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995 (i due passi citati si trovano a p. 250 e p. 251), ma ora è in commercio anche singolarmente, sempre per Einaudi; G. Saunders, Bengodi e altri racconti, Roma, minimum fax, 2015 (il passo citato è p. 196); Id. Pastoralia, Roma, minimum fax, 2014. Il parere di Godard si trova in A. Farassino Jean-Luc Godard (1945-1976), Roma, Il castoro cinema/L’Unità serie 2, 1995, p. 6. L’Atlante della letteratura italiana è stato pubblicato da Einaudi in tre volumi a partire dal 2010. Il terzo volume, dedicato all’età contemporanea, è stato curato da Domenico Scarpa. (wn)